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sabato 30 aprile 2011

UN MENSAJE PARA DOUGLAS BRAVO, por Humberto Vázquez Viaña

Compañero Douglas Bravo,
desde Santa Cruz, la locomotora economica de Bolivia, le envío un cordial saludo revolucionario.
Recuerdo que en mi primer trabajo acerca de la guerrilla del Che en Bolivia, Bolivia: Ensayo de Revolución Continental (París 1970, pág. 161), incluí como anexo un artículo suyo, Notas Acerca de la Concepcion de los Instrumentos de Lucha, como una admiración que le teníamos y seguimos teniendo por su consecuencia revolucionaria.
Un abrazo.
Humberto Vázquez Viaña


APPENDICE TURCA ALLE RIVOLTE ARABE (XI), di Pier Francesco Zarcone

Vola ancora l’aquila bicipite sotto la mezzaluna bianca

In precedenza, a corredo delle corrispondenze sulle rivolte arabe, abbiamo parlato anche dell’Iran, paese musulmano ma non arabo, a motivo della sua importanza strategica nel Golfo Persico e dei i suoi legami con le minoranze sciite arabe. Ultimamente si è dovuto accennare frammentariamente al ruolo della Turchia riguardo a Siria e Libia. Il ruolo turco nell’area è appena agli inizi, ma per seguirlo con l’adeguato livello di comprensione ci è sembrato non superfluo dedicare un’esposizione più organica alla sua attuale politica estera. D’altro canto le rivolte arabe non si svolgono in un ambito geopolitico separato da tutto il resto che gli sta attorno, bensì rientrano in uno spazio euro/afro/asiatico che la storia – sia pure attraverso lotte terribili – ha in un certo senso riunito mediante una serie di interrelazioni solo apparentemente interrotte dalla fase coloniale iniziata ai primi del XIX secolo. Di questo spazio i Turchi sono sempre stati parte integrante, e domani lo saranno ancor di più. La mezzaluna bianca fa parte della bandiera turca, e l’aquila bicipite – prima ancora di essere simbolo zarista e asburgico – è stato emblema dell’Impero bizantino, di cui i Turchi si sono posti come eredi con la conquista di Costantipopoli nel 1453. Questa aquila rappresenta la proiezione verso Occidente e Oriente nello stesso tempo, e ben esprime l’attuale corso della politica estera turca, e la metafora del volo dell’aquila sembra calzante perché il discorso sulla politica estera della Turchia di oggi investe i suoi rapporti con mondo arabo, Russia, Balcani e Israele, in una sorta – per usare l’espressione di Kipling – di “grande gioco” neo-ottomano.
Spesso i mass-media parlano di Turchia che ora guarda a oriente: ciò è vero solo in parte, poiché guarda anche a occidente, cioè ai Balcani. In questo quadro diventa un dettaglio secondario l’eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea, poiché in ogni caso gli Stati di un’Europa stanca e priva di progetti unificanti dovranno fare i conti con l’inatteso dinamismo turco a tutela dei propri interessi globali, non collimanti con quelli di Francia, Germania, Gran Bretagna (e Stati Uniti).
In relazione ai problemi e ai subbugli del mondo arabo, la Turchia ha di recente rafforzato il proprio prestigio e la propria influenza innanzi tutto nel ruolo di mediatrice. Ruolo già svolto nel 2008 dal Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan (si legge “Regep Tayyip Erdooan”) con un intenso sforzo diplomatico fra Siria e Israele; e nello stesso anno in occasione dell’operazione “Piombo Fuso” scatenata dagli Israeliani a Gaza. Ci sono pure vari segnali che fanno intendere che i gruppi politico-religiosi islamici di Egitto e Tunisia vedono di buon occhio l’acquisizione del “modello turco” quale possibile sbocco per una transizione di tipo democratico. Disponibilità alla mediazione ha mostrato Erdoğan anche in relazione al conflitto libico, e in una recente intervista al britannico Guardian ha rivelato l’esistenza di contatti sia con Gheddafi sia con i ribelli, e che la Turchia si sta preparando a gestire aeroporto e porto di Bengasi per favorire la distribuzione di aiuti umanitari. Ha pure ribadito l’interesse della Turchia al mentenimento dell’unità territoriale della Libia.
Per quanto riguarda la Siria il premier turco ha tempestivamente telefonato ad Assad per consigliargli di imparare la lezione e introdurre riforme per l’avvio di un tranquillo processo di democratizzazione; e del suo interesse per la stabilità siriana si è detto in una precedente corrispondenza. Inoltre Erdoğan si è recato a Baghdad per incentivare la cooperazione turco-irachena. Anche sull’Iraq la Turchia in prosieguo avrà qualcosa di dire e fare.
L’Impero zarista non esiste più, e pure l’Unione Sovietica; di modo che in un gioco diplomatico – politico ed economico - a tutto campo la Russia, ormai palesemente priva della plurisecolare velleità di conquistare Costantinopoli-Istanbul, può essere un proficuo partner per la Turchia (e viceversa per la Russia, che guarda pure all’Iran). Già nel 2009 la Turchia aveva concluso con Mosca un accordo per il passaggio del gasdotto South Stream nelle sue acque territoriali, in cambio della partecipazione russa al progetto di un oleodotto dal Mar Nero al Mediterraneo che, partendo dal porto turco di Samsun, attraverserà l'Anatolia fino Ceyhan.
Il South Stream è un progetto congiunto della russa Gazprom e dell’Eni: da costruirsi sul fondo del Mar Nero, partirà dalla Russia fino alla Bulgaria per portare il gas russo in Italia attraverso la Grecia e in Austria attraverso la Serbia e l’Ungheria. L’accordo del 2009 è significativo politicamente ed economicamente perché in concorrenza con quello per il gasdotto Nabucco (anch’esso con partecipazione turca), il quale con un percorso di 3.300 chilometri dovrà trasportare gas dall’Asia Centrale e dal Caspio, attraverso Azerbajgian, Georgia, Turchia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Austria, fino al resto d’Europa, ma aggirando la Russia, con la chiara finalità di fare uscire l’Europa dalla dipendenza dal gas russo. In tale questione energetica la Turchia ha giocato palesemente su due fronti politicamente antitetici a proprio vantaggio.
