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mercoledì 31 agosto 2016

UN PRIMO BILANCIO SULL'INTERVENTO TURCO IN SIRIA, di Pier Francesco Zarcone

LE ESIGENZE MILITARI DI ANKARA

Fino al maldestro golpe dello scorso luglio gli Stati Uniti (su cui continuano a gravare sospetti di appoggio almeno indiretto) si erano sempre opposti in modo fermissimo a interventi armati della Turchia in Siria. Giorni fa il ribaltamento di questa posizione e il tradimento ai Curdi dell'Ypg, che sul terreno si erano dimostrati un efficace strumento nella lotta contro l'Isis, perché sui campi di battaglia siriani tanto le truppe di Assad quanto l'Isis avevano concentrato la loro azione essenzialmente sulle altre formazioni jihadiste, privilegiando l'obiettivo della loro eliminazione prima di arrivare allo scontro decisivo tra Damasco e lo pseudocaliffato.
Alla notevole espansione curda nel nord siriano ha fatto seguito l'inizio degli scontri con l'esercito di Damasco nella città di Hasakah, interpretati da alcuni analisi internazionali come un segnale alla Turchia sul fatto che anche il governo siriano considerasse ormai i Curdi una minaccia. In quell'occasione l'intervento dell'aviazione siriana aveva tuttavia provocato una minacciosa reazione statunitense, considerata da molti il segno della solida alleanza instauratasi tra Washington e l'Ypg curdo. Invece gli statunitensi hanno poi dato mano libera alla Turchia proprio contro i Curdi.
La dura reazione turca alla conquista curda di Manbij inizialmente ha forse sorpreso più del dovuto, poiché risulta che lo scorso anno gli Stati Uniti effettuarono un accordo di scambio con la Turchia: un maggiore impegno di Ankara contro l'Isis, superando quelle che sono state definite eufemisticamente "ambiguità" turche, a fronte dell'impedimento dell'espansione curda a ovest dell'Eufrate.
Facciamo riferimento alla mappa allegata: le zone in verde chiaro sono occupate dai Curdi di Siria, in quali prima di Manbij occupavano solo la parte orientale dell'Eufrate e alcuni territori nel nord-ovest. L'interesse turco consiste nell'impedire che i Curdi uniscano le zone verde chiaro occupando territori controllati dall'Isis (in grigio scuro) e da quel che resta dell'Esercito Libero Siriano (verde di media gradazione), mediante i quali potrebbero formare una propria entità ai confini con la Turchia, onde poi meglio collegarsi con il Pkk. Caduta Manbij, non solo l'Ypg non si è ritirata a est dell'Eufrate, come invece i loro tutori statunitensi avevano concordato con Ankara, ma si sono abbandonati a baldanzose dichiarazioni progettuali sull'assetto dei territori occupati e sull'intenzione di conquistarne altri nella stessa zona. Il voltafaccia statunitense è stato immediato, letteralmente "mollando" i Curdi.

CHE CI PUÒ GUADAGNARE WASHINGTON

Si potrebbe dire che ancora una volta Washington ha dimostrato di essere in balia degli eventi nel conflitto siriano, e di non riuscire a realizzare in modo coerente ed efficace iniziative proprie. Senza confutare il merito di questo assunto, non si può tuttavia negare che l'iniziativa turca apre per gli Usa alcune possibilità insperate. Di recente il New York Times ha commentato che gli Stati Uniti hanno effettuato la scelta di sacrificare qualcosa nell'alleanza con i Curdi pur di recuperare i rapporti con la Turchia, importante membro della Nato e (si spera) funzionale alla guerra contro l'Isis. Difficile che così non sia stato.

martedì 30 agosto 2016

FUOCOAMMARE (Gianfranco Rosi, 2016), di Pino Bertelli

«Perché fai la rivoluzione?», chiesero alla donna messicana.
«Per ripulire il mondo dalla feccia come voi!», rispose.
(Poi i soldati la stuprarono e la uccisero con quanti erano rimasti del villaggio).
[Richard Brooks, I professionisti (The Professionals), 1966]

La feccia della politica, in Europa e nel mondo, beneficia delle follie terroristiche dell'Isis (o Stato islamico) per aumentare i consensi nazionali e più ancora per incrementare il mercato delle armi… tutti armano tutti (specie gli Stati Uniti, ma Italia, Cina e Russia non scherzano!) e tutti compiono massacri in nome della pace, della tolleranza e dell'amore tra i popoli. Porca puttana ladra! Madonna maledetta! Dio affogato nel letame! Stato boia!… ma come è possibile continuare a mentire sugli innocenti affogati nel Mediterraneo e i massacri commessi dai governi forti a danno di interi popoli?… l'ideologia dei mercati globali permette ogni cosa, «i diritti dell'uomo sono semplicemente un pretesto per perpetuare il colonialismo dietro la copertura, politicamente corretta, dell'umanitarismo, oppure la scusa, politicamente redditizia, di dover placare le paure dei nostri cittadini… proseguire la politica imperialista senza darne l'impressione» (Michel Onfray)1. Se i diritti dell'uomo - si chiede Onfray, uno tra i maggiori filosofi libertari del nostro tempo - fossero la vera ragione delle carneficine santificate delle "grandi potenze" occidentali e quelle criminali dei regimi "comunisti"… si dovrebbe attaccare anche i Paesi che violano i diritti umani e il diritto di sovranità internazionale? Perché non bombardare la Cina! e Cuba, l'Arabia Saudita e l'Iran, il Pakistan e il Qatar?… magari, per errore del "fuoco amico", fare piazza pulita dello Stato del Vaticano, così per impedire che la sua fabbrica di menzogne e le sue banche proseguano il commercio delle armi e possano ancora essere complici dei più efferati genocidi della storia.
Lo Stato islamico (ovunque esplodano le sue bombe), i talebani in Afghanistan, Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia, Assad in Siria, i sionisti israeliani o lo spettacolo in mondovisione delle "Torri gemelle" che franano nella polvere come torte alla crema… sono parte di un confortorio di specchi dove l'Occidente gioca sporco quanto i terroristi che lo sbranano… i padroni del mercato vogliono controllare il petrolio, i diamanti, l'oro, l'acqua e persino le sementa in territori che non sono loro… non si capisce proprio quali sono i buoni e quali i cattivi… tutti (o quasi) sono degni del nostro disprezzo. Una civiltà muore quando fagocita verità che la escludono!
Patria, valori, onorabilità, decoro… sono i lasciapassare dei carnefici della libertà e sono dispensati a protezione del neocolonialismo guerrafondaio/consumerista. Il terrore del domani è già iscritto nelle bombe intelligenti, nelle stragi chirurgiche, nell'alzo dei dividendi delle banche… tutte le umiliazioni dell'umanità provengono dal fatto che gli uomini non vogliono accettare la morte per fame! Ancora oggi è da stimare di più un ribelle che muore fucilato dagli aguzzini dei "trattati di pace scritti col sangue dei popoli", che il generale, il politico o il vescovo che ruba nella cassetta delle offerte, impiccati a un lampione nei giardini di pubblica utilità. Agogniamo l'avvento di una rivoluzione sociale che metta fine alla secolarizzazione delle lacrime e dare ai ciarlatani dell'economia-politica (con i cani da guardia dei mezzi di comunicazione di massa a corto di trucchi) la sorte che meritano.

