Prologo bellico
Nella notte fra il 4 e il 5 settembre del 1943 (cioè dopo le grandi e decisive vittorie sovietiche a Stalingrado e nel saliente di Kursk), Iosif Vissarionovič Džugašvili "Stalin", Vožd' (capo supremo) dell'Urss e del Pcus, affabile e premuroso ricevette al Cremlino di Mosca – alla presenza di Vjačeslav Molotov e del colonnello Georgij G. Karpov dell'Nkgb (Narodnyj komissariat gosudarstvennoj bezopasnosti – Commissariato del popolo per la sicurezza di Stato) – i tre maggiori Metropoliti della Chiesa ortodossa russa ancora
esistenti: Sergij di Mosca e Kolomna, locum tenens del vacante seggio patriarcale moscovita; Aleksij di Leningrado e Novgorod; Nikolaj di Kiev e Galič. Dopo più di venti anni di sanguinose persecuzioni i massimi esponenti di un'istituzione il cui annientamento faceva parte del programma del Partito e dello Stato sovietici, venivano ricevuti amichevolmente dal maggiore responsabile di quelle persecuzioni e delle inerenti vittime.
In
quell'incontro Stalin accolse favorevolmente la convocazione di un Concilio
della Chiesa russa che nominasse – dopo un lungo periodo di vacanza della
carica – il nuovo Patriarca di Mosca; non si oppose alla richiesta di apertura
di seminari e accademie teologiche; dette garanzie sulla riapertura di chiese e
sulla liberazione di vescovi imprigionati o confinati; manifestò l'intenzione
di istituire un organo di tramite fra il Governo e il Patriarcato; non si
oppose al desiderio dei Metropoliti che la Chiesa realizzasse una propria
autonomia economica, anche se cercò, con offerte mirate, di ricondurla sotto il
controllo governativo mediante una politica di sussidi. Inoltre, con "affettuosa premura" si informò sulle condizioni materiali in cui si trovavano
i Metropoliti suoi ospiti e la Chiesa stessa, e offrì per il nuovo Patriarca
una sede adeguata, mezzi di locomozione e rifornimenti alimentari.
Una
svolta sconvolgente nella storia della politica ecclesiastica sovietica.
Cos'era successo per arrivare a ciò? Si trattava davvero di un fulmine a ciel
sereno? Fare dei passi indietro è indispensabile.
La politica del regime prima
della svolta del '43
Nell'ex
impero zarista diventato Urss, gli anni '20 e '30 furono un periodo di sanguinosa
persecuzione religiosa (almeno un milione di morti in questo solo comparto
della repressione) a vasto raggio. L’eliminazione della religione era un
obiettivo su cui tutti i bolscevichi avevano concordato sin dall'inizio; a
dividerli, semmai, erano state le modalità di realizzazione dell'obiettivo, e
quindi anche gli atteggiamenti da assumere nei casi "socialmente" delicati,
come quando fu dibattuto il problema se accettare o no gli aiuti della Chiesa
ortodossa alle popolazioni colpite dalla fame: Kalinin, Rykov, Stalin e Kamenev
erano favorevoli, Bucharin, Zinov'ev e Trotsky contrari.
Nella
primavera/estate del '22, il regista della campagna antireligiosa era stato
Trotsky, altresì pianificatore di uno scisma per spezzare l'unità della Chiesa
e fautore di una politica definibile del "rapido rullo compressore". Altri,
come Kamenev, avrebbero preferito un attacco da svolgersi in tempi più lunghi,
meno traumatico e violento che – fermo restando l'obiettivo finale – potesse
ammortizzare le reazioni interne e internazionali. Nella primavera del '23
Stalin fece propria la posizione di Kamenev, e nell'estate dello stesso anno
Emeljan Jaroslavskij arrivò a parlare di "Nep religiosa". Comunque, emarginato
Trotsky anche da tale questione, la lotta antireligiosa si svolse con costanza,
tenacia, perseveranza ed energia, sia pure con le cautele tattiche richieste di
volta in volta dal corso degli eventi.