Non si può dire cosa accadrà a seguito del disastro di Fukushima, ma la Turchia aveva deciso di realizzare entro il 2023 almeno 2 centrali nucleari: la costruzione dell’impianto di Akkuyu (Büyükeceli), nel sud dell’Anatolia, sulla costa mediterranea è stato affidato alla Russia senza previa gara di appalto. La Russia ne sosterrà il costo (almeno 20 miliardi di dollari), sarà titolare del 51% della relativa quota azionaria e lo gestirà per 60 anni.
Nel suo riorientamento strategico la Turchia non si limita ad aprirsi ai rapporti con la Russia, né si muove solo per diventare un punto di riferimento per il mondo musulmano del Vicino Oriente e dell’Africa settentrionale: proietta ed estende la sua azione anche sui Balcani. E qui si vanno a deteriorare ulteriormente i suoi rapporti con Israele già guastatisi per la questione palestinese. Prima di procedere facciamo una considerazione a mo’ di inciso: tra cadute di dittature arabe filo-occidentali, protagonismo diplomatico turco e ostilità turco-israeliana, gli Stati Uniti corrono il serio rischio del totale sgretolamento del loro fronte strategico nel Mediterraneo orientale.
L’attacco israeliano alla nave turca Mavi Marmara (Marmara blu) nel 2010, causa della morte di 7 cittadini turchi e qualificato da Erdoğan come “terrorismo di Stato” e il conseguente ritiro dell’ambasciatore turco a Gerusalemme hanno segnato una svolta nei rapporti fra i due paesi; svolta che non sembra proprio superata. Israele ha cercato una compensazione instaurando rapporti con paesi balcanici (Macedonia, Grecia, Bulgaria, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Albania), proprio in una zona di immediato interesse turco; in più sta cercando di attizzare i tradizionali contrasti fra i Balcani di religione cristiana e i Turchi, per secoli dominatori della penisola. Uno degli intuibili intendimenti di Israele è quello di sfruttare tali contrasti nei paesi balcanici membri dell’Ue (Slovenia, Grecia, Romania e Bulgaria) per ostacolare vieppiù l’ingresso della Turchia nell’Unione come rappresaglia.
Ovviamente Ankara non sta a dormire, anzi si può dire che dopo la fine delle guerre balcaniche del 1912 è ritornata in quella zona  – che è la porta di ingresso alla Turchia - sfruttando tutte le opportunità. Una di esse è data dal contesto globale dell’area, particolarmente nei territori della ex Jugoslavia, frammentatisi in staterelli dotati di micromercati un po’ asfittici e suscettibili di finire sotto il protettorato di qualcuno, foss’anche il vecchio dominatore. Perché seppure la Turchia possa essere vista con sospetto e magari con astio, a motivo della storia passata, necessità concrete e inerenti interessi esistono e pesano; talché non è detto in assoluto che le manovre israeliane alla fine riescano.
Nell’ottobre del 2009 la Turchia ha firmato accordi commerciali ed economici nientepopodimeno che con la Serbia – la grande “appestata dei Balcani” - che durante il conflitto bosniaco si era presentata (per propaganda) come antemurale difensivo dell’Europa contro i musulmani. Addirittura il presidente serbo Boris Tadić parlò di necessità di collaborazione stategica con la Turchia per favorire la stabilità della regione. E infatti con la Serbia la Turchia ha instaurato una vera e propria cooperazione strategica, realizzando un grande successo diplomatico nel superare l’ostilità di Belgrado per il riconoscimento turco dell’indipendenza kossovara. Si pensi che a maggio del 2009. il ministro della Difesa turco, Vecdi Gönül, e quello serbo Dragan Šutanovac hanno stipulato un’intesa per lo scambio di informazioni riservate e per la produzione congiunta di materiale militare. In più i due Stati hanno concluso un accordo di libero scambio che in tre tappe avrà effetto integrale nel 2015, ed è tarato in base alle necessità serbe. Il giovamento per la Turchia consiste nella possibilità di realizzare investimenti e attività commerciali in Serbia. La cooperazione bilaterale si è estesa alla cooperazione nei trasporti e nelle infrastrutture, di cui la turca Eksim Bank assumerà il finanziamento all’85%, con un credito suppletivo di 30 milioni di dollari. Altri accordi si riferiscono alla cooperazione tecnica, finanziaria, economica e nel settore della sicurezza sociale.
Anche con il Kóssovo e con la Bosnia si vanno instaurando proficui rapporti, grazie al proficuo dinamismo del ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu (si legge “Davutoolu). La cosa interessante è che in questa politica di penetrazione la Turchia astutamente opera in una sorta di concerto con Mosca.
Oltre all’interesse economico Ankara persegue anche obiettivi politici creandosi degli alleati utili a contrastare le manovre ai suoi danni: infatti le grandi manovre turche oggi sono orientate prevalentemente verso Macedonia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Albania e Serbia. Tutti paesi in predicato – prima o poi – per entrare nell’Ue (se questa non si sfascia prima). Naturalmente per i circa 8 milioni di musulmani della penisola la Turchia è tornata a essere un punto di riferimento.
Tuttavia nell’area le resta il grosso e irrisolto problema dato dalla questione cipriota. Qui la soluzione è difficile, ma non sarebbe impossibile, soprattutto se Ankara giocasse le sue carte con la dovuta duttilità. 


