RIFLESSIONI DUBBIOSE SULL’INTERVENTO IN LIBIA
Diciamo subito che i dubbi non riguardano la Francia, poiché il suo diretto interesse economico e politico in quell’area è palese: sotto certi aspetti è come se facesse nella ex colonia italiana un gioco analogo a quello che fu di Enrico Mattei con l’Fln algerino. Semmai i dubbi riguardano Gran Bretagna e Stati Uniti. Il ruolo del petrolio ha forse abbacinato un po’ tutti apparendo determinante. La cosa però convince meno se, “staccando la spina”, si riflette con calma secondo il vecchio metodo di mettere in discussione tutto. E allora i conti non tornano, anche in rapporto alle spese enormi che questi due paesi vanno sostenendo e all’assunzione delle incognite di un eventuale dopo-Gheddafi. In effetti, chiunque abbia il potere in Libia dovrà necessariamente vendere il petrolio all’estero, perché è grazie agli inerenti introiti che la popolazione gode del più alto reddito pro capite nel mondo arabo dopo l’Arabia Saudita, dispone di sistemi scolastico e sanitario migliori di quelli dei vicini e di una bassa pressione fiscale. Ma anche se, per assurdo, lo volesse lasciare dove sta, secondo gli esperti la produzione libica non sarebbe tale da incidere in modo rilevante sui prezzi di mercato.
Le motivazioni appaiono oscure nei limiti in cui si dovesse escludere davvero il ruolo del petrolio, e quindi altresì la conseguenza di voler legare a sé i ribelli col vincolo della gratitudine e dell’aiuto materiale, per il successivo ottenimento di proficue concessioni energetiche; sempre ammesso che si abbatta Gheddafi (fermo restando che un tale risultato sentimental/materiale non si è avuto né in Afghanistan con Karzai, né in Iraq con gli sciiti (anzi!), né in Kosovo con l’Uck).
In alternativa ci si può chiedere se si sia voluto rilanciare la Nato, dall’immagine effettivamente appannata per le recenti imprese belliche/pseudoumanitarie tutte prive di successi, ma solo di morti e distruzioni. Può anche essere, ma sembra un po’ poco. Pensare allora alla spartizione di un proficuo business per la ricostruzione di costose infrastrutture distrutte dai bombardamenti? Può essere anche questo, ma anche per tale ipotesi l’uscita di scena del raís è indispensabile.
Tuttavia, c’è davvero questa intenzione? Non sembra che muoversi nei limiti della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sia la cosa militarmente più idonea per farlo. Tant’è che dopo tanti bombardamenti i ribelli sono di nuovo alle corde. La Lega Araba è contraria ad armarli, le potenze imperialiste ancora non li armano e i paesi arabi nemmeno. Se qualche politico confida che Gheddafi se ne vada spontaneamente, è meglio che cambi mestiere, sia per la natura del nostro, sia perché gli stessi governi interventisti hanno fatto il possibile per chiudere al raís la via della ritirata. Attenzione: Ben Ali e Mubarak hanno “mollato” non solo al vacillare dei pilastri del loro dominio, ma anche avendo garanzie che non gli sarebbe stato presentato il conto delle malefatte compiute. Con Gheddafi tanto si è detto e fatto da far aprire su di lui addirittura un procedimento penale internazionale. E ora si cerca il paese che potrebbe accoglierlo!
Si affacciano poi altre domande: esiste un piano d’azione per la fase successiva ai bombardamenti? cosa faranno le potenze imperialistiche se Gheddafi - fra una controffensiva e l’altra - effettivamente fosse in procinto di prendere Bengasi? Uno specifico intervento aereo/navale dall’effetto di bloccare i governativi presso i confini della Cirenaica vorrebbe dire divisione della Libia in due entità. Riguardo a una tale ipotesi ci si chiede a chi converrebbe davvero. Mandare truppe di terra? Per il momento l’Onu l’ha vietato.