Dietro
le prese di posizione di singoli esponenti del bolscevismo operavano due
tendenze, che saranno una costante nella politica ecclesiastica sovietica e
alle quali si deve la mancanza di uniformità nello sviluppo di detta politica:
la tendenza ideologica, espressa
soprattutto dal Partito, animatrice delle più radicali campagne antireligiose;
e quella legalista, volta a definire
(ora in meno, ora in più) gli àmbiti di liceità giuridica entro cui il fatto
religioso potesse operare, in attesa della sua "inevitabile estinzione".
Quest'ultima tendenza era espressa dalla burocrazia statale. Esisteva anche un
terzo fattore, strumentale: la
polizia politica, attiva nel neutralizzare e disarticolare le istituzioni
ecclesiastiche. Il risultato di estirpare del tutto la fede religiosa dalla
società sovietica non fu mai raggiunto, mentre lo fu di ridurre ai minimi
termini le strutture della Chiesa ortodossa, fino al punto di farle quasi
estinguere.
Il
problema religioso restava quindi del tutto aperto nella sostanza, con
l'aggravante del ripiegamento della maggior parte dei credenti ortodossi verso
forme di clandestinità che rendevano sempre più difficile il controllo
politico/ideologico, mentre le successive vicende degli anni '80 e '90
dimostreranno la finale ricomposizione del binomio Russia-Ortodossia.
La Guerra Mondiale apre un
nuovo capitolo
L'incidenza
dell'aggressione hitleriana e delle conseguenze della guerra sulla politica
ecclesiastica sovietica è innegabile. Tuttavia si deve prendere nota del fatto
che terminato il Grande Terrore, tra la fine del '38 e l’inizio del '39, la
pressione persecutoria contro la Chiesa russa si attenuò, posizionandosi su
limiti ormai definibili "normali", non dandosi luogo alla totale eliminazione
dei vertici ecclesiastici, che pure era a portata di mano e se ne ventilava la
realizzazione. Pragmaticamente, Stalin pensò bene di frenare un po' di fronte a
un contesto politico europeo su cui gravavano consistenti venti di guerra, e in
presenza di un conflitto armato col Giappone (1938-39) al confine siberiano.
Quando
in applicazione del patto Ribbentrop/Molotov l'Urss occupò le regioni a
occidente di Ucraina e Bielorussia, diventate polacche dopo la Prima guerra
mondiale, automaticamente ci fu un forte aumento di cittadini sovietici di
religione ortodossa (in precedenza pesantemente vessati dai polacchi cattolici)
e di intatte strutture ecclesiastiche. In più si trattava di aree abitate da
etnie non russe, dalle evidenti pulsioni nazionalistiche, talché non era molto
saggio sottoporle a una persecuzione religiosa del tipo degli anni '20 e '30,
tanto più che già era stata avviata la persecuzione politica indispensabile per
impiantare il regime staliniano.
Con
l'aggressione nazista all'Urss, poi, sui due lati del fronte si verificarono
dei fenomeni paralleli non trascurabili: la chiamata alle armi fatta da Stalin
con forti accenti patriottici («Fratelli e sorelle, un grave pericolo minaccia
la nostra Patria»), accompagnato da appelli similari della superstite gerarchia
religiosa ortodossa; e nelle zone occupate dalla Wehrmacht la spontanea e
diffusa ripresa della vita religiosa pubblica e della Chiesa.
Già
il 22 giugno (all'indomani dell'invasione), il metropolita di Mosca Sergij – in
un infiammato appello alla lotta contro i tedeschi in nome dell'Ortodossia –
garantendo l’impegno della Chiesa russa, altresì assicurava che non si sarebbe
cercato di approfittare delle difficoltà di un regime persecutore e per niente
amato, e contemporaneamente riaffermava in faccia a Stalin il tradizionale
ruolo della Chiesa quale garante ed espressione dell'unità e dell'identità
spirituale del popolo russo. Naturalmente le autorità sovietiche non
ostacolarono affatto la diffusione di quel messaggio in tutte le parrocchie dei
territori non invasi, benché non vi si parlasse per nulla né di Unione
Sovietica né del suo glorificato capo. E il successivo 7 novembre, alla sfilata
a Mosca per l’anniversario della Rivoluzione, fu lo stesso Stalin a riproporre
quali esempi di patriottismo i prìncipi-santi menzionati da Sergij nel suo
messaggio.