martedì 26 aprile 2011

DOUGLAS BRAVO INCONTRA UTOPIA ROSSA - Sabato 30 aprile ore 16


[da una lettera di Roberto Massari]




Bolsena, 24 aprile 2011

Cari compagni e care compagne,
(...)
L'altra notizia di questo mio messaggio pasquale è che non habemus papam, ma habemus Douglas Bravo - il celebre dirigente della guerriglia venezuelana, animatore dell'organizzazione Tercer Camino (vedere la sua biografia in: http://es.wikipedia.org/wiki/Douglas_Bravo) che oltre a venirmi a trovare a Bolsena in quanto suo vecchio "commilitone subalterno" (sono stato membro e rappresentante delle Faln venezuelane nel 1969-70), incontrerà i compagni romani di Utopia rossa, sabato 30 aprile, ore 16-19,30, nella sede di UR vicino a Ciampino (S. Maria delle Mole, v. S. Paolo Apostolo 19).
Parleremo ovviamente del Venezuela di Chávez (Douglas è stato critico acerrimo del compagno-presidente fin dal primo momento - figuriamoci ora), di Tercer Camino, della conclusione del congresso del Pc cubano e del movimento rivoluzionario odierno. L'incontro è semipubblico, nel senso che può partecipare anche chi è veramente interessato ma non frequenta UR.
Capisco l'emozione di voler conoscere personalmente un pezzo di storia rivoluzionaria come Douglas (che ebbe anche l'onore di incontrare il Che e di essere oggetto di un vergognoso attacco pubblico da parte di Fidel Castro nel 1970, dopo che Cuba ebbe fatto la svolta prosovietica), ma pregherei di astenersi dal partecipare chi è mosso solo da curiosità. Meglio pochi, ma buoni, specie di questi tempi di globalizzazione psicologica stradominata dalla società dello spettacolo.
(…)
R. M.

