Da non molto la Turchia è uscita dal ripiegamento su se stessa dovuto alla rivoluzione kemalista e al suo sforzo di costruire un paese moderno e laico a imitazione dell’Europa. Al massimo le proiezioni all’esterno si concentravano nel ricorrente conflitto con la Grecia per Cipro e le acque territoriali dell’Egeo. Il kemalismo, però, dietro di sé aveva secoli e secoli di passato ottomano, con Costantinopoli diventata capitale del mondo turco/arabo, di un Impero che andava dal confine orientale del Marocco fino a quello orientale della Mesopotamia, includendo la Penisola araba. Questo passato unico dei Turchi – a parte quello ormai perduto dei secoli di permanenza nelle steppe asiatiche – nella nuova Turchia era rimasto solo addormentato in un sonno profondo, ma non era morto. E ora si assiste a un inusuale dinamismo della sua politica estera che si proietta sia verso le aree musulmane balcaniche (fino al 1911 parte dell’Impero ottomano) sia verso la “Mezzaluna Fertile” (ovvero il Vicino Oriente, fino al 1918 inserito anch’esso nell’Impero ottomano).
Paese euroasiatico e ponte fra due mondi, dopo lungo e inutile bussare alla porta dell’Unione Europea la Turchia - pur restando con un piede davanti alla soglia della vilmente sdegnosa Europa “cristiana” - con l’altro si è decisa a muovere verso oriente e verso sud, con una possibilità d’influenza e di mediazione non indifferente, anche per la sua oggettiva forza militare, che è di tutto rispetto. Se vogliamo dare un inizio approssimativo all’autonomia della politica estera turca rispetto agli Stati Uniti, alleati nella Nato, va probabilmente collocato nel momento del rifiuto di Ankara a concedere agli Stati Uniti l’uso delle basi aeree anatoliche per la seconda guerra contro l’Iraq.
La Turchia ovviamente fa i propri interessi politici, economici ed energetici, col realismo (finora) di una media potenza regionale. In questo quadro innanzitutto (come segnalato in una precedente corrispondenza) non gradisce che si creino squilibri ai suoi confini. Oggi di fatto sostiene ancora la Siria degli Assad, domani potrebbe essere portata a dire la sua sull’autonomia curda in Iraq, magari stabilendo patti chiari - alla cui eventuale violazione risponderebbe pesantemente – onde evitare contagi autonomistici tra i Curdi anatolici.
A causa della crisi libica oggi è tornata alla ribalta una rivalità che un tempo fece parte della cosiddetta “questione d’Oriente”: la rivalità tra Francia e Turchia. L’odierno attivismo politico francese verso il mondo musulmano nordafricano e vicino-orientale si scontra direttamente con gli analoghi interessi turchi. Già nel recente passato le iniziative orientali di Sarkozy avevano suscitato nella dirigenza politica turca una sospettosa freddezza, quali indebite intromissioni. Basti pensare alla proposta di creare un’Unione per il Mediterraneo, vista da Ankara come un tentativo di sbarrare definitivamente la strada per l’ingresso della Turchia nella Ue; oppure l’ostilità turca all’intervento di Parigi nei riguardi del breve conflitto armato fra Russia e Georgia. Inoltre Ankara non dimentica (la memoria turca è tutt’altro che corta) che la Francia (insieme alla Germania) è la grande oppositrice all’estensione della Ue alla Turchia.
Sulla questione libica si è obiettivamente creata una specie di “vuoto di potere” determinato dalla necessità per gli Stati Uniti - alle prese con vari guai economici e militari - di adottare un profilo molto basso sulla guerra civile in Libia; dal disinteresse tedesco e russo; dall’estraneità dell’area alle sfere di interesse dell’Arabia Saudita e dell’Iran; dalla mancanza di influenza dell’Unione Europea, della Lega Araba e dell’Unione Africana.
Campo libero, quindi, per la grandeur e la difesa di concreti interessi francesi. D’altronde la Francia, vecchia potenza imperialistica, non ha mai dimenticato la lezione della sua diplomazia colonialistica attestata sulla necessità di stare attenti a quanto accade nel mashrik (oriente) arabo, perché poi influisce sul maghrib (occidente). E così è stato.
