IN DUE LINGUE (Italiano, Francese)
Michel Burnier è morto dopo la mezzanotte tra il 3 e 4 agosto nell'ospedale Georges Pompidou di Parigi, al termine di una lunga battaglia contro il cancro. È stato cremato al Père Lachaise l'11 agosto. Era nato 67 anni fa, il 3 aprile 1949 a Ginevra.
Con lui ho perso uno dei miei più cari e più antichi amici. Ma va detto anche che il mondo del pensiero eversivo ha perso una mente lucida, un sociologo multifacetico, una di quelle intelligenze che purtroppo siamo ormai costretti a definire «di altri tempi». Quando il figlio Félix mi ha comunicato la notizia, sono scoppiato a piangere, come non mi accadeva da tempo. In fondo anche un pezzo di me se n'è andato con Michel.
Ricordo ancora la prima volta, quando ci conoscemmo. Si affacciò sulla soglia del mio ufficio all'Università di Paris Jussieu (dove lavoravo nel Groupe de Sociologie du travail), con fare esitante e sbarazzino: un po' come nella foto che allego. Era il 1974, mentre la foto è di qualche anno dopo. All'epoca lavoravo nell'équipe di una ricerca europea (franco-anglo-italo-tedesca) sulle nuove forme di lotta operaia e lui era reduce da uno dei suoi primi soggiorni a Torino dove stava completando uno studio sui consigli operai che uscirà in forma di libro - Fiat: conseils ouvriers et syndicat (con la prefazione di Pierre Naville, Les éditions ouvrières) - solo nel 1980. A partire da quel momento finirà del tutto il dubbio abbastanza diffuso che Michel-Antoine Burnier (autore con Frédéric Bon del celebre Classe ouvrière et révolution, Seuil 1971, e soprattutto de Les nouveaux intellectuels, 1966/1971) e lui fossero la stessa persona.
In quei lontani giorni del 1974 io militavo ancora nella Quarta internazionale (sia nella sezione francese che in quella italiana), dalla quale sarei stato espulso circa un anno dopo; mentre Michel aveva già fatto la sua breve esperienza nella Quarta (nella sezione svizzera, una delle peggiori e più grossolanamente burocratiche) e si aggirava con spirito critico e beffardo nei meandri della gauche alternative francese e soprattutto parigina. I suoi referenti teorici contemporanei erano personaggi e gruppi nati dalla dissoluzione di Socialisme ou barbarie (Cornelius Castoriadis, Claude Lefort, il consigliarismo più recente - quindi anche inglese e italiano), con simpatie molto più effimere per correnti comuniste di sinistra sorte per lo più dalla diaspora del trotskismo francese (Jacques Camatte, Roger Dangelville, Invariance ecc.), e ovviamente con attenzione a Guy Debord (di cui forse fu lui a parlarmi per la prima volta).
A me, che cercavo vie d'uscita dall'«ortodossia» trotskoide (un tragitto già intrapreso nel mio Le teorie dell'autogestione, apparso proprio nel 1974), l'incontro con Michel portò una ventata d'aria fresca. Con lui mi si spalancava un mondo nuovo, eterodosso e intrinsecamente eversivo, ideologicamente «peccaminoso» per un marxista serio quale credevo d'essere stato fino a quel momento; un mondo del quale avevo solo sentito parlare vagamente e nel quale invece avrei trovato in futuro gli stimoli necessari per proseguire la mia ricerca teorica, tutt'ora in corso, dopo la grande delusione di «gioventù» nei confronti del trotskismo quartinternazionalistico (cioè quello dogmatico e ortodosso, incapace di vedere i grandi errori di Trotsky accanto ai suoi indiscutibili meriti storici).