lunedì 25 aprile 2011

«PULIZIA DI CLASSE: IL MASSACRO DI KATYN» DI VICTOR ZASLAVSKY, di Andrea Furlan

Il 23 agosto 1939 fu firmato il Patto di collaborazione fra Germania nazista e Unione Sovietica (accompagnato dai protocolli segreti sulla spartizione della Polonia e altri territori) che determinerà un cambiamento dei rapporti di forza all'interno dell'Europa a favore della Germania, consentendo a Hitler di invadere la "sua" parte di Polonia e a Stalin la "sua", dando avvio in tal modo al più grande massacro della storia, cioè la Seconda guerra mondiale.
Il Patto, meglio conosciuto con il nome dei ministri degli Esteri Molotov e Ribbentrop, stabiliva la spartizione della Polonia e delle Repubbliche Baltiche in zone d'influenza tra la Germania di Hitler, che invaderà la Polonia il 1º settembre 1939, e l'Unione Sovietica di Stalin, che occuperà il 52% del territorio polacco assegnatole dal Patto due settimane più tardi, esattamente il 17 settembre 1939. A causa di questo accordo scellerato, il popolo polacco conoscerà sulla propria pelle, pagando prezzi altissimi in perdite di vite umane, l'occupazione militare da parte delle due dittature più feroci che la storia dell'umanità abbia mai prodotto.
Nel contesto delle vicende militari che accompagnarono la duplice invasione della Polonia, nella foresta di Katyn - località situata presso la città di Smolensk, nell'estrema Russia occidentale - si consumò nel marzo 1940 l'eccidio di 21.847 persone, fra militari e civili polacchi, per mano dell'Nkvd, la famigerata polizia politica sovietica. L'eccidio è stato documentato in varie pubblicazioni, ma qui ci limitiamo a presentare un libro prodotto in Italia da un grande storico di origini russe, in cui si descrive in modo documentato quanto accadde a Katyn e si chiarisce quali siano state le responsabilità politiche, etiche e morali di quell'orrendo massacro: è un libro edito da il Mulino nel 2006 - Pulizia di classe: Il massacro di Katyn (pp. 144, € 11,00) - scritto dallo storico e sociologo Victor Zaslavsky.
L'autore, nato a San Pietroburgo il 26 settembre 1937, è uno storico russo naturalizzato canadese che si è specializzato nello studio dei rapporti tra Italia e Unione Sovietica, e in particolare tra Pci e Pcus, dal 1945 al 1989. Laureato in Storia presso l'Università di San Pietroburgo, ha insegnato Sociologia politica alla Luiss di Roma, è autore di numerosi libri storici riguardanti l'Urss e una delle sue ricerche principali è contenuta nel libro Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, edito sempre da il Mulino nel 1997 e scritto in collaborazione con la moglie Elena Aga Rossi. Zaslavsky si è spento a Roma il 26 novembre 2009, all'età di 72 anni.
La vicenda narrata nel libro di Zaslavsky è stata descritta recentemente molto bene anche dal film del celebre regista polacco Andrzej Wajda - Katyn - distribuito in Italia nel 2009.

domenica 24 aprile 2011

FRANCIA E TURCHIA TORNANO RIVALI (Mondo arabo in rivolta X) di Pier Francesco Zarcone


Da non molto la Turchia è uscita dal ripiegamento su se stessa dovuto alla rivoluzione kemalista e al suo sforzo di costruire un paese moderno e laico a imitazione dell’Europa. Al massimo le proiezioni all’esterno si concentravano nel ricorrente conflitto con la Grecia per Cipro e le acque territoriali dell’Egeo. Il kemalismo, però, dietro di sé aveva secoli e secoli di passato ottomano, con Costantinopoli diventata capitale del mondo turco/arabo, di un Impero che andava dal confine orientale del Marocco fino a quello orientale della Mesopotamia, includendo la Penisola araba. Questo passato unico dei Turchi – a parte quello ormai perduto dei secoli di permanenza nelle steppe asiatiche – nella nuova Turchia era rimasto solo addormentato in un sonno profondo, ma non era morto. E ora si assiste a un inusuale dinamismo della sua politica estera che si proietta sia verso le aree musulmane balcaniche (fino al 1911 parte dell’Impero ottomano) sia verso la “Mezzaluna Fertile” (ovvero il Vicino Oriente, fino al 1918 inserito anch’esso nell’Impero ottomano).