lunedì 29 agosto 2016

LA MINI-INVASIONE TURCA NEL NORD DELLA SIRIA, di Pier Francesco Zarcone

L'iniziativa turca di invadere una piccola parte del nord siriano e occupare Jarablus induce a forti preoccupazioni politiche e militari, poiché in una situazione come quella siriana l'ingresso di nuovi soggetti - in particolare se "di peso" - complica e incancrenisce, rendendo meno probabile o vicina una soluzione e aumentando invece le probabilità di balcanizzazione o somalizzazione dell'area, nonché l'indebolimento della lotta all'Isis. Tra chi se ne rende conto benissimo c'è sicuramente lo stesso Erdoğan, che tuttavia è mosso da suoi obiettivi specifici.
Lo si può arguire dalla ridicola dichiarazione ufficiale turca secondo cui lo scopo dell'iniziativa militare starebbe nella chiusura del confine con la Siria in funzione anti-Isis. Il ridicolo nasce dal fatto che Ankara avrebbe potuto tranquillamente ordinare alle proprie Forze armate di effettuare tale chiusura dal lato turco, giacché in termini di sicurezza acquisire il controllo di alcuni chilometri quadrati di territorio siriano non serve proprio a nulla.
È palese - e non vi è serio osservatore internazionale a negarlo - che obiettivo del governo turco sono i Curdi dell'Ypg, legati al Pkk, e in particolare impedire loro di completare - mediante la conquista di Jarablus - l'occupazione territoriale necessaria per la definizione di un'entità curda confinante con la Turchia. La successione dei fatti è chiarificatrice. Dopo l'occupazione curda di Manbij, sottratta all'Isis, a Jarablus i Curdi proclamavano la creazione di un nuovo consiglio militare; dopo tre ore da quell'annuncio il capo di tale organismo veniva assassinato e il mandante era additato nel governo turco. Poi, l'occupazione turca di Jarablus e la pretesa di Ankara di avere anche Manbij e l'immediato ritiro curdo a est dell'Eufrate. Ritirata peraltro avvenuta con tempestività. Cioè a dire, gli Stati Uniti, che l'Ypg considera suo alleato, "come da copione" hanno tradito gli ingenui e ambiziosi Curdi, preferendo non creare con la Turchia ulteriori frizioni delle quali potrebbe avvantaggiarsi la Russia.
Non si dimentichi che in Oriente i simboli - e le date simboliche - hanno una grande importanza, ormai scomparsa e incomprensibile in Occidente, e quindi mantengono intatta la loro capacita di espressione: ebbene, gli stessi giornali turchi hanno tenuto a sottolineare che l'ingresso in Siria delle truppe avveniva nel 500º anniversario della battaglia di Marj Dabiq (a nord di Aleppo), che durante la guerra fra Ottomani e Mamelucchi sirio-egiziani (1516-1517) aprì ai primi la strada per la conquista del Vicino Oriente e iniziò la fine dell'Impero mamelucco. Alla sottolineatura commemorativa fatta dalla stampa turca si potrebbe aggiungere che dopo la Grande Guerra la perdita della Siria settentrionale (e di Mosul) fu molto "mal digerita" dalla Repubblica di Turchia - forse nient'affatto metabolizzata - e oggi probabilmente Erdoğan pensa di avere la possibilità di recuperare (almeno parzialmente) quanto non riuscì a Kemal Atatürk. A questo punto si pone il problema se le ambizioni di Erdoğan si fermino qui, o al contrario se non riguardino anche Aleppo (il che sarebbe storicamente naturale) e magari - in prospettiva - Mosul.

domenica 28 agosto 2016

APAGA LA TV Y ENCIENDE LOS SENTIDOS: REVOLUCIÓN O CAMBIO CIVILIZATORIO (II), por Guillermo Sira (Utopía Tercer Camino)

Revolución es un giro que cambia el orden de las cosas, actores, cambia nombres, reescribe la historia, pero todo a la sombra de la vieja civilización occidental y sus valores. La revolución chavista hizo todo esto: giró hacia la izquierda el caballo del Escudo Nacional, cambió a los adecos por gente de “izquierda”, adecos y copeyanos, de a millones, cambiaron franelas blancas y verdes por el nuevo ropaje rojo, a todo se le cambió el nombre, se apellidó lo que se pudo como bolivariano, se le colocó el remoquete de poder popular a los ministerios, se ha tratado de manipular la historia reciente para dejar sentado que lo más importante en ella ha sido el golpe de estado fallido del 4F y que de allí arranca una increíble épica que sellará la independencia que quedó incompleta en el siglo XIX y se paseó la espada de Bolívar al lado de la petrochequera para afirmar un liderazgo prepago por todo el mundo.
Un cambio civilizatorio es algo mucho más profundo que las revoluciones porque cambia un sistema de valores por otro, donde la vida cobre el sentido que perdió gracias al falso desarrollo, al dinero, al deseo de consumo, de comprar. Contrastemos dos valores claves que pertenecen a las culturas originarias con los valores de la revolución bolivariana en Venezuela.

1er Valor: Poder, autoridad, servicio.

El poder y la autoridad para las culturas ancestrales es sinónimo de servicio

“En nuestras comunidades, la democracia implica que la autoridad es servicio. Que hay rotación en los cargos, lo que impide privatizar la función pública. Que construimos con todos nuestros consensos y por eso pueden volverse obligatorios. Y que cuando empleamos la representación, no delegamos el poder en los representantes: simplemente les damos un mandato preciso y siguen bajo nuestro control. Tienen que mandar obedeciendo.
“La autoridad. Es una función consistente en otorgar un servicio a la comunidad, en contraposición al sentido de poder que tiene en las sociedades occidentales. En nuestra ética, la autoridad se gana sirviendo y se utiliza para servir. Ejerce un papel de padre y madre al servicio de los demás”1.

sabato 27 agosto 2016

IZZAT IBRAHIM AD-DURI: MISTICO SUFI, SOCIALISTA ARABO E LAICO, MEMBRO DELL'ISIS, di Pier Francesco Zarcone

In uno degli ultimi articoli sulla Turchia si è accennato alla confraternita della Naqshbandiyya (una delle tante riemerse dalla clandestinità dopo l'allentamento delle maglie repressive kemaliste) e a un noto membro di essa, collaboratore di Saddam Husayn e traghettatore di ex baathisti all'Isis, che risponde al nome di Izzat Ibrahim ad-Duri. La storia di questo personaggio è interessante per gli squarci che consente di aprire sulle vicende del Vicino Oriente, sulla multiformità delle orientamenti politici e delle ideologie religiose, su quanto siano erronee e pericolose le generalizzazioni in senso "buonista" verso il mondo dei Sufi, e infine su possibili proiezioni in ordine alla Turchia di Erdoğan. Prima di affrontare la vita del nostro personaggio è utile dire qualcosa sulla Naqshbandiyya e sulle confraternite sufi in genere, ai fini di un miglior inquadramento.