Negli anni seguenti avrei faticato a seguire tutte le svolte di Michel, sempre repentine, sempre in anticipo eccessivo sui tempi, sempre slegate da qualsiasi gruppo od organizzazione politica, ma sempre vissute con coerenza di comportamento. Valga solo l'esempio di una certa fase degli anni '80, quando a Parigi prese piede il movimento degli squatters (proveniente dall'esperienza inglese di occupazione di immobili e prima che in Italia nascesse il movimento dei Centri sociali). Michel si trovò un alloggio da occupare e ci visse in condizioni precarie (tipo il materasso al suolo come giaciglio) non so più per quanto tempo: non ne aveva certamente bisogno sotto il profilo economico, ma doveva dimostrare a se stesso una coerenza con le idee del movimento più fluido ed «estremo» del momento. E così sarà per varie altre esperienze teoriche, mode transitorie, comportamenti da sovversivismo elitario. Per ragioni di spazio non mi dilungo, quindi, sugli anni in cui visse in rue de Ménilmontant, all'epoca considerata il cuore della «kasbah» araba parigina, nell'illusione, in lui mai del tutto sopita, di potersi mescolare al mondo dell'immigrazione più povera.
Dal punto di vista politico, pur se eravamo entrambi classificabili all'interno di un discorso rivoluzionario, non potevamo essere più diversi: lui fantasioso, estroverso, sperimentatore, antideologico per definizione (o al massimo disposto a un utilizzo delle teorie politiche del tipo «usa-e-getta»). Io militante disciplinato, raziocinatore dalla testa ai piedi, lento nel metabolizzare le scoperte teoriche, e comunque antindividualista genetico, sempre alla ricerca di una qualche struttura collettiva in cui far vivere le idee di rivolta sociale e di riscatto dell'umanità. Michel seguiva distrattamente i vari passaggi delle mie esperienze politiche successive all'espulsione dalla Quarta. Lo faceva con garbata ironia, ma anche con tenerezza fraterna. Sapeva che erano destinate al fallimento, ma gli dispiaceva anche che così fosse.
Credo che abbia cominciato a prendermi sul serio solo verso i primi anni Duemila, cioè quasi trent'anni dall'inizio della nostra amicizia, dopo Genova (dove lui simpatizzò ovviamente con i Black Bloc) e dopo la fondazione di Utopia Rossa. Non credo che condividesse il progetto rossoutopico, ma certamente lo sentiva a sé più vicino dei miei passaggi precedenti. Si cominciò a interessare più dettagliatamente su come andassero le cose, che testi avessimo in programma ecc. E una volta mi apostrofò con amichevole stupore: «A te non c'è proprio modo di farti smettere!».
Eh sì, perché lui sapeva di aver «smesso» e non intendeva prendersi in giro: ormai la tensione politica (rivoluzionaria) si era affievolita, forse spenta, ma non tanto da rimuovere in lui il senso di congenita refrattarietà rispetto allo Stato, alle istituzioni che ne diramano, al conformismo, al Sistema nelle sue varie sfaccettature. Era un ribelle ante litteram e tale è rimasto sino alla fine dei suoi giorni.
Allo spirito di ribellione più propriamente politico si era sostituito negli anni un impegno teorico nel campo della sociologia o dovrei dire delle sociologie. Dalle ricerche alla Fiat studiata direttamente ai cancelli di Mirafiori, Michel era passato mano a mano attraverso studi di carattere più accademico, fino ad assumere l'insegnamento a Brest (Université de Bretagne Occidentale). Era andato a finire così lontano (nell'estremo limite nordatlantico) perché non ne poteva più di Parigi e avrebbe accettato come unica alternativa solo la Provence (cioè l'estremo Sud). Così mi disse quando gliene chiesi la ragione, all'epoca in cui dovetti prendere atto con stupore che era diventato un professore universitario a tutti gli effetti: da lui non me lo sarei mai aspettato. Ma era solo una delle tante contraddizioni della sua vita.