Paese euroasiatico e ponte fra due mondi, dopo lungo e inutile bussare alla porta dell’Unione Europea la Turchia - pur restando con un piede davanti alla soglia della vilmente sdegnosa Europa “cristiana” - con l’altro si è decisa a muovere verso oriente e verso sud, con una possibilità d’influenza e di mediazione non indifferente, anche per la sua oggettiva forza militare, che è di tutto rispetto. Se vogliamo dare un inizio approssimativo all’autonomia della politica estera turca rispetto agli Stati Uniti, alleati nella Nato, va probabilmente collocato nel momento del rifiuto di Ankara a concedere agli Stati Uniti l’uso delle basi aeree anatoliche per la seconda guerra contro l’Iraq.

sabato 16 aprile 2011

LA CRISI DELL’IRLANDA, UN ESEMPIO DELLE CONTRADDIZIONI DELL’UNIONE EUROPEA, di Michele Nobile

[Nota 5 sulla crisi - Aprile 2011] 

1. Le «storiche» elezioni irlandesi del febbraio 2011.
2. Gli anni della «tigre celtica» e dell’Irlanda come caso esemplare del «neoliberismo».
3. Dal boom delle costruzioni all’accordo-capestro con l’Unione Europea e il Fmi.
4. L’Irlanda come specchio delle contraddizioni dell’economia mondiale.
5.  Conclusione  politiche sull’Irlanda, e sulla feroce determinazione dei padroni e dei politici di eurolandia.


1. Le «storiche» elezioni irlandesi del febbraio 2011.

Mentre imponenti rivolte popolari facevano tremare la costa meridionale del Mediterraneo e cacciavano a viva forza i despoti, al di là della massa continentale e del canale della Manica, nell’isola detta di smeraldo, si verificava una piccola scossa d’assestamento. Si trattava delle elezioni politiche tenutesi in Irlanda il 25 febbraio, poco appariscenti sulle pagine dei giornali (italiani in particolare), ma qualificate, in modo pressoché unanime, come «storiche».
È importante capire se e per quali ragioni le recenti elezioni abbiano un reale valore «storico» per l’Irlanda; ma, poiché negli anni tra il 1994 e il 2007 quella irlandese fu la storia di maggior successo economico sia tra i paesi europei sia nell’intero gruppo dell’Ocse, e un esempio internazionale dei benefici del «neoliberismo» e dell’appartenenza all’area dell’euro, ad essere in causa nella crisi irlandese sono anche il significato e, potenzialmente, l’esistenza, dell’attuale costruzione europea.
Per comprendere perché si attribuisce tanta importanza a queste elezioni si consideri che il partito che le ha perse, il Fianna Fáil, ha governato per quasi i quattro quinti del periodo che inizia dal 1932 e sempre da solo fino al 1989, ottenendo alle elezioni risultati per lo più ben superiori al 40% (il 51% nel 1938 e il 50% nel 1977) anche quando costretto all’opposizione, scendendo al 39% solo nel 1992 e nel 1997. Fondato nel 1926 da Éamon de Valera, che tra il 1932 e il 1957 fu capo del governo per complessivi 19 anni, il controllo esercitato dal Fianna Fáil sull’apparato statale della Repubblica irlandese è paragonabile, quanto a durata, solo a quello della socialdemocrazia svedese, della Democrazia cristiana italiana e del Partito Liberaldemocratico giapponese. Profondissimo fu il segno originariamente impresso sulla società e sulla cultura politica irlandese nei primi decenni di potere, grazie ad un nazionalismo interclassista con tinte popolari che poté farsi forte, negli anni Venti, dell’opposizione di de Valera al Trattato con l’Inghilterra, in base al quale cinque contee del nord erano state escluse dal nuovo Stato libero, del rifiuto di giurare fedeltà alla Corona nell’ambito del Commonwealth, e dell’ambiguità nei confronti dell’Irish Repubblican Army. Il Fianna Fáil, in altri termini, si poneva come il legittimo erede della lotta armata contro il colonialismo inglese e come il custode dell’indipendenza della cattolica Irlanda.