Inoltre, siamo sicuri che l’appoggio ai ribelli è supportato da un’effettiva conoscenza? Sta di fatto che su di essi circolano le voci più disparate, e poi vi è un altro aspetto: anche i ribelli libici possono finire con l’essere una novità rispetto al precedente quadro globale, pur non venendo da un altro pianeta i membri del Consiglio rivoluzionario (anzi sono persone che facevano parte del regime); tuttavia accade abbastanza sovente in politica che gli ex collaboratori - una volta autonomi - pratichino linee d’azione diverse o opposte da quelle per cui avevano lavorato sotto l’egida di un leader (si pensi al passaggio del potere a Sadat, che operò in senso contrario alla linea nasseriana da lui mai contestata prima). Ma finora le novità non sono politicamente tutte positive per le potenze occidentali; per quanto da noi non se ne parli. Invece sulla stampa turca si è rimarcato che oggi europei e statunitensi trovano difficoltà a negoziare con i nuovi vertici tunisini ed egiziani, e la cosa non migliora in rapporto alle popolazioni locali, non dimentiche degli ancora recenti rapporti di amicizia fra i loro deposti tiranni e l’Occidente.
Rimane la domanda: per quali concrete e utilitaristiche ragioni Gran Bretagna e Stati Uniti intervengono in Libia? A questo punto perché non azzardare dando la propria interpretazione? Chi scrive è sospettoso, soprattutto delle interpretazioni unilaterali. Ragion per cui vediamo gli elementi alla base dell’ipotesi che verrà formulata alla fine:
a) gli eventi tunisini ed egiziani - una sorpresa per gli imperialisti occidentali - si sono svolti in tempi relativamente brevi a opera di soggetti attivi locali: in Tunisia il potere di Ben Ali si è sgretolato appena è stata evidente l’incapacità della polizia a fare fronte alla piazza, e l’esercito – per quanto non sia una rilevante forza armata – ha abbandonato il dittatore; anche in Egitto è stata la presa di posizione dei militari a costringere a cedere Mubarak;
b) al di là del bel discorso tenuto tempo fa da Obama al Cairo, sta di fatto che l’Occidente ha dovuto ingoiare un rospo pieno di incognite, non avendo avuto la possibilità di mettere le mani sugli eventi in modo da pilotarli; quello stesso Occidente che chiude gli occhi sul Bahrein e l’Oman, che per ora reputa controproducente infilarsi nel pasticcio yemenita, ma che invece interviene in Libia;
c) in Libia la rivolta è diventata guerra civile e appena i ribelli si sono trovati alle corde c’è stato l’intervento aggressivo di Francia e Gran Bretagna - per quanto non sottolineato dai mass media il ruolo degli Usa è secondario, come inconfutabilmente dimostra il fatto che gli aerei operativi contro postazioni, mezzi e uomini di Gheddafi sono in pratica quelli francesi e britannici (ecco anche perché le cose vanno per le lunghe: questi aerei sono pochi);
d) il programma da poco predisposto dal Consiglio rivoluzionario di Bengasi per la nuova Libia risulta improntato ai princìpi di una regolare democrazia nazionale borghese ma non scevra di orgoglio nazionale;
e) il forzato abbandono degli imperi coloniali ha dimostrato ancora una volta che il lupo perde solo il pelo, e infatti Francia e Gran Bretagna hanno conosciuto le stagioni del neo-colonialismo.
Tutto questo fa sospettare (è un’ipotesi, d’accordo, però…) che in realtà almeno in Libia - un bel cuneo fra Tunisia, Algeria ed Egitto - se si riesce ad eliminare quella scheggia impazzita che è Gheddafi, Francia e Gran Bretagna vogliano imporre politicamente il loro peso, per evitare effetti “sovversivi” nel caso (ancora una volta) che qualcuno voglia prendere sul serio i princìpi di libertà e democrazia rappresentativa per i quali le masse sono scese in strada, e comunque possa affiancarsi a tunisini ed egiziani nel ruolo di interlocutore scomodo. È infatti consistente il rischio che le agitazioni del mondo arabo (dal Marocco al Golfo Persico) portino a una mappatura politica di quell’area in buona parte diversa da quella che ha consentito di lucrare su tanti intrecci negoziali, non sempre puliti. Col dominio politico anche gli interessi economici sono assicurati, e nell’area nordafricana Francia e Gran Bretagna hanno interessi di rispetto; forse più degli Stati Uniti. Inoltre nella nostra ipotesi si inquadra perfettamente - e si motiva - l’eventualità che dietro la rivolta cirenaica ci sia stato un “attizzamento” francese. E allora cade anche il giudizio negativo/ironico, da noi dato in una precedente corrispondenza, sulla cattiva organizzazione della rivolta: era anzi opportuno che così fosse, altrimenti come sarebbero potuti arrivare i salvatori?