NAQSHBANDIYYA E CONFRATERNITE SUFI

La Naqshbandiyya - dedita alla difesa dell'identità islamica - è una confraternita antichissima, fondata vicino a Bukhara nel XIV secolo da Baha ad-Din Naqshband, poi diffusasi in India e nell'Impero ottomano. I sultani di Costantinopoli in genere ne furono membri. Tutte le confraternite turche, essendo considerate reazionarie culturalmente e politicamente nonché ostacolo alla modernizzazione, vennero sciolte da Kemal Atatürk nel 1925, spogliate dei beni e perseguitate. Tutte sopravvissero in attesa di tempi migliori occultandosi, e anche la Naqshbandiyya, che però non poté evitare l'eliminazione fisica di uno dei suoi più noti sceicchi, Mehmet Esad (1847-1931), da parte dei kemalisti.
La Naqshbandiyya è un potente soggetto attivo nell'attuale islamizzazione della società turca, e questo getta ombre preoccupanti sullo scontro che si va profilando fra Turchia laica e Turchia islamica. Gli oscuri rapporti tra questa confraternita e le peggiori componenti del radicalismo islamista, come pure la maggiore contiguità di Erdoğan con la Naqshbandiyya rispetto agli stessi Fratelli Musulmani, portano a inquadrare con maggiore precisione le scelte della politica estera di Ankara nel Vicino Oriente fino al fallito golpe di giorni fa; come pure a meglio dimensionare l'errore dell'Occidente a voler considerare l'Akp di Erdoğan alla stregua di un'innocua similcopia della nostra Democrazia Cristiana in salsa islamica.

venerdì 26 agosto 2016

APAGA LA TV Y ENCIENDE LOS SENTIDOS: REVOLUCIÓN O CAMBIO CIVILIZATORIO (I), por Guillermo Sira (Utopía Tercer Camino)

Está visto que las revoluciones que se han dado en el mundo traen cambios de hombres, de actores, de posiciones de las cosas, pero no de los valores. El mayor cuestionamiento que puede hacerse a la civilización occidental se ubica en el campo de la ética, de la moral. Los valores de progreso, desarrollo y crecimiento han estado siempre asociados al concepto de poder, dominio del ser humano sobre la naturaleza, de unos seres humanos por otros, de unos grupos humanos por otros, de unos países por otros, de unos gobiernos por otros. En las últimas décadas la instauración del neoliberalismo hizo posible el dominio de toda la dinámica global, en todos sus aspectos, por el capital internacional que se encuentra monopolizado por una élite que en definitiva está en el vértice de la pirámide social marcando el rumbo a seguir. No es difícil entender que sea la banca internacional la que dicte las pautas del rumbo de las sociedades y que los supuestos jefes de estados, primeros ministros o presidentes de los países, quedaron para el papel de actores de reparto, de simple peones atados por las redes de un poder económico supra-nacional. Hace tiempo desapareció absolutamente la llamada soberanía económica y ningún país quedó libre de ataduras en este diseño triunfante elaborado por una minoría que oprime hoy a la mayoría perdedora o resto de la humanidad.
Una Revolución en este momento de la historia es un concepto gastado y que se queda corto frente a la magnitud de la crisis planetaria. Las revoluciones de los siglos pasados, la francesa, la industrial, los procesos “independentistas” de las colonias, las revoluciones inspiradas en el marxismo en el siglo XX, ninguna de ellas cuestionó ni logró amenazar los valores negativos de la civilización occidental. El sistema global-neoliberal es el nivel alcanzado por el capitalismo de la mano de procesos históricos aparentemente antagónicos, como capitalismo y socialismo, que demostraron en la práctica ser dos caras de una misma moneda. Como oposición siguen en pie sólo discursos vacíos apuntalados por dogmas que prometen revoluciones y revoluciones dentro de las revoluciones, y el sistema establecido hace siglos se ríe de ellos, los captura, los recicla, los domestica y los pone a circular en el mercado de valores.
Mientras tanto la humanidad es víctima de la vigilancia y el control social dirigido desde la punta de la pirámide, que logra hasta ahora el objetivo de mantener idiotizado al conglomerado humano, en forma de rebaño y camino al matadero. Los medios de comunicación siguen cumpliendo su papel protagónico de reforzamiento del modelo cultural del consumo, de la banalidad, de las marcas, estilos, modas, lo que dificulta el desarrollo de sujetos pensantes. Como hay mucha gente que sobra, en este continente por ejemplo, se vive dentro de un patrón estandarizado, programado por los de arriba, donde bandas gansteriles asociadas a los gobiernos de “derecha” y de “izquierda” desatan una violencia horizontal de exterminio, sobre todo de la juventud, que pudiera ser una esperanza de cambio. De México a la Argentina, el libreto es el mismo: una guerra entre los pobres que está diezmando a la población sobrante, con apoyo, control e impunidad de las mafias del narcotráfico. Genocidio permitido en marcha.

giovedì 25 agosto 2016

QUESTIONE CURDA E CONFLITTO SIRIANO, di Pier Francesco Zarcone

UNA QUESTIONE IRRISOLTA

Di recente nel quadro del già complicato scenario del conflitto siriano è esplosa la questione curda, con violenza e foriera di complicazioni notevoli per tutti i soggetti del Vicino e Medio Oriente che ne temono i contraccolpi. Le loro preoccupazioni sono aggravate dal palese e massiccio appoggio ai Curdi di Siria da parte degli Stati Uniti, direttamente presenti sul terreno a prescindere dal non esservi stati chiamati da quello che - piaccia o no - in base al diritto internazionale è il legittimo governo della Siria (simpatie e antipatie rimangono extragiuridiche) e con cui mantengono regolari rapporti paesi non di secondo piano come l'India e la Cina. I soggetti in questione sono notoriamente Siria, Turchia, Iran e Iraq.
Emersa con la fine della Grande Guerra, la questione curda è rimasta irrisolta non tanto per la cattiveria e l'ottusità dei governanti di quei paesi - che tuttavia ci sono state e l'hanno aggravata - quanto e soprattutto a causa di due fattori geopolitici: la frammentazione del Kurdistan geografico all'interno delle entità statali costituite da Gran Bretagna e Francia per i rispettivi interessi imperialistici (il caso della Turchia kemalista è del tutto a parte); nonché i fragilissimi "equilibri" interni di tali nuovi Stati (dalle frontiere palesemente tracciate col righello sulla carta geografica) sotto i profili etnico, religioso e sociale; di modo che i loro poteri centrali hanno visto un concreto pericolo di disintegrazione nella pur minima concessione di autonomia alle minoranze curde.
In linea generale della questione curda per decenni e decenni non è importato molto alle potenze esterne all'area, mentre in essa gli Stati spesso e volentieri hanno cinicamente e in vario modo appoggiato i Curdi altrui mentre reprimevano quelli di casa propria. Mancando appoggi internazionali, è mancata altresì la strumentalizzazione esterna del problema, naturalmente a scapito ulteriore dei Curdi: non si dimentichi il male derivato agli Armeni alla fine dell'Impero ottomano a causa delle istigazioni esterne in senso nazionalistico senza proposizione di soluzioni concrete e possibili, ma sostenute da reiterate e mai mantenute promesse di aiuto e difesa.