I segnali precedenti la
svolta
Se
anche la guerra contro la Germania fece da catalizzatore, tuttavia già con la
spartizione della Polonia c'erano stati segnali che – se ben focalizzati –
erano rivelatori di qualcosa che mutava. L'offensiva antireligiosa ci fu, ma non
particolarmente distruttiva; ci furono segni della possibilità di negoziati di
fatto a beneficio sia dello Stato sia della Chiesa; inoltre il potere sovietico
concesse alla Chiesa russa qualcosa prima di allora inimmaginabile: il
passaggio sotto la sua giurisdizione delle Chiese ortodosse della ex Polonia
orientale, della Lituania, dell'Estonia e della Lettonia. Lo stesso accadde nel
1940 con l'occupazione sovietica della Bessarabia e della Bucovina, regioni
prima rientranti nella giurisdizione della Chiesa ortodossa romena e passate a
quella russa, indipendente dalla volontà di Bucarest. La Chiesa di Mosca
aumentava così di qualche milione di fedeli e di preziose strutture logistiche.
Anche
se nel 1940 non erano cessate in Urss né le chiusure di chiese né le misure
restrittive, sia le gerarchie ecclesiastiche sia i fedeli ortodossi capirono
che virtualmente si aprivano nuove possibilità, e ne fu segno proprio alla
vigilia dell'attacco hitleriano l'enorme partecipazione popolare a Leningrado
alla Liturgia della notte di Pasqua, nonostante cariche della polizia a
cavallo.
Tuttavia
le prospettive della Chiesa russa restavano alquanto oscure e precarie.
Alla ricerca delle
motivazioni di Stalin
Resta
da capire dove volesse andare a parare Stalin con la sua iniziativa
aperturista, fermo restando che fu lui a dettare le regole del gioco e che la
svolta – in sé e per come fu attuata – voleva lasciare la Chiesa sotto il
potere dello Stato sovietico. Le si riconosceva un ruolo e una visibilità in
precedenza impensabili, ma restava il principio che la propaganda ateista, il
pensiero scientista e il progredire della società sovietica avrebbero portato
all'esaurimento della religione.
Sicuramente
sono entrati in gioco vari fattori, interrelazionandosi, ma c'è un aspetto da
evidenziare: Stalin non si è mai dimostrato propenso alle tattiche di
cooptazione di nemici o avversari, preferendo distruggerli e umiliarli. Per
tale ragione si dovrebbe concludere che per lui nel 1943 la Chiesa russa non
era da annoverare fra i nemici ma – pur restando essa estranea ai fini ultimi
del sistema – la si poteva ritenere strumentalmente utile per l'assetto che si
voleva costituire in una fase intermedia e propedeutica dalla durata non
definibile aprioristicamente.
A
dover essere scartata è l'ipotesi del collegamento fra la svolta del '43 e la
conduzione della guerra contro l’invasione nazista. Al riguardo vanno
considerati almeno due fattori: fin dall'aggressione hitleriana la Chiesa russa
aveva manifestato il proprio patriottismo e il fatto di sentirsi legata alla
Russia nella vita e nella morte; nulla, inoltre, faceva pensare che avrebbe
cambiato orientamento; inoltre la solidarietà della Chiesa non fu solo verbale,
bensì essa, con le sue residue strutture locali, si impegnò in una massiccia
serie di iniziative di assistenza materiale a invalidi, orfani e famiglie di
combattenti, e raccolse anche i soldi per finanziare l'allestimento di una
colonna corazzata (la Dmitrij Donskoj).
A Leningrado, durante il terribile e lungo assedio, il Metropolita e i suoi
preti restarono al loro posto. Dal canto suo, il regime sospese gli arresti di
ecclesiastici, ne liberò alcuni, rallentò la propaganda antireligiosa e non
eccepì per il fatto che la maggior parte delle iniziative assistenziali e
patriottiche della Chiesa violassero la legislazione sovietica circa l'ambito
di operatività consentitole. Addirittura la notte di Pasqua del 1942 – a Mosca
e nelle maggiori città sovietiche – fu sospeso il coprifuoco per consentire ai
fedeli la partecipazione alla Liturgia.
Probabilmente
per meglio capire le ragioni di Stalin è opportuno prendere le mosse dalle
prospettive militari e politiche apertesi per l'Urss dopo la vittoria a Kursk
nel mese di luglio, che segnò il collasso delle forze corazzate tedesche.
