Prologo bellico
Nella notte fra il 4 e il 5 settembre del 1943 (cioè dopo le grandi e decisive vittorie sovietiche a Stalingrado e nel saliente di Kursk), Iosif Vissarionovič Džugašvili "Stalin", Vožd' (capo supremo) dell'Urss e del Pcus, affabile e premuroso ricevette al Cremlino di Mosca – alla presenza di Vjačeslav Molotov e del colonnello Georgij G. Karpov dell'Nkgb (Narodnyj komissariat gosudarstvennoj bezopasnosti – Commissariato del popolo per la sicurezza di Stato) – i tre maggiori Metropoliti della Chiesa ortodossa russa ancora
esistenti: Sergij di Mosca e Kolomna, locum tenens del vacante seggio patriarcale moscovita; Aleksij di Leningrado e Novgorod; Nikolaj di Kiev e Galič. Dopo più di venti anni di sanguinose persecuzioni i massimi esponenti di un'istituzione il cui annientamento faceva parte del programma del Partito e dello Stato sovietici, venivano ricevuti amichevolmente dal maggiore responsabile di quelle persecuzioni e delle inerenti vittime.
In
quell'incontro Stalin accolse favorevolmente la convocazione di un Concilio
della Chiesa russa che nominasse – dopo un lungo periodo di vacanza della
carica – il nuovo Patriarca di Mosca; non si oppose alla richiesta di apertura
di seminari e accademie teologiche; dette garanzie sulla riapertura di chiese e
sulla liberazione di vescovi imprigionati o confinati; manifestò l'intenzione
di istituire un organo di tramite fra il Governo e il Patriarcato; non si
oppose al desiderio dei Metropoliti che la Chiesa realizzasse una propria
autonomia economica, anche se cercò, con offerte mirate, di ricondurla sotto il
controllo governativo mediante una politica di sussidi. Inoltre, con "affettuosa premura" si informò sulle condizioni materiali in cui si trovavano
i Metropoliti suoi ospiti e la Chiesa stessa, e offrì per il nuovo Patriarca
una sede adeguata, mezzi di locomozione e rifornimenti alimentari.
Una
svolta sconvolgente nella storia della politica ecclesiastica sovietica.
Cos'era successo per arrivare a ciò? Si trattava davvero di un fulmine a ciel
sereno? Fare dei passi indietro è indispensabile.
La politica del regime prima
della svolta del '43
Nell'ex
impero zarista diventato Urss, gli anni '20 e '30 furono un periodo di sanguinosa
persecuzione religiosa (almeno un milione di morti in questo solo comparto
della repressione) a vasto raggio. L’eliminazione della religione era un
obiettivo su cui tutti i bolscevichi avevano concordato sin dall'inizio; a
dividerli, semmai, erano state le modalità di realizzazione dell'obiettivo, e
quindi anche gli atteggiamenti da assumere nei casi "socialmente" delicati,
come quando fu dibattuto il problema se accettare o no gli aiuti della Chiesa
ortodossa alle popolazioni colpite dalla fame: Kalinin, Rykov, Stalin e Kamenev
erano favorevoli, Bucharin, Zinov'ev e Trotsky contrari.
Nella
primavera/estate del '22, il regista della campagna antireligiosa era stato
Trotsky, altresì pianificatore di uno scisma per spezzare l'unità della Chiesa
e fautore di una politica definibile del "rapido rullo compressore". Altri,
come Kamenev, avrebbero preferito un attacco da svolgersi in tempi più lunghi,
meno traumatico e violento che – fermo restando l'obiettivo finale – potesse
ammortizzare le reazioni interne e internazionali. Nella primavera del '23
Stalin fece propria la posizione di Kamenev, e nell'estate dello stesso anno
Emeljan Jaroslavskij arrivò a parlare di "Nep religiosa". Comunque, emarginato
Trotsky anche da tale questione, la lotta antireligiosa si svolse con costanza,
tenacia, perseveranza ed energia, sia pure con le cautele tattiche richieste di
volta in volta dal corso degli eventi.