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sabato 30 aprile 2011

APPENDICE TURCA ALLE RIVOLTE ARABE (XI), di Pier Francesco Zarcone

Vola ancora l’aquila bicipite sotto la mezzaluna bianca

In precedenza, a corredo delle corrispondenze sulle rivolte arabe, abbiamo parlato anche dell’Iran, paese musulmano ma non arabo, a motivo della sua importanza strategica nel Golfo Persico e dei i suoi legami con le minoranze sciite arabe. Ultimamente si è dovuto accennare frammentariamente al ruolo della Turchia riguardo a Siria e Libia. Il ruolo turco nell’area è appena agli inizi, ma per seguirlo con l’adeguato livello di comprensione ci è sembrato non superfluo dedicare un’esposizione più organica alla sua attuale politica estera. D’altro canto le rivolte arabe non si svolgono in un ambito geopolitico separato da tutto il resto che gli sta attorno, bensì rientrano in uno spazio euro/afro/asiatico che la storia – sia pure attraverso lotte terribili – ha in un certo senso riunito mediante una serie di interrelazioni solo apparentemente interrotte dalla fase coloniale iniziata ai primi del XIX secolo. Di questo spazio i Turchi sono sempre stati parte integrante, e domani lo saranno ancor di più. La mezzaluna bianca fa parte della bandiera turca, e l’aquila bicipite – prima ancora di essere simbolo zarista e asburgico – è stato emblema dell’Impero bizantino, di cui i Turchi si sono posti come eredi con la conquista di Costantipopoli nel 1453. Questa aquila rappresenta la proiezione verso Occidente e Oriente nello stesso tempo, e ben esprime l’attuale corso della politica estera turca, e la metafora del volo dell’aquila sembra calzante perché il discorso sulla politica estera della Turchia di oggi investe i suoi rapporti con mondo arabo, Russia, Balcani e Israele, in una sorta – per usare l’espressione di Kipling – di “grande gioco” neo-ottomano.
Spesso i mass-media parlano di Turchia che ora guarda a oriente: ciò è vero solo in parte, poiché guarda anche a occidente, cioè ai Balcani. In questo quadro diventa un dettaglio secondario l’eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea, poiché in ogni caso gli Stati di un’Europa stanca e priva di progetti unificanti dovranno fare i conti con l’inatteso dinamismo turco a tutela dei propri interessi globali, non collimanti con quelli di Francia, Germania, Gran Bretagna (e Stati Uniti).
In relazione ai problemi e ai subbugli del mondo arabo, la Turchia ha di recente rafforzato il proprio prestigio e la propria influenza innanzi tutto nel ruolo di mediatrice. Ruolo già svolto nel 2008 dal Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan (si legge “Regep Tayyip Erdooan”) con un intenso sforzo diplomatico fra Siria e Israele; e nello stesso anno in occasione dell’operazione “Piombo Fuso” scatenata dagli Israeliani a Gaza. Ci sono pure vari segnali che fanno intendere che i gruppi politico-religiosi islamici di Egitto e Tunisia vedono di buon occhio l’acquisizione del “modello turco” quale possibile sbocco per una transizione di tipo democratico. Disponibilità alla mediazione ha mostrato Erdoğan anche in relazione al conflitto libico, e in una recente intervista al britannico Guardian ha rivelato l’esistenza di contatti sia con Gheddafi sia con i ribelli, e che la Turchia si sta preparando a gestire aeroporto e porto di Bengasi per favorire la distribuzione di aiuti umanitari. Ha pure ribadito l’interesse della Turchia al mentenimento dell’unità territoriale della Libia.
Per quanto riguarda la Siria il premier turco ha tempestivamente telefonato ad Assad per consigliargli di imparare la lezione e introdurre riforme per l’avvio di un tranquillo processo di democratizzazione; e del suo interesse per la stabilità siriana si è detto in una precedente corrispondenza. Inoltre Erdoğan si è recato a Baghdad per incentivare la cooperazione turco-irachena. Anche sull’Iraq la Turchia in prosieguo avrà qualcosa di dire e fare.
L’Impero zarista non esiste più, e pure l’Unione Sovietica; di modo che in un gioco diplomatico – politico ed economico - a tutto campo la Russia, ormai palesemente priva della plurisecolare velleità di conquistare Costantinopoli-Istanbul, può essere un proficuo partner per la Turchia (e viceversa per la Russia, che guarda pure all’Iran). Già nel 2009 la Turchia aveva concluso con Mosca un accordo per il passaggio del gasdotto South Stream nelle sue acque territoriali, in cambio della partecipazione russa al progetto di un oleodotto dal Mar Nero al Mediterraneo che, partendo dal porto turco di Samsun, attraverserà l'Anatolia fino Ceyhan.
Il South Stream è un progetto congiunto della russa Gazprom e dell’Eni: da costruirsi sul fondo del Mar Nero, partirà dalla Russia fino alla Bulgaria per portare il gas russo in Italia attraverso la Grecia e in Austria attraverso la Serbia e l’Ungheria. L’accordo del 2009 è significativo politicamente ed economicamente perché in concorrenza con quello per il gasdotto Nabucco (anch’esso con partecipazione turca), il quale con un percorso di 3.300 chilometri dovrà trasportare gas dall’Asia Centrale e dal Caspio, attraverso Azerbajgian, Georgia, Turchia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Austria, fino al resto d’Europa, ma aggirando la Russia, con la chiara finalità di fare uscire l’Europa dalla dipendenza dal gas russo. In tale questione energetica la Turchia ha giocato palesemente su due fronti politicamente antitetici a proprio vantaggio.