Non vi era arrivato comunque per trafila accademica, ma attraverso 1) la Fiat e lavori sul campo (sui nuovi comportamenti urbani col Groupe di Jussieu con cui avevo lavorato anch’io); 2) con materiali audiovisivi (una serie di interviste video sul futuro della scienza e della cultura, fatte nel 2002-2004 per conto del Centre Edgar Morin con studiosi come Maurice Godelier, Edgar Morin, Jacques Testard, Émile Poulat, Étienne Klein, Alain Touraine, Georges Balandier, Jacques Benveniste, Jean-Marc Levy-Leblond, Maurice Nadeau, Henri Atlan); 3) con attività istituzionali a latere come Chercheur associé del Centre Edgar Morin (Parigi) e del Centre Pierre Naville (Evry); cofondatore del Séminaire international «Informatique, Réseaux et Société» (Paris VI) (autore con altri di Politiques d’entreprise, informatique et réseaux, e di Un nouvel activisme sur l’Internet?, L’Harmattan, Paris 2002 e 2009); come animatore di una Rete europea di studio sulle tecnopoli (Les technopoles, con G. Lacroix, Puf, Paris 1996); responsabile dell’associazione Ikon (sociologia e audiovisivi).
La diversità del nostro rapporto col mondo accademico - io ne uscivo negli anni in cui lui vi entrava - non ci ha impedito di avere un grande interesse teorico in comune: l'affetto e l'ammirazione per il patriarca della Sociologia del lavoro e di varie altre discipline ad essa collegate, il grande Vecchio del trotskismo francese e del Surrealismo - Pierre Naville. Entrambi lo abbiamo frequentato con assiduità nella sua casa della rue Josse Impens (io per quanto ho potuto, lui moltissimo); entrambi abbiamo cercato di ricostruire in noi stessi il suo immenso itinerario teorico; entrambi abbiamo collaborato alla pubblicazione simultanea (in francese e in italiano) del suo libro postumo Ricordi e pensieri (M. Nadeau editore a Parigi e Massari editore a Bolsena, 2010). Credo che a Michel si possa attribuire la massima attenzione che un qualsiasi altro studioso abbia mai dimostrato verso l'opera e la persona di Naville.
E anche la più recente collaborazione di entrambi con un personaggio come Maurice Nadeau - il grande storico del Surrealismo, direttore a vita della Quinzaine Littéraire, morto a 102 anni d'età nel 2013 - rientrava in una nostra comune aspirazione a valorizzare tutto ciò che di positivo le grandi correnti artistiche e di pensiero eversive (alternative allo stalinismo e non solo) avevano prodotto nel passato. Anche in questo campo era Michel ad aprire le porte sul territorio francese, nelle quali io m'intrufolavo, per lo più in ritardo e in genere con l'intenzione di fermarmici per un po'. Il tempo di assimilare e metabolizzare, al contrario di Michel che divorava, ingurgitava e si gettava sul pasto successivo.
E questa metafora alimentare mi porta a parlare di un altro aspetto che nell'amicizia tra me e Michel è stato fondamentale: la gastrosofia (termine coniato da Fourier), ovvero l'arte del mangiare e del bere in forma sublime e passionale. Michel l'ho sempre immaginato come quinto convitato del film La grande bouffe di Ferreri (1973), l'unico destinato a non morire perché non avrebbe preso sul serio nemmeno quell'esperienza di devozione verso l'alta cucina, così come non ha mai preso sul serio la (propria) vita e immagino che non avrà preso sul serio la morte. Se sia andata veramente così, non mi resta che invidiarlo.
Quando conobbi Michel la prima volta mi portò subito a mangiare le cozze in un certo ristorantuccio belga di Parigi (e così scoprii che i Belgi e non gli Italiani sono i maestri cantori nella preparazione del nero mitile); in altra occasione, a cena alle Halles (quando ancora non erano state demolite del tutto), sempre capace di indicare l'annata giusta del vino o la stagionatura ideale del formaggio - un'incarnazione vivente del cliché del francese gourmet, ma nel suo caso realmente immedesimato nel ruolo. Grande merito in questo lo aveva avuto sua madre, donna affascinante ed elegante che dai monti di Grenoble piombava di tanto in tanto su Parigi per impartire al figlio lezioni di bon-ton. Una volta, nel Quartiere Latino, la vidi consigliare anche la marca di sigaro cubano da comprare: era la sera in cui celebrammo (la madre, lui ed io) la Tesi di dottorato da lui appena sostenuta con Alain Touraine.