venerdì 15 aprile 2011

Che bei giorni di sole e profumata libertà!, di Peppe Fontana


Carissimi Amici e Compagni
Rieccomi dai fumi evaporati di Bacco... che bei giorni di sole e profumata libertà !
questa volta ho avuto tempo per godermeli con più serenità.
Inutile dirvi quanto mi hanno felicitato i vostri auguri in tutte le lingue, trasmettendomi pensieri pregni di solidarietà e affettuosa amicizia e facendomi sentire il vostro esserci con immutata carica umana, da ogni dove, sullo stesso filo d’Arianna che continua a  nutrirmi di quella energia per resistere , lottare e sognare.
Siete davvero dei cari e speciali compagni di cui mi  onoro esservi amico.
Ora mi preparo alla parte più dura e crudele di questa vacanza....il rientro con i propri piedi all’inferno......non so con quale forza potrò piegare il mio spirito a voler portare questo corpo dentro il lager di Badu 'e Carros,  ma so che dovrò farlo e lo farò perché questo è al momento l’unico modo per ritornare in libertà fino a quando non si renderanno conto che continuare a tenermi in cella al costo di euro 400 al giorno, per poltrire gravando sulle tasche dei lavoratori, è ridicolo e un'ingiustizia, mentre chi ci dovrebbe stare si garantisce l’impunità col il processo breve ovvero con l’ennesima legge personale.
Spero di darvi buone notizie nei prossimi mesi, nel frattempo vi abbraccio tutti caramente 
   Peppe

mercoledì 13 aprile 2011

PEPPE FONTANA È LIBERO!










Giuseppe Fontana (nato a Castelvetrano - Trapani - il 13 aprile 1957 - residente a Selinunte) è stato arrestato a settembre del 1994, processato e infine condannato con l'accusa di aver partecipato a un traffico di droga dagli Stati Uniti all'Italia, in concorso con più di dieci persone. Fontana si è sempre dichiarato innocente da tale accusa, ha sempre cercato di far riaprire il processo (visto che nel precedente era stata fatta scomparire una prova a suo favore e da allora sono emerse testimonianze che lo scagionerebbero), ma ha sempre anche lottato in difesa dei propri diritti e degli altri reclusi. E questo non gliel'anno mai perdonato, obblgandolo spesso a isolamenti punitivi o al trasferimento in carceri tristemente celebri, come quello di Cerinola.

lunedì 11 aprile 2011

E L'IRAN?, di Pier Francesco Zarcone

«MONDO ARABO IN RIVOLTA» IX

Per quanto non si tratti di arabi, gli iraniani sempre musulmani sono (nella specie sciiti); ne parliamo per questo e perché l'Iran - pur essendo al di fuori del mondo arabo per lingua e cultura - tuttavia vi si proietta come ingombrante vicino e per i legami con gli sciiti arabi. Non ci limitiamo a parlare di questo paese solo nell'ottica delle rivolte che stanno agitando Nordafrica e Vicino Oriente (per inciso, l'ormai abituale concetto di Medio Oriente è una fesseria inventata dai colonialisti anglo-francesi, perché un minimo di logica vorrebbe che a ovest poi ci fosse territorialmente qualcosa di orientale: che invece non c'è). Qui cerchiamo di effettuare un minimo di introduzione al problema-Iran, utile a futura memoria.
In questa fase l'Iran sta quieto, deludendo quanti magari si aspettavano, come in effetti era avvenuto di recente, una discesa delle masse popolari nelle piazze contro il regime degli Ayatollāh sciiti (pur non essendo la culla dello Sciismo, da qualche secolo l'Iran ne è la casa-madre). C'è da pensare che, dopo varie inutili manifestazioni, duramente represse dai servizi di sicurezza, gli oppositori non se la sentano di rischiare di nuovo, per obiettiva mancanza di sbocchi.
La consistenza dell'opposizione al regime nelle grandi città e l'immunizzazione di buona parte dei giovani rispetto all'integralismo religioso, nessuno li discute; ma resta il fatto che le grandi città non sono esponenziali di tutto l'Iran, e non tutti nelle grandi città sono contro il regime; come del resto non lo sono tutti i giovani (almeno metà della popolazione ha meno di 25 anni). Il regime à ancora repressivamente troppo forte per essere rovesciato da manifestazioni di piazza, la società iraniana resta nazionalista e tradizionalista e non vi sono segnali idonei a far ritenere che al riguardo vi siano modificazioni di rilievo. Non c'è bisogno del senno di poi per poter dire (per quanto possa dispiacere) che il partito comunista Tudeh - filosovietico e di ortodossia marxista-leninista - non ce l'avrebbe mai fatta a prendere il potere: fenomeno comune a tutto il mondo islamico. A dire il vero, prima dell'avvento del khomeinismo c'era stato in Iran - con le elaborazioni sia di ‘Alī Shariati che del gruppo armato Mujaheddin del Popolo (o Mujaheddin-e Khalq) - un tentativo di sintesi tra islamismo ed elementi desunti dal marxismo; tuttavia, Shariati morì nel 1977 e i Mujaheddin del Popolo sono stati sanguinosamente repressi da Khomeini all'interno del paese.
Capire l'Iran attuale è importante per evitare gli stereotipi erronei che portano a fare di ogni erba un fascio (come invece fanno sovente i grandi organi di informazione), e quindi a commettere errori di valutazione e comportamento. È basilare, quindi, non guardare alla realtà iraniana con la lente deformante desunta da realtà islamiche differenti. Questo non significa affatto dare un giudizio positivo sul regime clericale instaurato nel 1979.