LE PREMESSE

Esistendo l'Impero ottomano, era assente una «questione curda», al pari del nazionalismo arabo, limitato a ristrettissime élite senza radici popolari: il mito di Lawrence d'Arabia - sicuramente ben costruito sul piano mediatico - è del tutto fuorviante, tant'è che quel personaggio mobilitò (a pagamento) solo qualche migliaio di beduini del deserto fra le attuali Giordania e Arabia Saudita. Le cose invece cambiarono per tutti a seguito del crollo di quell'Impero.

mercoledì 24 agosto 2016

RAGIONEVOLE (SI SPERA…) DIFESA DI UNA CULTURA UMANISTICA VIVA E ADEGUATA AI TEMPI, di Gualtiero Via

I pensieri che seguono sono rivolti innanzitutto a colleghe e colleghi, amici educatori, di vecchia data e del Mattei di San Lazzaro di Savena, la scuola in cui insegno. Abbiamo da poco cominciato a ragionare criticamente sul rapporto fra cultura umanistica e cultura scientifica. A questo stimolo si aggiunge ora l'occasione della imminente Scuola estiva dell'ADi, associazione di cui faccio parte, che dedicherà un suo focus proprio al tema della crisi della cultura umanistica.
Immagino e spero che quanto andrò dicendo possa interessare molti insegnanti, molti educatori, molti adulti.

Il tema

Personalmente non sono interessato, non certo in modo decisivo, né a discussioni sull'utilità o meno del liceo classico, né su quella dello studio del latino (o del latino e del greco). Non che non si siano lette anche cose sensate a questo proposito: se ne sono lette di sensate, di appassionate e di motivate. Ma la mia impressione di insegnante - e vorrei aggiungere, di adulto e di genitore - è che quando parliamo di "crisi della cultura umanistica" dobbiamo fare uno sforzo di ridefinizione.
Se restiamo a discutere avendo come termine di paragone i licei classici faremo poca strada. Dovrebbe essere chiaro a tutti (o almeno, a tutti quanti hanno condiviso il cammino e l'esperienza dell'ADi, a tutti quanti hanno cognizione della crisi di motivazione e senso di cui soffre tutta la scuola superiore), dovrebbe essere chiaro, dicevo, che il liceo classico non è affatto esente dalle tante pecche, gravi e annose, di tutto il resto delle scuole superiori. Prevengo una critica: a scanso di equivoci, non sto dicendo che tutti i licei classici di tutta Italia sono da buttare. Sarebbe una stupidaggine. Ma il fatto che possano esistere licei classici di buon livello - o anche di eccellenza - non basta per poter dire che il classico oggi può essere confermato, com'è, come modello. Volendo potremmo trovare scuole buone e anche di eccellenza pure negli altri licei, nei tecnici e perfino nei professionali. E saremmo al punto di partenza, a dividerci fra chi vede solo bicchieri pieni - o al più mezzi pieni - e relega fra le eccezioni i bicchieri vuoti, e chi fa l'opposto. Se siamo qui, siamo tutti convinti che di cose da rivedere su come facciamo scuola ce ne devono essere.
Lasciati da parte allora le troppe cautele e i preamboli, chiediamoci: è concepibile, oggi, un senso forte, riconoscibile, non di nicchia, per la cultura umanistica? È concepibile una missione per gli insegnanti dell'area umanistica nelle nostre scuole, oggi e negli anni a venire?

lunedì 22 agosto 2016

MASACRE DE TRELEW: 1972-AGOSTO-2016, por Nechi Dorado

Muchas veces la memoria cuando siente vergüenza se esconde en el olvido y eso es algo que no debemos ni podemos permitir.
Somos sobrevivientes de una generación diezmada, donde el “no te metás”, “yo no vi nada”, “en algo andarían”, “los argentinos somos derechos y humanos”, “el silencio es salud”, pasaron a conformar una constante que marcaba la peor de las tendencias. Para ello se fue haciendo uso de la complicidad del silencio, valiéndose del miedo, y hasta de la indiferencia, apoyada por el sempiterno individualismo que poco favor le hace al género humano.
Sin este último concepto no hubiera sido posible que el Terrorismo de Estado sentara sus bases manipulando una de las situaciones más brutales, más vergonzosas de que da cuenta nuestra historia.
No obstante y a pesar de la instalada Teoría de los dos demonios (instalada y no inocentemente) existimos quienes nos negamos a avalar semejante burrada.
Somos los que no lloramos a nuestros muertos, desaparecidos, masacrados, sino que los nombramos como guías en nuestro cotidiano andar sacudiendo páginas para que quiénes quieran, sepan qué pasó realmente cuando la muerte se ensañaba con quienes la repudiaban. Con quienes querían una patria en paz con justicia social, en contraposición con la pax del sepulcro promovida, alterando el statu quo imperante.
Somos los que sabemos que el disfraz de la historia tiene un elástico muy flojo en la cintura por lo que vuelta a vuelta anda en pelotas dejando al descubierto una verdad insoslayable.
Somos los convencidos de que hay otra vida posible y de que hubo hombres y mujeres lucharon por alcanzarlo.
Somos los que sostenemos que nuestros mártires no están muertos sino que germinan, fueron semillas sembradas por la brutalidad de un estado que apeló a la muerte dirigida desde el norte. Pero fueron tan brutos, tan imbéciles, que no entendieron que muchas veces la muerte no puede matar nada.
Nuestras compañeras y compañeros fusilados en Trelew son un ejemplo cabal de este concepto, un paradigma que habría, con el tiempo, de multiplicarse por miles a lo largo y ancho de nuestra geografía.

mercoledì 17 agosto 2016

MICHEL BURNIER, par Roberto Massari

IN DUE LINGUE (Francese, Italiano)
EN DEUX LANGUES (Français, Italien)

