Sono ormai passati
quasi due anni da quando il simpatico Bersani disse: «Non vorrei che dopo
Berlusconi venisse fuori Chávez». Sia ringraziato il cielo (o la BCE?), di un
Chávez italiano neanche l’ombra! In compenso è arrivato Mario Monti, eletto da
nessuno e sostenuto da un parlamento di corrotti e nominati, il quale si è
assunto il compito di distruggere lo stato sociale italiano, frutto di un
secolo di conquiste del movimento operaio, ottenute con lotte e scontri
durissimi (come l’autunno caldo del ’69 che portò all’introduzione dello
Statuto dei Lavoratori nel ’70). È quello che chiede l'Europa capitalista,
desiderosa di rassicurare le banche e la grande finanza, capaci ormai di controllare
le politiche dei governi nazionali. Così, mentre in Italia il ministro Fornero
vara una riforma che distrugge i diritti dei lavoratori, dalle pensioni
all’articolo 18, dall’altra parte del mondo, in Venezuela, il 1° maggio entrerà
in vigore la nuova riforma del lavoro che si prevede essere tra le più avanzate
al mondo.
In realtà molti
aspetti della nuova legge non sono stati ancora resi pubblici, esistono
moltissime proposte elaborate da partiti, sindacati e movimenti sociali, che
sono state sollecitate dal Governo stesso e che al momento sono in fase di
studio, ma alla fine sarà Chávez a scegliere quali proposte accettare e quali rifiutare
(il che è sicuramente un limite della tanto decantata democracia protagonica
y participativa). Ad ogni modo la nuova ley andrà ad alzare il
salario minimo del 32,25%, aumenterà diritti e tutele dei lavoratori e renderà
obbligatorie forme di partecipazione dei lavoratori nelle gestione delle
imprese, sia private che pubbliche.
La riforma è in
linea con le politiche di welfare, aumento della spesa pubblica e interventismo
nell’economia che caratterizzano il governo Chávez. Esattamente l’opposto di
quello che sta avvenendo in Italia e più in generale un po’ in tutta Europa,
dove si ascoltano le ricette del Fondo Monetario Internazionale che propone la
classica cura neoliberale fatta di privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica,
esattamente la stessa che è stata “consigliata” all’America Latina negli anni
settanta e che ha fatto sprofondare il subcontinente nella povertà e nello
sfruttamento. Ma che ha anche costretto i movimenti sociali a riorganizzarsi e
a radicalizzare lo scontro, favorendo così in anni più recenti la vittoria di
coalizioni di sinistra nella maggior parte dei paesi latinoamericani (insomma,
se in Europa si dovesse ripetere quello che è successo in Sud America, fra una
ventina d’anni l’incubo di Bersani di vedere un Chávez in Europa potrebbe anche
diventare realtà...).
La Repubblica
Bolivariana del Venezuela, il cui PIL reale ha ricominciato a crescere già nel
2011 (4.2%), con un tasso di povertà in costante diminuzione dal 1999, anno successivo
all’elezione di Hugo Chávez, rappresenta l’espressione più radicale di questo
processo di risveglio sociale e di ritrovata mobilitazione popolare che ha
travolto nel giro di pochi anni gran parte del subcontinente, facendo
dell’America a sud del Texas, per citare il linguista Noam Chomsky, il “luogo
più progressista al mondo”.
La rinata visibilità
internazionale, la ritrovata passione politica della popolazione, i tentativi
di integrazione latinoamericana e le numerose e importanti misure prese dal
governo per ridurre povertà e diseguaglianza - finanziate grazie ai proventi
derivanti dalla nazionalizzazione del petrolio – bastano a documentare come il
Venezuela di oggi sia profondamente diverso da quello dei primi anni novanta.
Ma sono le riforme
economiche l’aspetto forse più interessante della revolución bolivariana (da
Simon Bolivar, eroe dell’indipendenza sudamericana). Chávez in questi anni ha rotto
con il passato neoliberale: ha realizzato una vasta riforma agraria che ha
intaccato i grandi latifondi, incentivato la nascita di cooperative,
nazionalizzato varie industrie e compagnie, una parte del sistema bancario e
finanziario e alcuni settori in passato appartenenti allo stato, come la
telefonia, l’elettricità e l’acqua, quasi sempre con ampi indennizzi. Come
spiega Erik Toussaint, il ricorso all’indennizzo serve ad evitare condanne per
il mancato rispetto dei trattati bilaterali sugli investimenti sottoscritti dal
Venezuela. Il diritto internazionale, infatti, consente agli Stati di procedere
a nazionalizzazioni se indennizzano correttamente i proprietari.
Si stanno inoltre
sperimentando forme embrionali di controllo operaio delle industrie
nazionalizzate in seguito alla pressione di diverse organizzazioni operaie. Ci
sono città del Venezuela infatti dove il movimento operaio va assumendo una
coscienza di classe sempre più marcata, scontrandosi a volte con la stessa
burocrazia governativa, chiamata con disprezzo boliborghesia (borghesia
bolivariana). È infatti importante ricordare che il Venezuela resta un paese
con alti tassi di corruzione e le persone che sfruttano la rivoluzione
bolivariana per arricchirsi o accrescere il loro potere non mancano.
Difficile dire se queste
nazionalizzazioni vanno realmente verso un progetto socialista di economia
pianificata, come Chávez sostiene. Sicuramente non c’è stata quella
dissoluzione dei meccanismi e degli apparati tipici dello stato borghese di cui
più volte ha parlato lo stesso Chávez e purtroppo il Venezuela continua ad
avere una politica estera “classica” in cui ragion di stato (“spaventoso cancro
che tutto divora” la definisce il marxista argentino Néstor Kohan) e meri
interessi geopolitici spesso prevalgono sui principi.
Queste pesanti
contraddizioni esprimono, in ultima analisi, il fragile compromesso fra
retorica e pragmatismo presente fin dall’inizio della rivoluzione e sono forse
un retaggio del caudillismo e del populismo tipici della storia
latinoamericana. Ma la presenza di queste gravi contraddizioni non ha portato,
almeno fino ad ora, ad un arresto o ad una stabilizzazione del processo
bolivariano; in parte, ma questa è un’opinione tutta mia, anche grazie alla
sostanziale ignoranza culturale di Chávez che, soprattutto nella prima fase, ha
impedito una fossilizzazione dogmatica della rivoluzione dando così spazio
all’interno del movimento a voci diverse e eterogenee.
In sintesi, si
potrebbe dire che la rivoluzione bolivariana è una rivoluzione sociale a metà
che rischia di rimanere tale e, come disse Louis de Saint-Just, “coloro che
fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba”. E’
compito dei rivoluzionari di tutto il mondo far sì che questo non accada e che
la rivoluzione si completi, con Chávez o senza Chávez, che tra l’altro non se
la passa molto bene di salute.
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