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lunedì 11 aprile 2011

E L'IRAN?, di Pier Francesco Zarcone

«MONDO ARABO IN RIVOLTA» IX

Per quanto non si tratti di arabi, gli iraniani sempre musulmani sono (nella specie sciiti); ne parliamo per questo e perché l'Iran - pur essendo al di fuori del mondo arabo per lingua e cultura - tuttavia vi si proietta come ingombrante vicino e per i legami con gli sciiti arabi. Non ci limitiamo a parlare di questo paese solo nell'ottica delle rivolte che stanno agitando Nordafrica e Vicino Oriente (per inciso, l'ormai abituale concetto di Medio Oriente è una fesseria inventata dai colonialisti anglo-francesi, perché un minimo di logica vorrebbe che a ovest poi ci fosse territorialmente qualcosa di orientale: che invece non c'è). Qui cerchiamo di effettuare un minimo di introduzione al problema-Iran, utile a futura memoria.
In questa fase l'Iran sta quieto, deludendo quanti magari si aspettavano, come in effetti era avvenuto di recente, una discesa delle masse popolari nelle piazze contro il regime degli Ayatollāh sciiti (pur non essendo la culla dello Sciismo, da qualche secolo l'Iran ne è la casa-madre). C'è da pensare che, dopo varie inutili manifestazioni, duramente represse dai servizi di sicurezza, gli oppositori non se la sentano di rischiare di nuovo, per obiettiva mancanza di sbocchi.
La consistenza dell'opposizione al regime nelle grandi città e l'immunizzazione di buona parte dei giovani rispetto all'integralismo religioso, nessuno li discute; ma resta il fatto che le grandi città non sono esponenziali di tutto l'Iran, e non tutti nelle grandi città sono contro il regime; come del resto non lo sono tutti i giovani (almeno metà della popolazione ha meno di 25 anni). Il regime à ancora repressivamente troppo forte per essere rovesciato da manifestazioni di piazza, la società iraniana resta nazionalista e tradizionalista e non vi sono segnali idonei a far ritenere che al riguardo vi siano modificazioni di rilievo. Non c'è bisogno del senno di poi per poter dire (per quanto possa dispiacere) che il partito comunista Tudeh - filosovietico e di ortodossia marxista-leninista - non ce l'avrebbe mai fatta a prendere il potere: fenomeno comune a tutto il mondo islamico. A dire il vero, prima dell'avvento del khomeinismo c'era stato in Iran - con le elaborazioni sia di ‘Alī Shariati che del gruppo armato Mujaheddin del Popolo (o Mujaheddin-e Khalq) - un tentativo di sintesi tra islamismo ed elementi desunti dal marxismo; tuttavia, Shariati morì nel 1977 e i Mujaheddin del Popolo sono stati sanguinosamente repressi da Khomeini all'interno del paese.
Capire l'Iran attuale è importante per evitare gli stereotipi erronei che portano a fare di ogni erba un fascio (come invece fanno sovente i grandi organi di informazione), e quindi a commettere errori di valutazione e comportamento. È basilare, quindi, non guardare alla realtà iraniana con la lente deformante desunta da realtà islamiche differenti. Questo non significa affatto dare un giudizio positivo sul regime clericale instaurato nel 1979.
Conoscere meglio l'Iran degli Ayatollāh fa capire come gli integralismi islamici - sotto la cui egemonia nessun laico vorrebbe vivere - non siano l'uno la copia dell'altro, e che nel caso in ispecie non si tratta della stessa cosa degli wahabiti né tantomeno dei talebani. Infatti (cosa poco nota), nell'Iran khomeinista non mancano affatto importanti elementi di modernità istituzionale, e quindi di rottura di una tradizione millenaria, per quanto inseriti in un contesto islamico dominato da quella specie di ordine clericale in cui nel corso dei secoli si sono trasformati gli ‘ulamā sciiti.

