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martedì 24 aprile 2012

LA RIFORMA DEL LAVORO ITALIANA E LA LEY DEL TRABAJO VENEZUELANA, di Jacopo Custodi

Questo articolo è stato scritto per il giornale di Pavia Kronstadt (http://beta.kronstadt.it). Per approfondire il processo di formazione del chavismo, si rinvia al libro di R. Massari (Hugo Chávez tra Bolívar e Porto Alegre) pubblicato nel 2005 nella collana Controcorrente. [E.V.]


Sono ormai passati quasi due anni da quando il simpatico Bersani disse: «Non vorrei che dopo Berlusconi venisse fuori Chávez». Sia ringraziato il cielo (o la BCE?), di un Chávez italiano neanche l’ombra! In compenso è arrivato Mario Monti, eletto da nessuno e sostenuto da un parlamento di corrotti e nominati, il quale si è assunto il compito di distruggere lo stato sociale italiano, frutto di un secolo di conquiste del movimento operaio, ottenute con lotte e scontri durissimi (come l’autunno caldo del ’69 che portò all’introduzione dello Statuto dei Lavoratori nel ’70). È quello che chiede l'Europa capitalista, desiderosa di rassicurare le banche e la grande finanza, capaci ormai di controllare le politiche dei governi nazionali. Così, mentre in Italia il ministro Fornero vara una riforma che distrugge i diritti dei lavoratori, dalle pensioni all’articolo 18, dall’altra parte del mondo, in Venezuela, il 1° maggio entrerà in vigore la nuova riforma del lavoro che si prevede essere tra le più avanzate al mondo.
In realtà molti aspetti della nuova legge non sono stati ancora resi pubblici, esistono moltissime proposte elaborate da partiti, sindacati e movimenti sociali, che sono state sollecitate dal Governo stesso e che al momento sono in fase di studio, ma alla fine sarà Chávez a scegliere quali proposte accettare e quali rifiutare (il che è sicuramente un limite della tanto decantata democracia protagonica y participativa). Ad ogni modo la nuova ley andrà ad alzare il salario minimo del 32,25%, aumenterà diritti e tutele dei lavoratori e renderà obbligatorie forme di partecipazione dei lavoratori nelle gestione delle imprese, sia private che pubbliche.
La riforma è in linea con le politiche di welfare, aumento della spesa pubblica e interventismo nell’economia che caratterizzano il governo Chávez. Esattamente l’opposto di quello che sta avvenendo in Italia e più in generale un po’ in tutta Europa, dove si ascoltano le ricette del Fondo Monetario Internazionale che propone la classica cura neoliberale fatta di privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica, esattamente la stessa che è stata “consigliata” all’America Latina negli anni settanta e che ha fatto sprofondare il subcontinente nella povertà e nello sfruttamento. Ma che ha anche costretto i movimenti sociali a riorganizzarsi e a radicalizzare lo scontro, favorendo così in anni più recenti la vittoria di coalizioni di sinistra nella maggior parte dei paesi latinoamericani (insomma, se in Europa si dovesse ripetere quello che è successo in Sud America, fra una ventina d’anni l’incubo di Bersani di vedere un Chávez in Europa potrebbe anche diventare realtà...).
La Repubblica Bolivariana del Venezuela, il cui PIL reale ha ricominciato a crescere già nel 2011 (4.2%), con un tasso di povertà in costante diminuzione dal 1999, anno successivo all’elezione di Hugo Chávez, rappresenta l’espressione più radicale di questo processo di risveglio sociale e di ritrovata mobilitazione popolare che ha travolto nel giro di pochi anni gran parte del subcontinente, facendo dell’America a sud del Texas, per citare il linguista Noam Chomsky, il “luogo più progressista al mondo”.
La rinata visibilità internazionale, la ritrovata passione politica della popolazione, i tentativi di integrazione latinoamericana e le numerose e importanti misure prese dal governo per ridurre povertà e diseguaglianza - finanziate grazie ai proventi derivanti dalla nazionalizzazione del petrolio – bastano a documentare come il Venezuela di oggi sia profondamente diverso da quello dei primi anni novanta.
Ma sono le riforme economiche l’aspetto forse più interessante della revolución bolivariana (da Simon Bolivar, eroe dell’indipendenza sudamericana). Chávez in questi anni ha rotto con il passato neoliberale: ha realizzato una vasta riforma agraria che ha intaccato i grandi latifondi, incentivato la nascita di cooperative, nazionalizzato varie industrie e compagnie, una parte del sistema bancario e finanziario e alcuni settori in passato appartenenti allo stato, come la telefonia, l’elettricità e l’acqua, quasi sempre con ampi indennizzi. Come spiega Erik Toussaint, il ricorso all’indennizzo serve ad evitare condanne per il mancato rispetto dei trattati bilaterali sugli investimenti sottoscritti dal Venezuela. Il diritto internazionale, infatti, consente agli Stati di procedere a nazionalizzazioni se indennizzano correttamente i proprietari.
Si stanno inoltre sperimentando forme embrionali di controllo operaio delle industrie nazionalizzate in seguito alla pressione di diverse organizzazioni operaie. Ci sono città del Venezuela infatti dove il movimento operaio va assumendo una coscienza di classe sempre più marcata, scontrandosi a volte con la stessa burocrazia governativa, chiamata con disprezzo boliborghesia (borghesia bolivariana). È infatti importante ricordare che il Venezuela resta un paese con alti tassi di corruzione e le persone che sfruttano la rivoluzione bolivariana per arricchirsi o accrescere il loro potere non mancano.
Difficile dire se queste nazionalizzazioni vanno realmente verso un progetto socialista di economia pianificata, come Chávez sostiene. Sicuramente non c’è stata quella dissoluzione dei meccanismi e degli apparati tipici dello stato borghese di cui più volte ha parlato lo stesso Chávez e purtroppo il Venezuela continua ad avere una politica estera “classica” in cui ragion di stato (“spaventoso cancro che tutto divora” la definisce il marxista argentino Néstor Kohan) e meri interessi geopolitici spesso prevalgono sui principi.
Queste pesanti contraddizioni esprimono, in ultima analisi, il fragile compromesso fra retorica e pragmatismo presente fin dall’inizio della rivoluzione e sono forse un retaggio del caudillismo e del populismo tipici della storia latinoamericana. Ma la presenza di queste gravi contraddizioni non ha portato, almeno fino ad ora, ad un arresto o ad una stabilizzazione del processo bolivariano; in parte, ma questa è un’opinione tutta mia, anche grazie alla sostanziale ignoranza culturale di Chávez che, soprattutto nella prima fase, ha impedito una fossilizzazione dogmatica della rivoluzione dando così spazio all’interno del movimento a voci diverse e eterogenee.
In sintesi, si potrebbe dire che la rivoluzione bolivariana è una rivoluzione sociale a metà che rischia di rimanere tale e, come disse Louis de Saint-Just, “coloro che fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba”. E’ compito dei rivoluzionari di tutto il mondo far sì che questo non accada e che la rivoluzione si completi, con Chávez o senza Chávez, che tra l’altro non se la passa molto bene di salute.

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