Michel Burnier est mort dans la nuit du 3 au 4 août à l’hôpital Georges Pompidou à Paris, après une longue lutte contre le cancer. Il a été incinéré au Père Lachaise le 11 août. Il était né en Suisse à Genève le 3 avril 1949 il y a 67 ans.
Avec lui j’ai perdu un de mes amis les plus importants et les plus anciens. En même temps le monde de la pensée libre a perdu un esprit lucide, un sociologue aux multiples facettes, un de ces esprits que nous sommes désormais contraints de définir «d’une autre temps». Quand son fils Félix m’a communiqué la nouvelle, j’ai éclaté en sanglots comme cela ne m’était pas arrivé depuis longtemps. Au fond, un morceau de moi s’en est allé avec Michel.
Je me souviens bien de la première fois que nous nous sommes rencontrés. Il se trouvait sur le seuil de mon bureau de l’Université de Paris Jussieu (où je travaillais dans le Groupe de Sociologie du travail). Il était hésitant et embarrassé, un peu comme sur la photo jointe. C’était en 1974. La photo, elle, est plus récente. À l’époque je travaillais avec une équipe de recherche européenne (franco-anglo-italo-allemande) sur les nouvelles formes de luttes ouvrières. Lui revenait d’un de ses premiers séjours à Turin où il avait peaufiné une étude sur les conseils ouvriers qui sortira seulement en 1980 aux Éditions Ouvrières sous le titre Fiat: conseils ouvriers et syndicats avec une préface de Pierre Naville. Dès cette époque cesse toute confusion entre Michel et l’auteur Michel-Antoine Burnier qui avec Frédéric Bon a publié le célèbre Classe ouvrière et révolution (Seuil 1971) et surtout Les nouveaux intellectuels, en 1966/1971.
Dans cette période lointaine de 1974 je militais encore dans la Quatrième Internationale (autant dans la section française que dans l’italienne) dont je serai expulsé environ un année plus tard. Michel lui avait déjà eu sa brève expérience dans la Quatrième (dans la section suisse, une des pires et des plus grossièrement bureaucratiques) et il s’activait avec esprit critique et ironique dans les méandres de la gauche alternative française et spécifiquement parisienne. Ses référents théoriques d’alors étaient des personnes ou groupes sortis de Socialisme ou Barbarie (Cornelius Castoriadis, Claude Lefort, le conseillisme le plus récent) mais également des anglais et des italiens. Il n’avait qu’une sympathie très éphémère pour les courrants communistes de gauche surgis pour la plupart de la diaspora trotskiste française (Jacques Camatte, Roger Dangeville, Invariance, etc.). Il appronfondissait avec attention Guy Debord (ce fut peut être lui qui m’en parla en premier).
Pour moi qui cherchais une sortie de «l’orthodoxie» troskoïde (ce que j’avais déjà tenté avec Le teorie dell’autogestione publié justement en 1974), la rencontre avec Michel apporta une bourrasque d’air frais. Avec lui surgissait un monde nouveau, hétérodoxe et profondément subversif, idéologiquement «fourvoyé (fautif, hérétique, amoral…)» pour un marxiste serieux tel que je croyait d’avoir été jusqu’a ce moment. Un monde nouveau dont j’avais vaguement entendu parler et dans lequel je trouverai plus tard les stimuli nécessaires pour poursuivre ma recherche théorique, toujours en cours, après la grande désillusion de «jeunesse» vis à vis du trotskisme de la Quatrième (c’est à dire dogmatique et orthodoxe, incapable de voir les erreurs de Trotsky au côté des ses indiscutables mérites historiques).

MICHEL BURNIER, di Roberto Massari

IN DUE LINGUE (Italiano, Francese)

Michel Burnier è morto dopo la mezzanotte tra il 3 e 4 agosto nell'ospedale Georges Pompidou di Parigi, al termine di una lunga battaglia contro il cancro. È stato cremato al Père Lachaise l'11 agosto. Era nato 67 anni fa, il 3 aprile 1949 a Ginevra.
Con lui ho perso uno dei miei più cari e più antichi amici. Ma va detto anche che il mondo del pensiero eversivo ha perso una mente lucida, un sociologo multifacetico, una di quelle intelligenze che purtroppo siamo ormai costretti a definire «di altri tempi». Quando il figlio Félix mi ha comunicato la notizia, sono scoppiato a piangere, come non mi accadeva da tempo. In fondo anche un pezzo di me se n'è andato con Michel.
Ricordo ancora la prima volta, quando ci conoscemmo. Si affacciò sulla soglia del mio ufficio all'Università di Paris Jussieu (dove lavoravo nel Groupe de Sociologie du travail), con fare esitante e sbarazzino: un po' come nella foto che allego. Era il 1974, mentre la foto è di qualche anno dopo. All'epoca lavoravo nell'équipe di una ricerca europea (franco-anglo-italo-tedesca) sulle nuove forme di lotta operaia e lui era reduce da uno dei suoi primi soggiorni a Torino dove stava completando uno studio sui consigli operai che uscirà in forma di libro - Fiat: conseils ouvriers et syndicat (con la prefazione di Pierre Naville, Les éditions ouvrières) - solo nel 1980. A partire da quel momento finirà del tutto il dubbio abbastanza diffuso che Michel-Antoine Burnier (autore con Frédéric Bon del celebre Classe ouvrière et révolution, Seuil 1971, e soprattutto de Les nouveaux intellectuels, 1966/1971) e lui fossero la stessa persona.
In quei lontani giorni del 1974 io militavo ancora nella Quarta internazionale (sia nella sezione francese che in quella italiana), dalla quale sarei stato espulso circa un anno dopo; mentre Michel aveva già fatto la sua breve esperienza nella Quarta (nella sezione svizzera, una delle peggiori e più grossolanamente burocratiche) e si aggirava con spirito critico e beffardo nei meandri della gauche alternative francese e soprattutto parigina. I suoi referenti teorici contemporanei erano personaggi e gruppi nati dalla dissoluzione di Socialisme ou barbarie (Cornelius Castoriadis, Claude Lefort, il consigliarismo più recente - quindi anche inglese e italiano), con simpatie molto più effimere per correnti comuniste di sinistra sorte per lo più dalla diaspora del trotskismo francese (Jacques Camatte, Roger Dangelville, Invariance ecc.), e ovviamente con attenzione a Guy Debord (di cui forse fu lui a parlarmi per la prima volta).
A me, che cercavo vie d'uscita dall'«ortodossia» trotskoide (un tragitto già intrapreso nel mio Le teorie dell'autogestione, apparso proprio nel 1974), l'incontro con Michel portò una ventata d'aria fresca. Con lui mi si spalancava un mondo nuovo, eterodosso e intrinsecamente eversivo, ideologicamente «peccaminoso» per un marxista serio quale credevo d'essere stato fino a quel momento; un mondo del quale avevo solo sentito parlare vagamente e nel quale invece avrei trovato in futuro gli stimoli necessari per proseguire la mia ricerca teorica, tutt'ora in corso, dopo la grande delusione di «gioventù» nei confronti del trotskismo quartinternazionalistico (cioè quello dogmatico e ortodosso, incapace di vedere i grandi errori di Trotsky accanto ai suoi indiscutibili meriti storici).