LO STATO ISLAMICO

Innanzitutto c'è il fatto, appunto per nulla tradizionalmente fondato (né fra i sunniti né fra gli sciiti), della creazione di uno Stato islamico: la tradizione musulmana aveva conosciuto finora solo la Umma, la comunità dei credenti. Questo Stato ha una carta fondamentale che è la Costituzione, ai cui vertici esistono organi costituzionali di tipo europeo, fra cui il Parlamento; formalmente è prevista la classica separazione tra i poteri dello Stato secondo lo schema di Montesquieu, e infine presidente della Repubblica e parlamentari sono eletti dal popolo nel corso di elezioni da cui emerge tutta la vivacità della società civile iraniana. Una volta, di fronte alle perplessità di alcuni parlamentari circa la conformità di nuove leggi con la sharī'ah, lo Hojatoleslam ‘Alī Akbar Hashemi Rafsanjani giustamente tagliò corto, dicendo:
«Quando mai nella storia dell'Islam si è visto un parlamento, un presidente, un primo ministro e un governo? In realtà l'80% di quello che facciamo non ha precedenti nella storia dell'Islam».
Tuttavia il quadro democratico-rappresentativo è alterato da una serie di elementi particolari negativi.
Prima di tutto c'è la peculiare posizione superiore attribuita oggi ad ‘Alī Khamenei come guida spirituale suprema, che è applicazione della dottrina khomeinista del velayat-e faqih, che attribuisce ai giurisperiti - cioè ai mullāh sciiti - un'autorità politica di livello superiore. Alcune minoranze religiose sono costituzionalmente riconosciute (cristiani assiri e caldei, ebrei, zorastriani e cristiani armeni), ma a loro sono riservati in parlamento solo 5 seggi su 270 (!); il che vuol dire che anche in caso di esplosione demografica di queste minoranze i seggi sempre 5 resterebbero. Per quanto la Costituzione in sostanza ammetta solo rappresentanze di matrice religiosa, va notato che non è ammessa la rappresentanza dei musulmani sunniti (cioè degli arabi del Khuzestan, dei turkmeni del Caspio e dei curdi non sciiti: circa 21 milioni di persone su una popolazione di circa 70 milioni).
L'Iran è formalmente uno stato di diritto (seppure con varie limitazioni), ma la storia ci ha abituato a belle Costituzioni che nei punti essenziali per i cittadini rimangono poi lettera morta. Cosa che vale per l'Iran, in cui fare l'opposizione vera è fonte di pericoli a volte mortali. Ne sanno qualcosa i cosiddetti riformisti Houssein Moussavi e Mehdi Karroubi (e famiglie).