domenica 10 aprile 2011

«FOTOGRAFIA SITUAZIONISTA DELLA RIVOLTA», IL NUOVO LIBRO di Pino Bertelli

Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, giornalista, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su temi della diversità, della libertà, dell'emarginazione, dell'amore dell’uomo per l’uomo e per la difesa del Pianeta Azzurro come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista.

giovedì 7 aprile 2011

SHOAH (Claude Lanzmann, 1985), di Pino Bertelli

Non è facile parlare di Shoah. C'è della magia in questo film, e la magia non si può spiegare. Abbiamo letto, dopo la guerra, un gran numero di testimonianze sui ghetti, sui campi di sterminio; ne eravamo sconvolti. Ma oggi, vedendo lo straordinario film di Claude Lanzmann, ci accorgiamo di non aver saputo niente [...] non avrei mai immaginato una simile mescolanza di orrore e di bellezza. Certo, l'una non serve a mascherare l'altro, non si tratta di estetismo: al contrario, essa lo mette in luce, con tanta inventiva e tanto rigore che siamo consci di contemplare una grande opera. Un puro capolavoro.
(Simone de Beauvoir)

I. Dei massacri di Hitler e di Stalin

La coscienza mercantile/ipocrita della macchina/cinema ha sovente parlato della Shoah... quasi sempre lo ha fatto senza toccare la paura, il terrore l’angoscia profonda del popolo ebraico umiliato e offeso nei campi di sterminio nazisti... né Il diario di Anna Frank (1959) di George Stevens, Schindler’s list (1993) di Steven Spielberg, né tantomeno La vita è bella (1997) di Roberto Benigni... hanno in qualche modo sfiorato la reale condizione di milioni di innocenti bruciati nei forni crematori hitleriani... la connivenza della chiesa cattolica con il nazismo, la cecità strategica, compromessa, interessata degli alleati,  la complicità  dei “Circoli ebraici” con i loro assassini (in principio commerciavano l’espatrio in Palestina a colpi di denaro o oro che solo i ricchi potevano permettersi, come racconta il filosofo Hans Jonas)... hanno permesso l’attuazione della “soluzione finale” degli ebrei secondo quanto aveva scritto nel libro La mia battaglia, Adolf Hitler, un caporale pazzo asceso al potere con il sostegno della “buona borghesia” germanica e delle industrie tedesche (Siemens, Krupp, Thyssen, Bayer...). Ricordiamolo. La mia battaglia è stato un bestseller, quasi una Bibbia per i tedeschi del tempo, ed è ancora molto venduto alle nuove generazioni di imbecilli con la svastica in testa e il manganello nel culo. Gli scritti/proclami di Stalin, per i comunisti dissidenti (con l’approvazione del più grande e bastardo partito comunista europeo, il Pci), hanno sortito la stessa devastazione di anime e le galere siberiane si ingoieranno oltre venti milioni di persone.
Un’annotazione. Gli alleati sapevano dei campi di sterminio già nel 1941-42 e mai hanno bombardato un metro di rotaia per impedire che i treni carichi di ebrei arrivassero alle camere a gas. La chiesa cattolica (eccetto qualche prete che aveva preso il Vangelo sul serio) ha benedetto i cannoni nazisti e a fine guerra, per mezzo della Croce Rossa, ha permesso a molti assassini di espatriare in Sud America. I “Circoli ebraici”, eccetto le insurrezioni eroiche di Varsavia, Treblinka, Auschwitz, Sobibor... (ma ce ne sono state altre a Lodz, Vilnius, Cracovia)... non hanno favorito le rivolte in armi... e nemmeno i centri della resistenza tedesca, polacca, ungherese, francese, italiana... si sono molto spesi per impedire la catastrofe ebraica... la “resistenza ebraica”, cioè gli ebrei che hanno fatto la lotta armata ci sono stati ma (come dice lo storico ebreo Raoul Hilberg) erano una minoranza coraggiosa che l’odio nazista ha tentato invano di cancellare dalla storia.