L'impossibilità che la Germania vincesse sul fronte orientale era ormai palese,
e Stalin poteva pensare di avanzare verso Ovest. In assenza dell'apertura del
cosiddetto "Secondo fronte" a Occidente da parte degli Alleati (quello aperto
in Italia non era tale), non era prevedibile soltanto quando la guerra sarebbe finita,
ma il suo esito in Europa non era più a rischio.
Stalin,
quindi, poteva pensare anche a come sistemare i paesi verso cui si proiettavano
le armate sovietiche. Fra essi – non essendo avvenuto lo sbarco alleato nei
Balcani, vagheggiato da Churchill – c'erano Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Albania
(la Grecia era zona d'interesse britannico): Paesi o a stragrande maggioranza
ortodossa o con forti presenze ortodosse. In questa prospettiva la
collaborazione della Chiesa russa diventava di somma utilità, essendo
fortissimo in quelle terre il legame religioso. In più il miglioramento dei
rapporti con la Chiesa era utilizzabile propagandisticamente contro pressioni e
lamentele di circoli britannici e statunitensi. Ma non ci si può fermare a
questo. C'è da capire meglio come intendesse e progettasse Stalin gli assetti
derivabili dall'espansionismo sovietico verso Occidente.
Parlare
dell'esigenza (già di epoca zarista) di creare una solida fascia di sicurezza
sarebbe cosa vera, ma insufficiente. In ballo c'era qualcosa di molto
tradizionale per la Russia, sia pure con forme e caratteri nuovi: c'era la
creazione di un Impero. Qui si manifesta lo Stalin georgiano russificato ad
alto grado (accento a parte), fermo restando che in questa sede non interessa
sapere dove, come e quando egli sia diventato un granderusso. Sostenere che il
suo cambio di rotta sia addebitabile all'invasione nazista, a ben guardare non
è possibile, giacché gli inizi di novità in questo senso possono
essere rinvenuti già a metà degli anni '30.
Si
era forse rilevato, nella tradizionale propaganda bolscevica, un sensibile
deficit di capacità a mobilitare stabilmente ed efficacemente le masse attorno
al regime. Così vediamo l'avvio di un processo di recupero del passato della
Russia nella sua interezza, come se l'Urss ne fosse la legittima erede. E non a
caso nel 1937 abbiamo l'incarico di Stalin a Sergej Ėjzenštejn per un
patriottico film su San Aleksandr Nevskij, che salvò la Russia dai Cavalieri
Teutonici. Contemporaneamente si manifestò l'accentuazione del carattere russo
della società sovietica, fu reintrodotto l’uso della parola "patria" innanzitutto per i veri e propri cittadini dell'Urss, oltre che per il proletariato
mondiale in rapporto all'Unione Sovietica. Era come se si andasse alla ricerca
di una continuità originariamente negata dal bolscevismo, del nesso capace di
unire la storia del popolo russo alla rivoluzione d'Ottobre. Indipendentemente
dal ruolo svolto da Stalin, non si tratta di un fenomeno anomalo. I popoli
hanno bisogno di un passato in cui riconoscersi: il bisogno può restare latente
per periodi anche lunghi, e accade pure che esso sia negato radicalmente e
violentemente. Atatürk ci provò in Turchia. Della sua opera molto è rimasto, ma
alle lunghe è il passato ottomano a tornare, e sempre in esso il Turco si
riconosce.
"Nazionalismo" russo?
Il
menzionato processo volto a presentare lo Stato sovietico quale punto di arrivo
della grande storia russa ebbe successo, e la guerra contro la Germania
dimostrò che la valutazione non era sbagliata in termini pratici. Sugli spazi
espansionistici apertisi dal 1943 bisognava che si proiettasse un progetto
imperiale se non si voleva avere la sicurezza dell'effimero.
Al
riguardo si è spesso parlato di nazionalismo russo ispiratore. C'è da dire,
però, che l'ambito soggiacente a questo termine sembra troppo ristretto e non
chiarificatore, anche perché – così come accade con la parola "democrazia" –
senza un'adeguata aggettivazione o specificazione, si rischia la confusione.