Ovviamente la rivalità in atto fra Parigi e Ankara non facilita le aspirazioni turche a entrare nella Ue. Resta da vedere se, alle lunghe, tali aspirazioni resisteranno al logorio derivante da un’attesa umiliante e dall’emergere di contrasti di vario genere su una base geopolitica; oppure se la Turchia non deciderà di tornare ad essere un’autonoma potenza regionale assimilabile a un Giano “trifronte”: un volto verso i Balcani, uno verso l’Asia del Caspio e oltre, e uno verso la “Mezzaluna Fertile” e l’Africa settentrionale - memore della sapienza popolare secondo cui “il Turco resta l’unico amico del Turco”.
Dalla Giordania
La Giordania è un paese di cui ultimamente non si parla molto, ma costituisce un’altra area in cui sono a rischio gli interessi degli Stati Uniti. Ci sono state manifestazioni di islamici e non-islamici per riforme politiche democratico/borghesi con vari scontri di piazza che comunque non sono stati particolarmente sanguinosi. La situazione qui è particolare, in quanto la dinastia regnante possiede una propria legittimità islamica, derivante dall’effettivaa e indiscutibile discendenza dal profeta Muhāmmad. Proseliti di al-Qaida ce ne sono, ma fortemente tampinati dalle forze di sicurezza. La Giordania, però, ha condizioni politico/sociali/economiche non dissimili da quelle dei paesi arabi in subbuglio. Si pensi che é stata sotto legge marziale dal 1957 al 1992, e per quanto in quell’anno siano stati legalizzati i partiti poltici, il potere politico ed economico è nelle mani di un’oligarchia che non va al di là del 2% della popolazione. Ovviamente la frode elettorale non è cosa rara.
Al momento non si può del tutto escludere che le spinte alla democratizzazione portino a un re che governa meno (che non governi affatto è difficile in quell’ambiente), però potrebbero portare a un governo parlamentare meno filoccidentale di quello odierno.
Vi è però una novità, ovvero un segnale negativo per la monarchia, che finora ha basato la solidità del suo potere sull’intesa con le tribù beduine (che forniscono il nerbo della famosa “Legione Araba”, ben conosciuta da al-Fatah all’epoca del “settembre nero”): comincia a esserci, cioè, qualche segnale di malcontento derivante da questo ambiente e orientato direttamente verso la famiglia del re ‘Abdallāh II. Il 23 aprile il quotidiano libanese L’Orient-le-Jour ha pubblicato un’intervista a Fares al-Fayez, esponente radicale della potente tribù dei Bani Sakhr e professore di Scienze Politiche all’Università di Amman (le altre più potenti tribù sono gli Abadi, i Chokabi e i Manasser).
Al-Fayez oltre a puntare il dito accusatore contro mancanza di libertà, corruzione, ingiustizia sociale ecc., se l’è presa con la Regina, la palestinese Rania. Come si vedrà fra poco, la sostanza delle accuse alla moglie del Re (mettiamo fra parentesi il problema della loro fondatezza o meno) investe nello stesso tempo le questioni della solidarietà araba verso i Palestinesi e dell’artificialità dello Stato giordano costituito dall’emiro ‘Abdallāh I di Transgiordania a seguito del primo conflitto arabo/israeliano, e finito con l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967. In buona sostanza, per quanto la maggioranza della popolazione giordana sia da molto tempo palestinese, per i beduini locali si tratta ancora di estranei. La vera accusa di al-Fayez alla Regina è di favoritismo in favore dei Palestinesi per l’occupazione dei posti più importanti; accusa che si specifica in quella di voler «svuotare la Palestina per far venire in Giordania tutti i Palestinesi»(!), fino a compararla con le mogli di Mubārak e di Ben ‘Alī.
Alla base c’è la lamentela per una coabitazione con i Palestinesi “imposta ai Giordani” a seguito dell’occupazione sionista della Palestina, e l’accusa ai palestinesi di essersi installati in Giordania. Sembra un discorso “leghista”, ma tant’è. Purtroppo i beduini non hanno mai imparato a essere arabi, e oggi per i loro interessi alcuni cominciano ad atteggiarsi a giordani in senso non nazionale, ma di separatismo antipalestinese.