sabato 2 aprile 2011

LIBIA E YEMEN (MONDO ARABO IN RIVOLTA VIII), di Pier Francesco Zarcone

RIFLESSIONI DUBBIOSE SULL’INTERVENTO IN LIBIA

Diciamo subito che i dubbi non riguardano la Francia, poiché il suo diretto interesse economico e politico in quell’area è palese: sotto certi aspetti è come se facesse nella ex colonia italiana un gioco analogo a quello che fu di Enrico Mattei con l’Fln algerino. Semmai i dubbi riguardano Gran Bretagna e Stati Uniti. Il ruolo del petrolio ha forse abbacinato un po’ tutti apparendo determinante. La cosa però convince meno se, “staccando la spina”, si riflette con calma secondo il vecchio metodo di mettere in discussione tutto. E allora i conti non tornano, anche in rapporto alle spese enormi che questi due paesi vanno sostenendo e all’assunzione delle incognite di un eventuale dopo-Gheddafi. In effetti, chiunque abbia il potere in Libia dovrà necessariamente vendere il petrolio all’estero, perché è grazie agli inerenti introiti che la popolazione gode del più alto reddito pro capite nel mondo arabo dopo l’Arabia Saudita, dispone di sistemi scolastico e sanitario migliori di quelli dei vicini e di una bassa pressione fiscale. Ma anche se, per assurdo, lo volesse lasciare dove sta, secondo gli esperti la produzione libica non sarebbe tale da incidere in modo rilevante sui prezzi di mercato.
Le motivazioni appaiono oscure nei limiti in cui si dovesse escludere davvero il ruolo del petrolio, e quindi altresì la conseguenza di voler legare a sé i ribelli col vincolo della gratitudine e dell’aiuto materiale, per il successivo ottenimento di proficue concessioni energetiche; sempre ammesso che si abbatta Gheddafi (fermo restando che un tale risultato sentimental/materiale non si è avuto né in Afghanistan con Karzai, né in Iraq con gli sciiti (anzi!), né in Kosovo con l’Uck).
In alternativa ci si può chiedere se si sia voluto rilanciare la Nato, dall’immagine effettivamente appannata per le recenti imprese belliche/pseudoumanitarie tutte prive di successi, ma solo di morti e distruzioni. Può anche essere, ma sembra un po’ poco. Pensare allora alla spartizione di un proficuo business per la ricostruzione di costose infrastrutture distrutte dai bombardamenti? Può essere anche questo, ma anche per tale ipotesi l’uscita di scena del raís è indispensabile.
Tuttavia, c’è davvero questa intenzione? Non sembra che muoversi nei limiti della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sia la cosa militarmente più idonea per farlo. Tant’è che dopo tanti bombardamenti i ribelli sono di nuovo alle corde. La Lega Araba è contraria ad armarli, le potenze imperialiste ancora non li armano e i paesi arabi nemmeno. Se qualche politico confida che Gheddafi se ne vada spontaneamente, è meglio che cambi mestiere, sia per la natura del nostro, sia perché gli stessi governi interventisti hanno fatto il possibile per chiudere al raís la via della ritirata. Attenzione: Ben Ali e Mubarak hanno “mollato” non solo al vacillare dei pilastri del loro dominio, ma anche avendo garanzie che non gli sarebbe stato presentato il conto delle malefatte compiute. Con Gheddafi tanto si è detto e fatto da far aprire su di lui addirittura un procedimento penale internazionale. E ora si cerca il paese che potrebbe accoglierlo!