LA CONDIZIONE DELLE DONNE

Anche la "questione femminile" in Iran si presenta in modo particolare, e certo non accettabile dalle donne occidentali. Khomeini ha costretto le iraniane a portare il vestito islamico tradizionale del paese - il chador - e comunque a tenere in pubblico il capo coperto; pur tuttavia, combinate in questo modo esse escono di casa da sole, lavorano, partecipano alla vita sociale - in un modo atipico nella regione in cui l'Iran è situato - e il tasso di natalità è in media di 1,71 figli per donna (in Italia è di 1,30; in Afghanistan di 6,58, in Iraq di 3,97 e in Pakistan di 3,58). Ma soprattutto possono studiare (in verità la prima apertura delle università alle donne la fece nel 1936 Reza Shāh Pahlavi, il padre del monarca cacciato nel 1979). Non solo nelle università il numero delle studentesse ha superato quello dei maschi (le matricole femmine sono arrivate al 65%), ma sta aumentando un fenomeno inaudito per il comune musulmano conservatore: quello dei genitori che consentono alle figlie di trasferirsi in città da sole per studiare.
Tutto bene, quindi? Neanche per idea: a parte che l'assetto di questo paese neppure lontanamente può essere assimilato al contenuto dei sogni e dei vaneggiamenti dei sunniti salafiti (Bin Ladin, o il Gia algerino, ma non solo), i quali vorrebbero "instaurare" un Islam "dei primi tempi" che però storicamente non è mai esistito. In fondo, il regime iraniano ha creato uno Stato formalmente democratico-rappresentativo, ma lo usa dittatorialmente; non è un regime laico e ha pretese di realizzazioni religiose. Per restare alla condizione femminile, il rovescio della medaglia ha una sua consistenza innanzitutto in termini di fatto, per il persistere della mentalità maschilista/patriarcale; ma questo è poco consolante "per chi ci capita". Ad esempio, il Codice civile vieta il matrimonio prima della pubertà, ma è tutt'altro che scomparsa la pratica di far sposare bambine a uomini maturi (cioè di venderle a costoro). Le donne accedono al mercato del lavoro, ma la disoccupazione femminile supera l'80%; le donne possono studiare, ma quelle disoccupate con un buon titolo di studio (si pensi che i laureati sono al 60% donne) raggiungono circa il 40%.
In termini di diritto, l'art. 21 della Costituzione contiene lo strumento per interpretazioni restrittive delle leggi sulle donne, stabilendo che tali diritti devono essere in conformità con i criteri islamici. Inoltre, esistono norme tipicamente maschiliste e costrittive, come quella sui poteri del capofamiglia (può vietare lo svolgimento di mansioni tecniche in contrasto con la vita famigliare o il carattere della donna; spetta a lui autorizzare la presentazione della domanda per il passaporto; può divorziare senza comunicazione previa; può vietare l'uscita di casa). La reale discriminazione femminile è rivelata dal piano penale, in quanto la vita di una donna vale la metà della vita di un uomo. E poi c'è l’atrocità delle lapidazioni per le adultere. Anche qui si discrimina: se gli adulteri sono entrambi sposati, l'esecuzione avviene con l'uomo interrato fino alla vita (è più facile sfilarsi), la donna invece fino al petto; se per caso uno dei due riesce a uscire dalla buca e fuggire, allora l'uomo è salvo, ma la donna deve essere ripresa e quindi uccisa con arma da fuoco. In caso di fornicazione, invece, la parità fra i sessi è piena: 100 frustate a testa.

REPRESSIONE E CORRUZIONE

Sul piano politico il regime esercita una repressione dura e diffusa, quand'anche - forse - non abbia raggiunto i livelli da bassa macelleria del periodo dello Shāh. Basilarmente c'è il fatto che il dissenso non viene trattato come un diritto. Si pensi che esercitarlo fino a entrare nella sfera della libertà di pensiero significa esporsi all'accusa di essere "nemico di Dio", che può condurre alla pena capitale. Oltre agli oppositori, hanno grossi problemi gli appartenenti alle minoranze etniche, non tutte di religione sciita. Ci sono gli arabi sunniti nelle terre confinanti con l'Iraq, gli azeri (sciiti) la cui lingua è di matrice turca, i turkmeni (sunniti) e i curdi (per lo più sunniti), le cui pulsioni separatistiche sono solo dormienti, ma non eliminate da lunghe e sanguinose repressioni. Infatti le carceri iraniane sono piene di attivisti curdi.
Per concludere, va ricordato che la corruzione è in linea con gli standard orientali, l'economia non va bene e motivi di scontento esistono anche in ceti importanti: è di esempio la lunga serrata dei bazar delle maggiori città nell'ottobre del 2008 per protesta contro l'introduzione dell'Iva (che lì è solo del 3%).