Una digressione per capirci meglio. Quando fu eletto patriarca di Mosca
Aleksij, con il placet di Stalin, l’altro prelato non assunse il titolo del
patriarca Tichon, eletto nel 1917 (che era "Patriarca di Mosca e di tutta la
Russia"), bensì quello di "Patriarca di Mosca e di tutta la Rus'" (erroneamente
tradotto con "di tutte le Russie"). Sembra la stessa cosa, ma non lo è. La Rus' si riferisce a una situazione "plurale", cioè alla mitizzata epoca in cui gli
antenati di quelli che saranno poi chiamati Russi, Ucraini (o piccoli Russi),
Bielorussi (Russi bianchi) erano una realtà unitaria.
Un
titolo programmatico che rifletteva nella dimensione ecclesiastica ed
ecclesiale anche il programma politico di Stalin. Programma che aveva bisogno
di una Chiesa ortodossa unita, per quanto da lui controllata.
Tornando
a noi, parlare tout court di
"nazionalismo" a proposito della Russia (e di Stalin) cozza contro il fatto che
nelle terre via via dominate dagli Zar moscoviti non è mai esistito una
Stato-nazione, fenomeno che in Occidente va collegato con la crescita del
nazionalismo. Mosca, e poi San Pietroburgo, sono state il centro di un Impero con
un'idea imperiale a contenuto essenzialmente religioso messianico-apocalittico,
in cui il popolo russo occupava un posto centrale, ma la russificazione aperta
a tutti. Un po' alla maniera dell'antica Roma.
Del
pari era necessaria un'idea imperiale per l'espansionismo sovietico legato al
crollo della Germania, e gli immediati "fruitori" sarebbero stati i popoli
ortodossi e slavi dell'Europa orientale e dei Balcani. L'idea comunista non
bastava. Pesava quanto accaduto nel 1937 quando, dopo vent'anni di governo
sovietico ateista e persecutore, il censimento della popolazione dell'Urss (i
cui risultati sono rimasti sconosciuti fino agli anni '90) rivelò che il 56,7%
dei sovietici si era dichiarato credente nonostante la pericolosità dell’essere
sinceri. Figuriamoci come doveva essere la situazione durante la guerra
antinazista.
Se
non piace la parola "imperiale", potremmo utilmente definire il progetto di
Stalin con slavjanstvo: unità degli
Slavi. Vecchia idea che nell'800 era stata favorita dalla Chiesa russa in
termini di unione dei popoli ortodossi. In questa prospettiva il ruolo della
Russia poteva figurare come quello del "fratello maggiore", della guida verso
un mondo nuovo, seppure un po' – come dire – manesco e autoritario.
Lo
fece capire lo stesso Stalin col suo brindisi al banchetto per la vittoria:
«Alla salute del popolo russo […] che ha meritato in questa guerra il generale riconoscimento come forza dirigente dell'Unione Sovietica fra tutti i popoli del nostro paese».
E
altrettanto chiaramente egli lo disse a
Milovan Đilas nell'aprile del 1945:
«Se gli Slavi rimarranno uniti e solidali, nessuno in futuro potrà più muovere un dito».
Nell'ambito
di questa progettualità la Chiesa russa trovava un ruolo naturale e non
sostituibile: essere un punto di riferimento (leale verso il regime sovietico)
per le Chiese ortodosse slave, e fattore di unità spirituale. E non solo. Il
Patriarcato di Mosca avrebbe operato presso le Chiese-sorelle nel senso di far
loro assumere un atteggiamento o favorevole o non-ostile ai governi
filosovietici da impiantare nei paesi conquistati dall'Armata Rossa.
L'orientamento di Stalin verso un blocco filosovietico in buona parte ortodosso
era tutto sommato in linea con la concezione geopolitica del Patriarcato di
Mosca.
All'inizio
della Seconda guerra mondiale l’espansione staliniana a Occidente ebbe il
palese obiettivo di rioccupare i territori zaristi perduti con la Grande
Guerra. La sconfitta hitleriana, invece, apriva la via al panslavismo. A quel punto la rinascita della Chiesa russa era
strumentalmente necessaria. Quindi, con
progressione via via accelerata a partire dall'aggressione nazista, quella
stessa Chiesa russa che sul piano istituzionale o organizzativo era stata
sostanzialmente smantellata (vita catacombale a parte) e il cui unico organismo
asfitticamente funzionante era un Patriarcato vacante, dopo la svolta del '43,
oltre ad assumere formalmente un ruolo nella vita interna dell'Urss, diventava
pedina fondamentale per il progetto imperiale staliniano e capofila di un
blocco religioso da contrapporre a quello dell'Occidente. Ai primi di aprile
del 1945, in
una riunione chiesta dal patriarca Aleksij con Stalin e Molotov si discusse
essenzialmente della sinergia Chiesa/Stato per dare maggior forza alla
posizione internazionale dell'Urss.