SIRIA E YEMEN: DUE GRAVI E PERICOLOSE INCOGNITE
Tanto la Siria quanto lo Yemen (in arabo Yaman) hanno un’importanza geostrategica enorme (basta guardare la carta geografica); in più nello Yemen c’è il petrolio (scoperto nel 1984 nelle regioni settentrionali, e nel 1986 nel meridione) e - particolare non secondario - entrambi i paesi sono molto più esposti di altre regioni arabe (a parte l’Algeria, forse) a un consistente pericolo di avanzata dell’estremismo islamico più estremista. Talché prima di entusiasmarsi per le opposizioni locali bisogna fare almeno qualche ragionamento, che purtroppo non incide sul negativo giudizio sui regimi siriano e yemenita. Dopo di che, se si vuole, via libera ai sentimenti, ricordando però che anche il nazifascismo era nemico delle democrazie borghesi, ma non per questo le sue vittorie andavano a scapito solo di queste ultime. La storia insegna che non vi è modifica di assetto priva di squilibri; che questi ultimi creano vuoti di potere, buoni se colmati da forze o entità ostili alla reazione e all’imperialismo; ma che quando invece esiste il rischio concreto (e non la propaganda che gonfia e deforma i fatti) di vittoria delle forze più oscure dell’integralismo islamico - nemiche di tutto e tutti, ma in concreto disposte a fare affari col capitalismo (Bin Laden e governo talebano dell’Afghanistan docent) - allora c’è davvero da preoccuparsi. Una vittoria dell’islamismo radicale in Siria e Yemen sarebbe una catastrofe enorme per le sue implicazioni a vasto raggio.
La delicata situazione siriana - a cui si è accennato in una precedente corrispondenza - è resa ancora più pericolosa dalla presenza di una Fratellanza Musulmana (clandestina per la spietata repressione governativa, di modo che la sua reale entità odierna non è percepibile) con posizioni più radicali della casa-madre egiziana. Tuttavia con un’avvertenza riguardo a quest’ultima: in Egitto oggi la Fratellanza ostenta moderazione, per non dire democraticità, ma resta da vederne l’effettiva portata, e il dubbio che a ciò non corrispondano le vere scelte strategiche effettivamente si pone. Riguardo ai Fratelli Musulmani di Siria non è inutile ricordare che il loro massacro nella città di Hama, disposto negli anni Ottanta dal governo di Hafiz al-Assad, non fu la “strage degli innocenti” voluta da un emulo di Tamerlano. In precedenza la Fratellanza, decisa a prendere il potere con la violenza, aveva dato il via ad azioni armate culminate con la mattanza di allievi dell’Accademia Militare di Aleppo: i Fratelli Musulmani vi entrarono, separarono i cadetti di confessione alauita dagli altri, e li riempirono di pallottole in nome dell’Islam. Poi ci fu l’attacco a Hama. Ovvio che oggi Bashar al-Assad riceva la solidarietà dei re di Giordania e Arabia Saudita (un tempo arcinemici della Siria).
In teoria la cosa meno traumatica e più utile consisterebbe in una transizione alla democrazia borghese secondo il modello egiziano, ma ferma poi restando l’incognita di ciò che verrebbe fuori dalle urne alle prime elezioni, e di come reagirebbe l’esercito in caso di vittoria della Fratellanza Musulmana. Perché qui l’esercito non è una realtà distinta dal regime, e quindi fa parte del problema. Con tutta probabilità questa transizione morbida non ci sarà, e fra breve si vedrà quali margini di resistenza abbia Assad. La turbolenza siriana però travalica le frontiere del paese: ci sono almeno 800 km di confine con la Turchia a nord, e a sud c’è Israele. Nessuno di questi Stati resterebbe inerte di fronte a una Siria pericolosamente integralista: Israele per ovvi motivi, e il governo turco perché effettivamente combatte le infiltrazioni di al-Qaida sul suo territorio con la stessa durezza con cui combatte il curdo Pkk. E peggio che mai se una Siria integralista volesse riaprire con Ankara il dormiente contenzioso sull’ex sangiaccato di Alessandretta (Iskenderun; dopo la Grande Guerra mandato francese, la regione fu poi annessa dalla Turchia nel 1939).