domenica 14 agosto 2016

LA REVOLUCIÓN CUBANA Y LA IZQUIERDA REVOLUCIONARIA EN LA DECADA DE SESENTA, por Jan Lust

RBA, 2013
La Revolución cubana ha contribuido significativamente a la formación y desarrollo de diversas organizaciones guerrilleras en América Latina. Sin embargo, ella no fue la causa del surgimiento de los movimientos revolucionarios en los años sesenta.
Al final de los años cincuenta una ola de resistencia “azotó” a América Latina, provocada por el estrangulamiento de las nuevas fuerzas de producción en un sistema que no solo fue diseñado para los intereses de la burguesía urbana, sino que también fue basado en una subestructura de una economía agraria arcaica. El auge de los movimientos sociales, producido por un intenso proceso de industrialización en una región atrasada y la necesidad de sustituir mecanismos de gobierno anticuados, por los que al nivel político expresarían los cambios en el terreno económico, era tierra fértil para una práctica revolucionaria.
La ausencia de una verdadera vanguardia antiimperialista hizo imposible la toma del poder por el proletariado y sus aliados en América Latina. Los partidos comunistas, por ejemplo, mostraron una desastrosa falta de imaginación política y una ignorancia asombrosa en relación con su participación en la dirección de las masas trabajadoras. En 1965 la CIA escribió en su Survey of communism in Latin America que en el corto plazo ningún partido comunista latinoamericano es una verdadera amenaza para los gobiernos existentes.
El papel de líder de las masas fue tomado a finales de los años cuarenta por un grupo de partidos populistas jóvenes que rápidamente ganaron seguidores en el Perú (Alianza Popular Revolucionaria Americana; APRA), Bolivia (Movimiento Nacionalista Revolucionario; MNR), Guatemala (Partido Revolucionario de Guatemala; PRG), Venezuela (Acción Democrática; AD), etcétera. Estos partidos lograron ganar las capas bajas de la sociedad ofreciéndoles programas de reforma. Sin embargo, una vez en el poder se mostraron incapaces de ir más allá de tímidas reformas, o fueron depuestos por los militares. Esta inmovilidad revolucionaria terminó con la Revolución cubana.
En este artículo narramos los efectos que tenía la Revolución cubana sobre la izquierda revolucionaria latinoamericana en la década de sesenta, y en especial sobre la izquierda revolucionaria peruana, y discutimos el internacionalismo de la Revolución cubana. En la última sección de este artículo argumentamos que la Revolución cubana no fue “exportada” como dicen algunos autores como Ricardo Napuri, sino que los revolucionarios de cada país tomaron las lecciones de la Revolución cubana y trataron de aplicarlas en su propio país.
Este artículo está organizado en cuatro secciones. En la sección 1 hablamos sobre el efecto que tenía la Revolución cubana sobre la izquierda revolucionaria latinoamericana. Sección 2 está dedicada a la izquierda revolucionaria peruana y la Revolución cubana. En la sección 3 se revisa el internacionalismo de la Revolución cubana en la década sesenta, y en la sección 4 discutimos la supuesta exportación de la Revolución cubana.

sabato 13 agosto 2016

STATUA DI DONÉ E LETTERA DI OBAMA, di Roberto Massari

Martedì 9 agosto, nello studio dello scultore Carlo Pecorelli, si è svolta a Jesolo l'inaugurazione «italiana» della statua di Gino Doné, alla presenza del Vicesindaco (Roberto Rugolotto, assessore alla Cultura) e alcuni organi di stampa (La Nuova Venezia, Il Gazzettino e il Corriere della Sera). Ben presto la statua sarà imballata e spedita a Tuxpan, in Messico, dove avverrà l'inaugurazione ufficiale il 26 novembre 2016 (60° anniversario della partenza del Granma), alla presenza del Sindaco e altre autorità municipali della città, di rappresentanti dello Stato di Vera Cruz e del noto biografo del Che, Paco Ignacio Taibo II.
La Fondazione Guevara Internazionale che ha fortemente voluto e organizzato tutto ciò, sarà rappresentata a Tuxpan da un gruppo di compagni/e (provenienti da Messico, Germania, Italia e Stati Uniti), compreso il sottoscritto che tutta questa vicenda ha vissuto come un sogno, a partire dall'aprile 2013, quando cominciò questa avventura sulle rive del fiume Tuxpan.
Pecorelli è un artista informale, ma per l'occasione ha realizzato (gratuitamente e con energica passione) una statua molto somigliante a Gino (si veda il suo sorriso), in armonia con le altre statue già presenti a Tuxpan nella Casa Museo del Granma. Esse raffigurano gli altri tre non-cubani presenti nella spedizione da cui doveva nascere la Rivoluzione cubana: un messicano, un domenicano e un… argentino (sì, proprio lui). L'assenza di Gino Doné, unico europeo presente sul Granma, non aveva più alcuna giustificazione dopo la sua morte (avvenuta a marzo del 2008), e così la Fondazione Guevara ha deciso di raccogliere l'invito da parte messicana a riempire quel vuoto. Grazie a Pecorelli e ai (pochi, pochissimi) compagni che si sono impegnati nell'operazione, il vuoto storicamente ingiustificato che vi è a Tuxpan verrà colmato. Cronista infaticabile di tutta questa vicenda (così come della precedente storia di Gino) è stato Giovanni Cagnassi, giornalista de La Nuova Venezia.
La campagna finanziaria è andata più male che bene a causa del disimpegno delle associazioni e delle persone che eppure del «mito» di Gino si erano fatte araldi nel corso degli ultimi anni. Ma questo è un segno dei tempi e forse occorreva mettere in bilancio fin dall'inizio una simile insensibilità. Tuttavia, grazie ad alcune sezioni locali dell'Anpi e al contributo personale di singoli compagni, siamo intanto riusciti a pagare le spese del calco e della fusione (in polvere di marmo), mentre cerchiamo ancora i soldi per il trasporto della statua (che per ovvie ragioni è molto costoso). [Approfitto quindi dell'occasione per lanciare un nuovo accorato appello alla sottoscrizione.]

venerdì 12 agosto 2016

NI OLP, NI CARTA DEMOCRÁTICA: ¡¡HUELGA GENERAL!!, por Rescate Nacional (Ruptura: Douglas Bravo y otros/as)

En las últimas semanas el movimiento popular venezolano ha profundizado su gran capacidad de lucha ante la grave crisis económica, alimentaria, de salud, institucional, militar, política, de seguridad personal y moral que ha colocado a Venezuela en la dolorosa situación de ruina nacional. Numerosas manifestaciones de los barrios más humildes del país ocurren diariamente en todo el territorio de la República. Desde ya se perfila que el pueblo apunta a tomar con rapidez la iniciativa política en este trascendental momento histórico.
La característica política más importante de este proceso de luchas sociales que se inicia es la autonomía popular en cada una de las acciones que ejecuta. Esta condición es indispensable para que los objetivos históricos del pueblo venezolano sean alcanzados. El contenido de cada proclama popular, de cada consigna de lucha y todo su discurso social y político, está impregnado de su legítimo interés emancipador.
La consolidación de la independencia y autonomía de las luchas populares y patrióticas del pueblo venezolano demanda que desde todos los sectores sociales: profesionales, productivos, militares, religiosos, estudiantiles, campesinos, obreros, indígenas, vecinales e intelectuales, se hagan importantes aportes organizativos y teóricos capaces de construir una plataforma que nos reúna a todos en un plan político nacional con transcendencia histórica, y que, además, enarbole un programa agropecuario, energético, económico, turístico, de salud, educativo, de vivienda, industrial, ecológico, de prevención del delito, deportivo, etc., con la idoneidad suficiente para hacer de Venezuela una nación con justicia social, paz y felicidad.
La grandes gestas patrióticas-populares que durante más de cuatro siglos han sido protagonizadas por el pueblo venezolano, inclusive más allá de nuestras fronteras, así como los inmensos esfuerzos que hombres y mujeres de nuestra nación han hecho en la producción agropecuaria, en las ciencias, en la cultura, en la educación, la salud, el arte, el deporte, la industria, las luchas sociales y en todos los órdenes del quehacer nacional, nos hacen pensar que esos aportes organizativos y teóricos que en la actualidad demandan las luchas del pueblo tomarán forma con la urgencia histórica que ameritan.
El Proceso Constituyente Originario y Popular que se ha iniciado en Venezuela en este año 2016 se fortalecerá en lo inmediato con estelares hechos constituyentes escenificados en los campos, en los barrios, en las universidades, en las industrias, en la iglesia, en las calles y en los cuarteles militares; con el firme propósito de desplazar a los factores de poder que durante décadas han saqueado nuestras riquezas naturales para favorecer a los centros de poder mundial, se han apoderado ilegalmente de la inmensa masa de dinero que ha obtenido Venezuela, arruinaron nuestra producción agropecuaria, colocaron a todas las instituciones del Estado al servicio de la delincuencia organizada transnacional y con suma inmoralidad empobrecieron al pueblo venezolano.