Naturalmente
ciò non significava che tutto sarebbe stato rose e fiori, anche perché il
boccone confezionato da Stalin sarebbe stato malamente digerito dall'apparato
del Pcus – peraltro da lui non coinvolto né preparato in precedenza – mentre il
controllo statale sugli apparati ecclesiastici aveva solo cambiato modalità e
orientamenti. Ma la Chiesa bene o male era istituzionalmente "rinata" nell'Urss
e riacquistava un ruolo internazionale di rilievo.
La comunanza di nemici fra
Stalin e il Patriarcato
Comunque
il Patriarcato di Mosca e Stalin dei nemici in comune li avevano eccome, e
contro di essi obiettivamente cozzava la prospettiva dell'unità degli Slavi
(politica e religiosa). In buona sostanza, per svolgere il ruolo di contribuire
al rafforzamento del blocco orientale che Stalin voleva costituire, la Chiesa
russa doveva tornare a essere polo di riferimento del Cristianesimo ortodosso,
e questo voleva dire contrapporsi – in ambito confessionale – agli stessi
nemici di Stalin: Cattolicesimo (latino e di rito bizantino); Chiese
protestanti e la stessa Ortodossia di lingua greca.
Sul
Cattolicesimo non c'è molto da illustrare a lettori italiani. Politicamente
pericoloso per Stalin, sul piano religioso era tale anche per il Patriarcato di
Mosca. Citiamo solo la sintesi fatta da qualcuno che aveva capito tutto,
Georgij G. Karpov, presidente del Consiglio per gli affari della Chiesa
ortodossa russa (l’organismo governativo di raccordo col Patriarcato), che nel
marzo del 1945, in
un memorandum inviato a Stalin, Molotov e Berija, sottolineando il ruolo
affidato dal Vaticano all'Uniatismo (le Chiese cattoliche di rito bizantino)
scrisse:
«La Chiesa cattolica, nella sua aspirazione al dominio mondiale, conduce una lotta insistente e sistematica per l'assorbimento dell'Ortodossia nel Cattolicesimo. In questa lotta un ruolo notorio è svolto dall'Uniatismo, attraverso il quale la Chiesa cattolica è riuscita a staccare dall'Ortodossia una parte della popolazione delle regioni occidentali dell'Ucraina. La Chiesa cattolica considera l'Uniatismo come un gradino di passaggio alla piena cattolicizzazione della popolazione dei distretti occidentali, al fine di separarla dalla Russia».
Dal
canto loro le altre Chiese ortodosse slave erano pienamente d'accordo (per
motivi analoghi) alla formazione di un fronte anti-Vaticano. L’alleanza tra il
Patriarcato e Stalin su questo versante funzionò alla perfezione, tanto che
nell'agosto del 1949 la Chiesa greco-cattolica non esisteva più entro i confini
dell'Urss, assorbita da quella russa. Per Stalin un alleato in meno dei
nazionalismi locali non-russi.
Più
complicata la questione dei rapporti conflittuali con l'Ortodossia greca. Anche
qui c'era un interesse concreto di Stalin, a motivo della posizione
antisovietica dominante in queste Chiese; per quanto riguarda il Patriarcato, l'antitesi aveva motivazioni che i decenni trascorsi hanno solo formalmente
attenuato per il momento: si tratta della ben maggiore importanza assunta nel
corso dei secoli dalla Chiesa russa rispetto a quella di Costantinopoli,
rimasta senza riscontro nella gerarchia della Chiese ortodosse, che si basa sui
deliberati dei primi Concili ecumenici. Il primato d'onore è rimasto al
Patriarcato di Costantinopoli, per quanto ormai – almeno dagli anni '20 – sia
privo di basi attuali, trattandosi di una Chiesa sotto la cui giurisdizione
rientrano per lo più comunità della cosiddetta "diaspora ortodossa", e in
Anatolia e Tracia essa sia rimasta pressoché azzerata dall'esodo forzato delle
popolazioni cristiane greche.