LE OPPOSIZIONI

Ma se le opposizioni nel paese non mancano (fra esse ci sono anche i nostalgici della monarchia), al momento - manifestazioni urbane a parte - si tratta di realtà malamente organizzate e politicamente poco convincenti. Fra i più noti esponenti "riformisti" c'è il citato Moussavi: si tratta però di un personaggio controverso, considerabile comunque un khomeinista, e quindi poco affidabile ai fini di una politica di democratizzazione e laicizzazione. Se fosse altrimenti egli da tempo marcirebbe in galera, o sarebbe stato eliminato. Non si deve dimenticare che si deve a lui la creazione di un organismo famigerato, il Ministero delle Informazioni, che fu motore della "rivoluzione culturale islamica" nelle università, causa di vari morti tra gli studenti, di epurazioni di docenti progressisti e di chiusure di atenei. Egli non è nemmeno nemico del progetto nucleare: semplicemente vorrebbe essere al posto di Ahmadinejad.
Come opposizione effettiva e radicale ci sarebbero i superstiti Mujaheddin del Popolo, tuttavia - per ovvi motivi di repressione - più presenti all'estero che in Iran, dove comunque sono ancora operativi, come dimostra l'impiccagione, il 24 gennaio di quest'anno, di due membri di questa organizzazione per attività sovversive in territorio iraniano. Per quanto quasi nulla se ne sappia, si può dubitare che la gabbia repressiva del regime lasci molto margine d'azione ai Mujaheddin. In più grava su di loro il fatto di essersi schierati con Saddam Husayn nella guerra Iraq-Iran (1980-1988). Un loro nucleo di circa 4.000 elementi (uomini e donne) è ancora in Iraq, nell'ex campo di addestramento di Ashraf, ovviamente disarmati. Tenuto conto di quanto dura e tenace sia stata la resistenza iraniana all'aggressione irachena, è legittimo nutrire dei dubbi sulla simpatia che possono riscuotere nel paese d'origine (in Iraq non ne hanno nessuna). Tuttavia, ripetiamo, non si dispone di dati adeguati. Gli Stati Uniti vanno modificando il loro vecchio atteggiamento negativo verso i Mujaheddin, e vari politici premono perché siano cancellati dalla "lista nera" delle organizzazioni terroristiche (in cui furono inseriti nel 1997 dall'amministrazione Clinton per dare un contentino all'Iran). Per il bene dell'opposizione al regime c'è da sperare che non si arrivi mai a un accordo fra Usa e Mujaheddin per una loro utilizzazione contro il regime di Teheran, nel quadro di iniziative chiaramente made in Usa: ciò vorrebbe dire finire di distruggere i Mujaheddin e compattare nazionalisticamente gli iraniani attorno agli Ayatollāh.
Oltre alle fasce di opposizione esistono anche appoggi popolari a quella che Farian Sabahi ha definito "mullahcrazia", a prescindere dalla corruzione, dalle impennate dei prezzi, dalla disoccupazione, dalla repressione poliziesca (peraltro fino a oggi una costante storica del paese). Il reddito pro capite è assai inferiore al potere medio di acquisto, a motivo della pioggia di sussidi statali elargiti dal governo in tutta una serie di circostanze ed eventi (addirittura sono sussidiati i pellegrinaggi alla Mecca, migliaia dei quali annualmente offerti gratis per sorteggio). Né si devono trascurare l'estensione della copertura sanitaria a tutta la popolazione effettuata da Ahmadinejad e - in un paese a maggioranza di giovani - l'ampia concessione di mutui a tasso 0 per l'acquisto della prima casa.