Prima del suo discorso alla nazione dopo vari giorni di sommosse a Latakia, Bashar al-Assad si è sentito telefonicamente con il premier turco Erdoğan, ma non sembra che gli specialisti della materia abbiano prestato la giusta attenzione al contenuto della conversazione. Una cosa colpisce della posizione assunta dal premier turco: egli non ha invitato Assad a farsi da parte prima che sia troppo tardi, bensì a dare il via a riforme che in qualche modo calmino la piazza. Il perché è chiaro: Ankara non ha alcun interesse alla caduta del regime siriano e anzi ne vuole il mantenimento, sia per ragioni di politica interna, sia perché intende svolgere un proprio ruolo di mediazione/influenza nell’area araba, anche autonomamente da quella Ue che nei fatti ne rifiuta l’ingresso. Cosa, del resto, che la stampa turca non ha mancato di rimarcare.
Lo Yemen è un’altra complicata e pericolosa polveriera. Verrebbe da introdurre il discorso su di esso con un “benvenuti in quanto resta di un Medioevo arabo periferico e non particolarmente brillante”. Qui – oltre ai problemi di cui si dirà fra poco - la forte presenza di al-Qaida (o chi per lei) è una realtà indiscutibile, e inoltre, per la sua posizione nella penisola, l’assetto politico yemenita rientra fra gli interessi degli Stati Uniti nell’area.
La storia di questo paese per molti versi fa ricordare la frase coniata più di un secolo fa sugli Afghani: «un popolo che non si governa e non si fa governare». Anche durante i molti secoli di monarchia non vi è mai stato un potere politico in grado di incidere su una realtà sociale fatta da gruppi tribali in lotta fra di loro, e ancora oggi dotati di un potere molto consistente. Se tra loro ci fosse unione, il governo di Sana‘a potrebbe passare momenti terribili. Lo Yemen è quindi fatto da “tessere di mosaico” con collant molto tenue, e a tratti inesistente. Né gli Ottomani, né la monarchia degli Imām, né il giovane Stato repubblicano ci hanno potuto fare granché. E una cosa è certa: chi si installa nello Yemen solo da yemeniti può essere eliminato; provarci dall’esterno è di una difficoltà così estrema da convertirsi in impossibilità.
È legittimo porre un grosso punto interrogativo sugli orientamenti politici prevalenti fra le masse che protestano contro il regime del presidente Ali Abd Allah Saleh; ed è difficile negare un certo buon senso politico - per lo meno sotto un dato profilo - alle sue dichiarazioni sulla propria disponibilità a dimettersi purché il potere non finisca in mano a una “piazza” dai dubbi contenuti; per quanto ciò equivalga al tentativo di chiudere la stalla dopo la fuga dei buoi. Infatti negli anni Novanta del secolo scorso agli integralisti islamici del ramo salafita era stato consentito di costituire, nella regione settentrionale di Sa‘da, un sistema educativo parallelo a quello nazionale, confidando il governo repubblicano che la loro influenza facesse da contrappeso alle tendenza di estrema sinistra esistenti nel sud del paese (Aden e dintorni). Addirittura nel 1993-94 i salafiti hanno creato un’università (la al-Iman, «la Fede») per la formazione di quadri superiori da inserire nei campi educativo e religioso.