Uno statu quo rimasto alquanto precario, ma …
La
nuova situazione determinata da Stalin rimaneva oggettivamente precaria, non
potendosi escludere un brusco mutamento di rotta. Il garante era e restava
proprio Stalin, nei limiti in cui poteva toccare con mano i benefici per lo
Stato derivanti dalla sua scelta, all'estero come all'interno dell'Urss e del
suo nuovo impero. La rinascita del Patriarcato – sia pure dotato di diritti
condizionati e limitati – faceva sì che i sovietici di religione ortodossa
avessero sentimenti più positivi verso la persona di Stalin, quand'anche non
necessariamente verso il regime. Le gerarchie ortodosse dei "paesi satelliti" si
compattavano attorno al Patriarcato moscovita e cercavano buoni rapporti di
convivenza con i loro regimi nazionali. Nelle altre Chiese ortodosse (a parte
quelle greche) l'anti-sovietismo si riduceva di gran lunga, soprattutto in
quelle di lingua araba. In ambito internazionale la Chiesa russa era attiva
propagandista della politica estera sovietica.
Tuttavia
esisteva un "però" di politica interna: l'essere la svolta del '43 un boccone
amarissimo per il Partito, ragion per cui restava un'incognita su cosa sarebbe potuto
accadere dopo la morte di Stalin. Ma anche prima di questo evento, restava
l'incognita delle possibili reazioni di Stalin all'evidente rinvigorimento
dell'Ortodossia in Urss. Una realtà dovuta anche al fatto che l’orientamento
suo e dei collaboratori che gestivano la svolta (Molotov e Karpov) consisteva
nel disporre della Chiesa come strumento politico, e quindi nel farle assumere
a questo fine la sostanza adeguata, pur evitando che tornasse ad essere la
potenza che era stata prima del '17. Si deve dire che la gerarchia ortodossa
seppe mantenere il giusto basso profilo con molta abilità e anche
dignitosamente, riuscendo a giocare – contemporaneamente – il gioco di Stalin e
quello proprio.
La
propaganda veicolata dai media occidentali ha abbondantemente tacciato di servilismo
la Chiesa russa, ma in realtà a cogliere esattamente quanto stava accadendo fu
l'Ambasciatore d'Italia Manlio Brusio, che in un rapporto del 1947 osservò:
«Si è detto […] che il Patriarcato si è trasformato in un semplice e volgare "instrumentum regni". A dire il vero la cosa mi sembra assai più complessa; le esaltazioni di Stalin […] non sono sufficienti a definire la situazione dei rapporti fra Stato e Chiesa, tanto più che in Russia, al di fuori di ogni opinione politica e filosofica, l’esaltazione di Stalin dopo la vittoria sull'invasore esprime un sentimento che ha profonde radici nell'animo di tutti i cittadini».
La
politica ecclesiastica sovietica naturalmente non poteva fermarsi con la svolta
del '43, il cui equilibrio era strutturato più sullo Stato che sul Partito. Per
quest'ultimo era fondamentale il lavoro ideologico sulla e nella società, e
l'ateizzazione di massa restava obiettivo fondamentale, insieme al considerare
la religione fenomeno destinato a estinguersi. La politica ecclesiastica entrò
quindi a far parte delle lotte di potere fra i collaboratori di Stalin per
meglio posizionarsi in previsione della sua morte. Lotte su cui Stalin vigilava
con attenzione.
Tra
gli esecutori della svolta e gli oppositori esisteva una differenza radicale
riguardo alla considerazione della realtà interna del paese. Mentre i primi
sempre di più si rendevano conto delle complicazioni derivanti dall'essere la
religione un fenomeno radicato e di massa, gli altri restavano fermi al dogma
ufficiale che ne faceva un residuo della Russia prerivoluzionaria da eliminare
quanto prima. Il punto di equilibrio era Stalin, che doveva gestire le
contraddizioni intrinseche al suo accordo con la Chiesa. Dal canto suo Stalin
aveva una sfera di responsabilità ben più ampia di quelle dei gerarchi del
Partito, perché inerente a una sfera che inglobava Stato e Partito: all'Urss
nella sua globalità e nella fase specifica del mutato rapporto con gli ex
alleati occidentali.