mercoledì 10 agosto 2016

JÓVENES LATINOAMERICANOS: “¿SOSPECHOSOS?”, por Marcelo Colussi

El 80% no se mete. Hay jóvenes invisibles, son la mayoría: viven escondidos para evitarse problemas.
(Joven de una barriada pobre de Guatemala)

En el que ahora parece muy lejano año 1972 –lejano no tanto por la distancia cronológica sino por otro tipo de lejanía– decía el en ese entonces presidente de Chile socialista, Salvador Allende, que “ser joven y no ser revolucionario es una contradicción hasta biológica”.
Hoy, casi cuatro décadas después y habiendo corrido mucha –¿quizá demasiada?– agua bajo el puente, esa afirmación parece fuera de contexto. ¿Se equivocaba Allende en aquel momento? ¿Cambiaron mucho las cosas en general? ¿Cambió la juventud en particular? Y si cambió, ¿por qué se dio ese fenómeno?
Por lo pronto, hablar de “la” juventud es un imposible. De hecho, “juventud” es una construcción socio-cultural, por tanto sujeta a los vaivenes de los juegos de fuerza de la historia, de los entrecruzamientos de poderes, cambiante, dinámica. Como mínimo, habría que hablar de distintos modelos de juventud, situándolos explícitamente: ¿juventud urbana, rural, de clase alta, pobre, marginalizada, varones, mujeres, estudiante, trabajadora, desocupada? ¿Juventud que emigra a los Estados Unidos? ¿Juventud rural emigrada a la ciudad viviendo en zonas precarias y marginales? ¿Juventud que practica golf y piensa en su doctorado en Harvard? El rompecabezas en cuestión es complejo. ¿De qué “juventud” hablamos? Para muchos –en las áreas rurales fundamentalmente– a los 30 años ya se es un adulto consumado, con hijos, quizá con nietos, mientras que en ciertas capas urbanas –minoritarias por cierto– a esa edad, siguiendo patrones del Norte del mundo, aún se vive lo que podríamos llamar “adolescencia tardía”, sin trabajar, disfrutando aún la condición de estudiante y el dulce pasar que trae la falta de carga familiar. En toda Latinoamérica este rompecabezas adquiere mayor complejidad aún si consideramos el tema étnico: ¿juventud indígena?, ¿juventud no-indígena? Más allá de la edad, no hay muchos elementos en común entre tantas y tan diversas realidades.
Las sociedades latinoamericanas en general tienen un perfil especialmente joven. O “joven”, al menos, para los parámetros que imponen las visiones dominantes, que no son las nacidas en estas latitudes precisamente. Es algo así como la noción de belleza: se es “bello” o “bella” siguiendo esquemas eurocéntricos; el hueso que atraviesa la nariz, el poncho o los ojos color castaño no gozan de la mejor reputación en este ámbito, y la belleza va de la mano del modelo de “conquistador blanco”. Dicho de otro modo: el esclavo piensa y reproduce la cabeza del amo. ¿Por qué es atractivo para los “morenitos” del Sur teñirse el cabello de rubio? La ideología dominante es la ideología de la clase dominante, sin dudas.

lunedì 8 agosto 2016

BRASIL EN DESESTABILIZACIÓN POLITICA, por Yuri Zambrano

Para meus irmãos no Brasil
quem eles são no meu coração:
quinze anos de praia e malandro …

Uno de los principales cánceres, de la siempre débil pero nunca arrodillada América latina, es su dependencia a los mercados imperialistas. Ante esa resistencia, países suramericanos como Venezuela, Ecuador, Bolivia y algunos gobiernos del Mercosur, luchan por mantener su dignidad con cierta regularidad.
Brasil quiere ser callada en esta contienda con una estrategia orquestada desde el exterior, que genera desestabilización de un pueblo y provocando la polarización ideológica.

1. ANTECEDENTES

Brasil, el país icónicamente extenso, futbolero, febreramente carnavaleso y con una pluridiversidad etno-ecológica de grandes proporciones, es también un modelo con su más de 21.5% de población en pobreza extrema1/2. Lo que vemos a través de la desinformación de los medios es: una sobrepoblación en Río – con favelas, turismo sexual y alas-delta; un São Paulo como “gran manzana”, una épica arquitectónica ya muy arcaica en Brasilia, un Manaos con bellas artes, a Bahía reivindicando a Jorge Amado y la portentosa literatura brasilera contemporánea; mucha diversidad cultural, el primer productor de café a nivel mundial y el pulmón del mundo en la selva amazónica, acariciado por el río más caudaloso del planeta entre otras cosas.
¡Pero este Brasil es más que eso y no nos dejan ver sus pobrezas! Del Acre a Belem de Pará, de Matogrosso a Bahía; de Tabatinga a Porto Alegre, por Juiz de Fora, Roraima, Paraná, Minas Gerais, o donde quieran, se respira polarización ideológica, violencia, deterioro social y corrupción institucional de alta influencia en la sociedad.
Uno de los elementos desestabilizadores (por legislación brasilera) es el impedimento (impeachment). Es decir, el procedimiento que limita las tareas ejecutivas de un gobernante e incluso de integrantes del poder judicial.
Algunos intentos de este impedimento han fracasado, como los recordados casos de Peixoto y Salles a finales del siglo XIX, el de Hermes da Fonseca hace un siglo exacto, el de Fernando Henrique (1995-2003), e incluso el antecedente inmediato contra Lula da Silva. Desde 1945, únicamente tres veces se ha generado impeachment del mandato presidencial.

sabato 6 agosto 2016

THE HATEFUL EIGHT (Quentin Tarantino, 2015), di Pino Bertelli

Lo spettacolo non è un insieme di immagini,
ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini.
(Guy Debord)