Da qualche mese il presidente Saleh è sotto il violento attacco di una parte della popolazione, e in più a febbraio era stato abbandonato dalla sua stessa confederazione tribale, gli Hashid. Eppure non si tratta del peggiore capo di Stato avuto dallo Yemen, né del peggiore fra i dittatori arabi. In rapporto all’incancrenita situazione yemenita, dove mancano le condizioni anche per la democrazia borghese, dargli la croce addosso per il fatto di essere un dittatore pare quanto meno ingenuo. Su tutto grava una nera ombra: in nessuna delle possibili ipotesi per il dopo-Saleh c’è la garanzia che alla fine seguaci o emuli di Bin Laden (suo padre era nato yemenita) non riescano a impadronirsi del paese. Ipotesi catastrofica quant’altre mai, giacché entrerebbero in campo anche interessi iraniani, appartenendo il 40-45% della popolazione a una corrente dello Sciismo (gli Zayditi).
Il paese è passato dalla monarchia assoluta più medievale a una repubblica autoritaria nel 1962, mediante un colpo di stato di ufficiali filonasseriani; ha subito conosciuto una selvaggia guerra civile fra repubblicani e tribù fedeli all’Imām, con interventi militari egiziani e sauditi. Dopo la finale - ma non schiacciante - vittoria repubblicana, fra uccisioni di presidenti, conflitti interni e con la parte meridionale del paese (ex colonia britannica), lo Yemen è stato un esempio di grande caos politico, a causa del quale il processo di formazione di strutture statali è stato assai lento. L’ascesa al potere di Saleh (un altro militare) nel 1978 ha obiettivamente aperto una nuova fase nella vita del paese. Innanzitutto egli passerà alla storia come artefice della riunificazione fra lo Yemen del nord e quello del sud. Nel 1967, sotto la spinta di un’insurrezione, i Britannici avevano abbandonato Aden e il resto della loro colonia yemenita, dove nel 1970 presero il potere elementi comunisti, costituendo la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen. Nel 1990 si arrivò alla riunificazione dei due Yemen; unione difficile, però, tant’è che nel 1994 si ebbe un tentativo di secessione del Sud da parte di ufficiali e politici di orientamento marxista, che costituirono la Repubblica Democratica dello Yemen, con capitale Aden. Ciò durò solo due settimane e finì sotto i colpi delle forze governative di Saleh. Egli però non si abbandonò a rappresaglie (come altresì aveva fatto nel 1978 in occasione di un fallito colpo di Stato contro di lui), ma anzi amnistiò i secessionisti (tranne i loro capi, che tuttavia erano riusciti a fuggire all’estero).
Le recenti e continue contestazioni di piazza per lo Yemen equivalgono al piovere sul bagnato, poiché aggravano - ma senza la proposizione di una reale alternativa - una situazione generale in cui la frammentazione tribale fa da lievito alle imprese terroristiche del radicalismo islamico (non privo di complicità negli stessi centri del potere statale) e alla lotta armata sciita degli Houthi nella provincia di Sa‘da, presso il confine saudita. Questo conflitto, per niente risolto, è di estrema pericolosità per Saleh, sia perché anch’egli ha tratto parte della sua legittimazione dall’essere zaydita come gli Houthi, sia per il rapido intervento iraniano che ha fornito armamenti ai ribelli. La reazione di Saleh è avvenuta (a parte l’appoggio saudita) grazie anche all’invio statunitense di armi e di “consiglieri” militari, con il risultato di fare schierare contro gli Usa gli Houthi ponendoli di fatto al lato dei nemici sunniti di al-Qaida o a essa vicini. E non basta. Nel sud del paese - dove è presente l'80% delle riserve petrolifere - i venti di secessione sono tornati a soffiare con una certa intensità, tanto che una Ong statunitense (la National Endowment for Democracy) a gennaio del 2010 ha sostenuto che la secessione avrebbe l’appoggio di circa il 70% degli abitanti meridionali.
La situazione sta palesemente precipitando, poiché il governo nell’ultima settimana ha perso il controllo di ben 6 delle 18 provincie del paese, e in più i ribelli Houthi hanno conquistato la città di Sa‘da, capitale dell’omonimo distretto. La cosa strana è che - per quanto questo territorio, confinante con l’Arabia Saudita, sia considerato un bastione di al-Qaida - il governo saudita ha rifiutato di inviare truppe in appoggio di Saleh, al contrario di quanto è avvenuto nel Bahrein.
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