NUCLEARE E CENTRALITÀ GEOSTRATEGICA

Per l'imperialismo, l'Iran è ancora nel mirino per il suo programma nucleare, con la scusa che potrebbe portare alla costruzione della bomba atomica (quella stessa bomba di cui dispone il confinante Pakistan, alleato degli Stati Uniti). Ovviamente le minacce non hanno fatto altro che indurire la posizione iraniana. Su questo problema sarebbe ingenuo accusare i "cervelli" dell'imperialismo di non indagare nemmeno le motivazioni che stanno alla base del programma nucleare, poiché di queste ragioni all'Occidente non importa nulla (così come non furono considerate quelle di Mossadeq all'epoca della nazionalizzazione delle concessioni petrolifere alla Gran Bretagna). Eppure delle ragioni ci sono, e vanno individuate per quanto si sia contrari al nucleare. L'Iran ha bisogno di aumentare il proprio potenziale energetico, a causa dell'incremento della sua popolazione e del massiccio aumento dell'inurbanizzazione. Il ricorso al petrolio per le necessità interne va fatto con discernimento, in quanto comporta una riduzione delle esportazioni petrolifere e delle relative entrate. Comunque si vanno sviluppando i progetti di nuovi giacimenti nel Golfo Persico. Ci sarebbero le risorse energetiche del Mar Caspio, ma v'è incertezza sulla perdurante vigenza dell'apposito trattato a suo tempo concluso con l'Urss, e quindi sull'appartenenza di tali risorse. E poi c'è effettivamente una questione che va nel senso delle paranoie statunitensi, almeno per certi profili: nell'arco di tre anni l'Iran potrebbe costruirsi la bomba. Non è detto che lo faccia, ma se lo facesse il motivo andrebbe individuato nelle preoccupazioni iraniane verso gli sviluppi in Afghanistan e Pakistan. Gli Ayatollāh sono nemici acerrimi dei talebani e di al-Qaida; le infiltrazioni di questi radicali sunniti in Pakistan, e soprattutto nei servizi segreti pakistani, sono arcinote; una non irrealistica nuova vittoria dei talebani in Afghanistan avrebbe effetti destabilizzanti in Pakistan, col forte rischio di una presa del potere da parte dei locali radicali islamici; e il Pakistan ha l'atomica. Un olocausto atomico di infedeli (poiché assimilabili a essi sono gli sciiti, secondo i fanatici sunniti) non dovrebbe spaventare gli esaltati con barba e turbante.
C'è una cosa ulteriore da dire: sul piano geostrategico l'Iran, per le sue proiezioni politico-religioso-culturali e a prescindere dal suo regime interno, è un elemento importantissimo in un'area che comprende (oltre alla "Mezzaluna Fertile" del Vicino Oriente e al Golfo Persico) la valle dell'Indo, l'Afghanistan e l'Asia centrale.
Benché si ritenga che le potenze imperialistiche siano specializzate in politiche estere ciniche e utilitariste al massimo, tuttavia l'Iran è finito nella "lista nera" dei paesi nemici ogni qual volta abbia assunto posizioni autonome a difesa dei propri interessi rispetto ai giochi politico-economici delle grandi potenze. Questo con prese di posizione strategicamente autolesioniste, come fece ieri Londra in occasione della nazionalizzazione del petrolio iraniano (1951), e come ha fatto Washington in epoca contemporanea, dalla rivoluzione islamica in poi, con l'attuale acme per la faccenda del nucleare. In questo modo (con tanti saluti al cinismo della politica estera) gli imperialisti si disfano di un fattore che invece potrebbe essere loro utile, in primo luogo in relazione all'Afghanistan. Virtualmente l'Iran sarebbe prezioso - oltre che come deterrente verso un Pakistan che non si sa bene dove vada a parare - in relazione alla questione afghana, quand'anche ormai sia incancrenita grazie alla stupidità di George W. Bush e dei suoi collaboratori. In Afghanistan, infatti, oltre ai talebani di religione sunnita e di etnia pashtun (la stessa che negli scritti di Kipling era chiamata pathan), abbiamo anche una buona fetta di popolazione non pashtun, di cui una parte è sciita e una parte appartiene comunque all'area linguistica persiana. Se a ciò si aggiunge l'ormai storica inimicizia di Teheran verso i talebani, non ci vorrebbe molto a capire che nel pasticcio afghano l'Iran potrebbe svolgere un ruolo assai utile (ricordiamo soltanto che la resistenza antitalebana di Ahmad Shāh Massoūd nel Panshir fu possibile grazie agli aiuti sia russi che iraniani).

Tornando al tema della situazione interna iraniana, c'è da dire solo che la speranza in una "primavera iraniana" è sempre l'ultima a morire, ma per il momento tutto fa ritenere che siamo ancora in pieno inverno. Ci vorranno ancora tempo, pazienza, fiducia nel futuro e perseveranza nell'azione da parte degli stessi iraniani; così come fu quando il bigotto sovrano Amir Mobarez al-Din (1318-1358) gettò il popolo nella disperazione con l'ordine di chiudere tutte le taverne. Scrisse all'epoca il poeta Hafez:
«Sii paziente, per volere di Dio riapriranno, riapriranno grazie alla purezza dei bevitori mattutini».
E così accadde dopo la morte di quel re. La storia iraniana non è cominciata e non finirà certo con gli Ayatollāh.

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