Nei sommari di decomposizione del cinema parassitario s'intrecciano filosofia del mercato e prostituzione dell'arte… finanzieri, criminali e cineasti hanno diverse cose in comune… la frivolezza del gusto, la banalità del prodotto e il miscuglio indecente che intreccia superficialità e apocalisse a favore incondizionato del botteghino… il cinema delle larve predica il proprio decesso nella merce che circuita e la ricostruzione del paradiso si accompagna a contraffazioni ed eccessi espressivi riscaldati all'ombra gelida dei mercati… trasforma un film in dio o nel diavolo: i conseguenti incassi o premi saranno incalcolabili. Mettete i film al loro posto: vedrete il mattatoio delle immagini e l'epifania di rendere ancora più vergognosa la vergogna del potere.
Al tempo del capitalismo parassitario le crisi finanziarie e i gemiti delle vittime affogano nei deliri delle merci e ogni politica istituzionale riflette il genocidio del quale è stata complice ed esecutrice. Il fatto è che ogni Stato esercita una forma di terrore, tanto più spaventosa quando ne sono fautori i "puri" (specie della sinistra al caviale)… il popolo lo prende nel culo attraverso la farsa elettorale che decreta il potere in poche mani e legifera corruzioni, mafie, affari sporchi e lo stato di polizia. Nel surrogato delle schede elettorali c'è un'umanità minata alle proprie radici… i popoli hanno adorato soltanto coloro che li hanno tenuti a catena. La vita è intollerabile se non per il grado d'indignazione e incitamento alla rivolta che vi si mette!
Il cinema parassitario (come tutte le forme di comunicazione) si erge su un universo privo di qualificazioni e il successo o il consenso che lo suscita è anche ciò che lo divora. Al tempo dell'imperialismo rampante, il cinema è parte integrante del capitalismo parassitario: «Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l'ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza» (Zygmunt Bauman1). Sotto questo cielo (sistema fluido) si può morire strozzati da una cravatta griffata o per un cattivo film da Oscar o per rapacità finanziarie orchestrate in un paio di fragili torri di cristallo.
Uno dei più acclamati "maestri" del cinema parassitario (amato dalla critica e acclamato dal pubblico di tutto il mondo) è Quentin Tarantino… dopo una serie di film furbi, che riflettono una masseria di strutture estetiche di secondo piano… più ancora, che figurano la superba inutilità di un fare-cinema che fa dello spettacolo il risultato e il progetto della macchina delle illusioni hollywoodiana. L'immaginario fondamentalmente tautologico dello spettacolo deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo: «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l'ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l'autoritratto del potere all'epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza» (Guy Debord2). In questo senso il cinema spettacolare di Tarantino (di Spielberg, De Palma, Scorsese, Ferrara, per dire dei migliori…) invita a sognare nei mari convertiti del mercantilismo, dove nessuno annega e tutti sono complici dei traboccamenti economici che investono le guerre o il cinema alla medesima maniera: il successo tormenta soltanto i santi, gli assassini e i poeti senza talento… nelle farmacie dell'infelicità si respira il clima astratto di quanto ha guadagnato l'ultimo film… il cinema parassitario è l'ultima immagine di una civiltà che si spegne.

giovedì 4 agosto 2016

BERGOGLIO E LA GUERRA DI RELIGIONE, di Pier Francesco Zarcone

Di recente - dopo le ultime sanguinose gesta dei jihadisti in Europa - l'attuale Papa ha detto e ripetuto che non è in atto una guerra di religione, perché
«tutte le religioni vogliono la pace. La guerra la vogliono gli altri».
Ovviamente si è subito levato un coro di plauso a queste parole, eccezion fatta per i media di destra o centro-destra. Analogo entusiasmo ha salutato la partecipazione, la scorsa domenica, di imam e di talune migliaia di musulmani a messe cattoliche in paesi europei, tanto da far dire che siamo a una svolta nei rapporti col mondo islamico.
Cominciamo dalle parole papali.
Che tutte le religioni vogliano la pace implica per lo meno l'esistenza di tre elementi: a) che sotto il nome di "religioni" siano individuabili realtà strutturate efficacemente e capillarmente, alla maniera delle sette per intenderci, talché le azioni dei membri non sfuggano al controllo e non ci siano iniziative di segno difforme, individuali o di gruppo; b) che nel corpus teologico-ideologico delle religioni - cioè nei loro libri sacri - non esistano passaggi suscettibili di essere utilizzati dai violenti per imporsi all'interno come all'esterno; c) che nella storia delle religioni non ci siano mai stati episodi, o periodi, in cui il massacro degli "infedeli" fosse presentato come altamente meritorio agli occhi di Dio e che quindi il vessillo della "fede" non abbia mai costituito la giustificazione per il disfrenarsi dei peggiori istinti.
Sul punto c) la smentita della Storia è radicale. Nei parametri del punto a) non rientrano né le Chiese cristiane né il mondo islamico nel suo complesso. Riguardo al punto b), solo il Nuovo Testamento non contiene alcunché del genere dianzi detto, ma negli altri sacri testi delle religioni monoteistiche abbondano eccome i passi suscettibili di venir utilizzati per incitare al massacro di chi la pensa diversamente. Ne sono immuni i testi buddhisti, ma i massacri di segno buddhista in Birmania a danno della minoranza musulmana attestano che tutto sommato è indifferente quanto nei sacri libri ci sia o non ci sia scritto.

lunedì 1 agosto 2016

TURCHIA: FAIDA INTERNA E PROBLEMI DI POLITICA ESTERA, di Pier Francesco Zarcone

Fethullah Gülen
L'IMPERO DI FETHULLAH GÜLEN

Per il grande pubblico occidentale Fethullah Gülen è solo il nome esotico di un personaggio che Recep Tayyip Erdoğan - suo ex alleato - addita come nemico pubblico numero uno, dopo averlo messo nella lista dei nemici almeno dal 2013. È finito così un sodalizio a cui Erdoğan deve obiettivamente moltissimo. Infatti Erdoğan, senza l'appoggio di Gülen, non sarebbe arrivato dove si trova. Inizialmente i due condividevano la stessa visione politica fatta di Islam assertivamente "moderato" e di politica economica sostanzialmente liberista, con un pizzico (all'inizio) di autoritarismo, che del resto nella tradizione turca non guasta mai. Gülen aiutò in modo determinante Erdoğan a diventare prima sindaco di Istanbul e poi, nel 2002, a vincere le elezioni alla testa dell'islamizzante Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi - Akp). Come mai?
La spiegazione è semplice: Gülen aveva costituito un potente e articolato impero economico e culturale di matrice islamica in seno alla Turchia ancora laica costruita da Atatürk, tant'è che nel 1999 reputò più opportuno lasciare il paese e trasferirsi negli Stati Uniti (Pennsylvania), dove tuttora risiede, per sfuggire a un processo per eversione. Anche dall'estero il potere di Gülen si fece sentire, e senza l'appoggio dei gülenisti forse Erdoğan non ce l'avrebbe fatta a tarpare le ali ai settori delle Forze armate a lui ostili (cioè la "vecchia guardia"): e può essere significativo che le componenti kemaliste non abbiano appoggiato il recente golpe, non a caso subito condannato dal Partito Repubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk Partisi - Chp), erede del kemalismo.
La confraternita di Gülen, Hizmet («servizio»), può essere paragonata a un misto di Opus Dei, di Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere, ma molto più potente e ramificata, con a capo un personaggio ambiguo, scrittore, uomo d'affari, mistico sufi, predicatore, capace di importanti amicizie (come quella con Giovanni Paolo II) e ricchissimo. Il suo impero (non casualmente definito uno Stato nello Stato) ha milioni di seguaci (4 o 5 solo in Turchia) e un fatturato di parecchi miliardi di dollari (si dice siano almeno 25) che hanno consentito di costruire (anche fuori dalla Turchia) centinaia di scuole e istituti preparatori, università, centri di studi religiosi e di mutuo soccorso, di controllare giornali, televisioni e gruppi economici, con forti e ampie ramificazioni nella magistratura, nella polizia e nelle Forze armate. Controlla l'impero mediatico Zaman (comprendente l'omonimo quotidiano), il giornale Aksiyon, l'agenzia di stampa Cihan, varie stazioni televisive e radiofoniche (come Samanyolu TV e Burç FM), l'importante ente di finanza islamica Bank Asya e la confederazione imprenditoriale Tüskon, fondamentale nelle strategie di espansione delle imprese turche in Africa e nel Vicino Oriente.