Non si può dire cosa accadrà a seguito del disastro di Fukushima, ma la Turchia aveva deciso di realizzare entro il 2023 almeno 2 centrali nucleari: la costruzione dell’impianto di Akkuyu (Büyükeceli), nel sud dell’Anatolia, sulla costa mediterranea è stato affidato alla Russia senza previa gara di appalto. La Russia ne sosterrà il costo (almeno 20 miliardi di dollari), sarà titolare del 51% della relativa quota azionaria e lo gestirà per 60 anni.
Nel suo riorientamento strategico la Turchia non si limita ad aprirsi ai rapporti con la Russia, né si muove solo per diventare un punto di riferimento per il mondo musulmano del Vicino Oriente e dell’Africa settentrionale: proietta ed estende la sua azione anche sui Balcani. E qui si vanno a deteriorare ulteriormente i suoi rapporti con Israele già guastatisi per la questione palestinese. Prima di procedere facciamo una considerazione a mo’ di inciso: tra cadute di dittature arabe filo-occidentali, protagonismo diplomatico turco e ostilità turco-israeliana, gli Stati Uniti corrono il serio rischio del totale sgretolamento del loro fronte strategico nel Mediterraneo orientale.
L’attacco israeliano alla nave turca Mavi Marmara (Marmara blu) nel 2010, causa della morte di 7 cittadini turchi e qualificato da Erdoğan come “terrorismo di Stato” e il conseguente ritiro dell’ambasciatore turco a Gerusalemme hanno segnato una svolta nei rapporti fra i due paesi; svolta che non sembra proprio superata. Israele ha cercato una compensazione instaurando rapporti con paesi balcanici (Macedonia, Grecia, Bulgaria, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Albania), proprio in una zona di immediato interesse turco; in più sta cercando di attizzare i tradizionali contrasti fra i Balcani di religione cristiana e i Turchi, per secoli dominatori della penisola. Uno degli intuibili intendimenti di Israele è quello di sfruttare tali contrasti nei paesi balcanici membri dell’Ue (Slovenia, Grecia, Romania e Bulgaria) per ostacolare vieppiù l’ingresso della Turchia nell’Unione come rappresaglia.
Ovviamente Ankara non sta a dormire, anzi si può dire che dopo la fine delle guerre balcaniche del 1912 è ritornata in quella zona  – che è la porta di ingresso alla Turchia - sfruttando tutte le opportunità. Una di esse è data dal contesto globale dell’area, particolarmente nei territori della ex Jugoslavia, frammentatisi in staterelli dotati di micromercati un po’ asfittici e suscettibili di finire sotto il protettorato di qualcuno, foss’anche il vecchio dominatore. Perché seppure la Turchia possa essere vista con sospetto e magari con astio, a motivo della storia passata, necessità concrete e inerenti interessi esistono e pesano; talché non è detto in assoluto che le manovre israeliane alla fine riescano.
Nell’ottobre del 2009 la Turchia ha firmato accordi commerciali ed economici nientepopodimeno che con la Serbia – la grande “appestata dei Balcani” - che durante il conflitto bosniaco si era presentata (per propaganda) come antemurale difensivo dell’Europa contro i musulmani. Addirittura il presidente serbo Boris Tadić parlò di necessità di collaborazione stategica con la Turchia per favorire la stabilità della regione. E infatti con la Serbia la Turchia ha instaurato una vera e propria cooperazione strategica, realizzando un grande successo diplomatico nel superare l’ostilità di Belgrado per il riconoscimento turco dell’indipendenza kossovara. Si pensi che a maggio del 2009. il ministro della Difesa turco, Vecdi Gönül, e quello serbo Dragan Šutanovac hanno stipulato un’intesa per lo scambio di informazioni riservate e per la produzione congiunta di materiale militare. In più i due Stati hanno concluso un accordo di libero scambio che in tre tappe avrà effetto integrale nel 2015, ed è tarato in base alle necessità serbe. Il giovamento per la Turchia consiste nella possibilità di realizzare investimenti e attività commerciali in Serbia. La cooperazione bilaterale si è estesa alla cooperazione nei trasporti e nelle infrastrutture, di cui la turca Eksim Bank assumerà il finanziamento all’85%, con un credito suppletivo di 30 milioni di dollari. Altri accordi si riferiscono alla cooperazione tecnica, finanziaria, economica e nel settore della sicurezza sociale.
Anche con il Kóssovo e con la Bosnia si vanno instaurando proficui rapporti, grazie al proficuo dinamismo del ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu (si legge “Davutoolu). La cosa interessante è che in questa politica di penetrazione la Turchia astutamente opera in una sorta di concerto con Mosca.
Oltre all’interesse economico Ankara persegue anche obiettivi politici creandosi degli alleati utili a contrastare le manovre ai suoi danni: infatti le grandi manovre turche oggi sono orientate prevalentemente verso Macedonia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Albania e Serbia. Tutti paesi in predicato – prima o poi – per entrare nell’Ue (se questa non si sfascia prima). Naturalmente per i circa 8 milioni di musulmani della penisola la Turchia è tornata a essere un punto di riferimento.
Tuttavia nell’area le resta il grosso e irrisolto problema dato dalla questione cipriota. Qui la soluzione è difficile, ma non sarebbe impossibile, soprattutto se Ankara giocasse le sue carte con la dovuta duttilità.