Le
principali preoccupazioni di Stalin riguardavano la politica internazionale, il
riarmo, l'industrializzazione, il rafforzamento del blocco orientale (ampliato
dal colpo di mano a Praga). Queste esigenze non erano compatibili con una
ripresa in grande stile dell'attività antireligiosa come si sarebbe voluto nel
Partito. Ma Stalin nemmeno poteva permettere l'allargamento degli spazi
attribuiti alla Chiesa, dal momento che non poteva prescindere del tutto dalle
preoccupazioni del partito.
Tuttavia
restava il fatto che proprio lui aveva posto in essere un circolo vizioso,
difficile da spezzare. Mano a mano che si concretizzava l'interesse statale per
il contributo della Chiesa russa alla stabilità interna del Paese e del suo
blocco satellitare – nonché per i vantaggi internazionali derivanti dalla rete
di rapporti interecclesiali attivata dal Patriarcato – parallelamente e
inevitabilmente quest'ultimo si espandeva e acquisiva prestigio in patria e
all'estero, sì da potersi contrapporre al potere sovietico quale portatore di
una visione del mondo alternativa al marxismo-leninismo e con seguito di massa.
Con la conseguenza che – non potendo il potere sovietico tornare alla prassi
persecutoria degli anni '20 e '30 per la mutata situazione globale (anche
internazionale) – sarebbero poi fallite le forti "strette di vite" decise ai
tempi di Chruščëv (ottobre 1958 e XXII Congresso) e durate più o meno fino
all'avvento di Gorbačëv.
A
questo punto è ineludibile una considerazione di fondo, in genere poco
considerata, ma che purtroppo resta senza risposta: prima della cosiddetta
«Grande guerra patriottica» la Chiesa russa era stata privata pressoché di
tutti gli spazi fisici necessari a quella che nel mondo ortodosso è considerata
la sfera vitale della Chiesa, l'azione liturgica. Diverso è infatti il suo
ruolo rispetto a Cattolicesimo e Protestantesimo: senza la celebrazione
liturgica, il suo pregare collettivo e i suoi significati metafisici, la vita
della Chiesa è considerata monca, tant'è che essa trae proprio da ciò il suo
nome (Ortodossia = giusta; dòxa = giusta
lode liturgica).
Ora,
nel '43 Stalin le aveva restituito – fra l'altro – proprio quell'essenziale
spazio fisico da cui essa traeva vigore attrattivo ed espansivo in rapporto
alla società. Avendo studiato in un seminario ortodosso (sia pure
ultraperiferico), è improbabile che Stalin non sapesse a cosa avrebbe portato il
moltiplicarsi visibile di una plurimillenaria Liturgia, la cui forza di
attrazione spirituale si basa sulla "teologia della bellezza". E lo stesso può
osservarsi, come corollario, in rapporto alla riapertura di monasteri (nella
seconda metà degli anni '30 non ne era rimasto aperto nemmeno uno in territorio
sovietico).
Si
deve forse parlare di uno Stalin "apprendista stregone"? Non lo sapremo mai.
Comunque,
grazie al suo circolo vizioso, manovrando con estrema abilità, la Chiesa russa
ha completamente ribaltato la situazione in cui era stata confinata prima del
1943. E in più, con la disintegrazione del progetto bolscevico, si è
riaffermata quale elemento centrale dell'identità russa, con una valenza
intrinseca che forse nemmeno la Chiesa cattolica ha in Italia. Il che non è
poco.
Gli
storici amano schematizzare il succedersi dei periodi della storia umana
scegliendo eventi-simbolo a cui attribuire il ruolo di separatori di fasi.
Volendo, anche nel caso del periodo iniziato con la svolta del '43 sarebbe
possibile individuare un evento simbolico di chiusura, sul quale non è detto
che tutti concordino: il 19 agosto 1991. Quella mattina, mentre nelle strade di
Mosca sferragliavano i carri armati dei golpisti – dilettantescamente
intenzionati a salvare un'Urss già defunta – all'interno delle mura del
Cremlino, nella cattedrale della Dormizione, il Patriarca Aleksij II celebrava
la Liturgia della festa della Trasfigurazione.
Evidentemente
stava cominciando un nuovo capitolo della storia russa.
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