Fu Michel a portarmi per la prima volta in un locale giapponese di Francoforte - metà anni '70 - a mangiare una certa cosa chiamata sushi, molto prima che scoppiasse la moda universale. E fu lui a prepararmi, a casa sua, un ottimo tagin di agnello nell'apposito tegame maghrebino (ovviamente nel periodo in cui viveva a rue de Ménilmontant). E a Cannes, io non avrei mai osato sedermi in un ristorante della Croisette per mangiare il piatto gigante di ostriche e frutti di mare, accompagnandolo con un bianco di cui purtroppo non ricordo il nome, se Michel non fosse stato già al corrente di dove si poteva spendere poco e concedere quindi quel «lusso» anche a gente come noi. Idem a Saint-Tropez.
Non lontano da quella celebre cittadina-mito degli anni '60, nella penisola di Giens, Michel aveva una casa di vacanze dove trascorsi anch'io un breve periodo. Dovrei quindi riferire a questo punto di una mitica bouillabaisse materna e di degustazioni nelle cantine produttrici di vino della zona. Ma il lettore avrà capito che questa mia incursione nei nostri comuni ricordi gastrosofici ha un valore, come dire… essenzialmente apotropaico, insomma sostituisce i grandi pasti rituali che in certe culture vengono fatti in occasione del funerale di un caro estinto. E quindi risparmierò al lettore le scorribande gastronomiche compiute insieme dall'altro lato della frontiera, in Italia, spesso a casa mia, sia a Roma, sia a Bolsena.
Un'ultima annotazione: Michel è stato sempre un beniamino del mondo femminile; ha intrattenuto storie e relazioni di varia durata con un gran numero di donne, soprattutto con le italiane, una delle quali ha anche sposato.
A fine giugno ultimo, Michel mi aveva telefonato per invitarmi ad andare a Giens a stare qualche giorno con lui. Riguardo al tumore (di cui sapevo già da qualche tempo) mi disse di essere stato operato, ma che solo nei cinque anni successivi si sarebbe saputo se la metastasi era stata sconfitta oppure no. E invece è morto poco più di un mese dopo. Il caso volle che io stessi per recarmi in Bretagna e poi a Parigi con mio figlio Laris. Ma non lo andai a trovare perché quell'estremo lembo di Costa Azzurra era troppo lontano per noi che ci dirigevamo al Nord, passando per la Maddalena, Gap e Valence. Avrei forse potuto fargli visita al ritorno, se non avessi dovuto seguire un altro itinerario per ragioni impreviste. E così ho mandato a perdere per pura casualità l'ultimo possibile appuntamento con Michel ancora in vita. Peccato per entrambi…
Arrivato al termine di questa memoir, mi accorgo che averla scritta mi ha fatto bene: sento che l'atto catartico di risalire nel tempo con la mente si è tradotto in un modo intenso e costruttivo di metabolizzare il lutto. Resta anche la speranza che ciò possa servire a incidere nella memoria collettiva il ritratto di una personalità complessa e affascinante, allo stesso tempo in cui si sublima il dolore per la precoce dipartita.
Per usare le parole di Antonella Marazzi, che si è associata nel dolore e che più volte è stata partecipe diretta delle scorribande con Michel, potrei dire che egli ha vissuto intensamente tutto ciò che ha voluto vivere, insomma che la vita se l'è goduta, sia in termini fisici sia teorici. E se dovessi scrivere un epitaffio sulle ali del vento che disperdono le sue ceneri, sono queste le parole che userei.
Hasta siempre, Michel…
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