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giovedì 12 aprile 2012

CRISTIANESIMI VI, di Pier Francesco Zarcone

IL CONTRASTO TRA CHIESA CATTOLICA E ORTODOSSA

La questione del contrasto fra Chiesa di Roma e Chiesa ortodossa è tutt’altro che conosciuta, e al riguardo i mass-media italiani ancora una volta sono impegnati più in un’opera di banalizzazione che d’informazione. Rassicuriamo subito: non parleremo delle differenze teologiche fra queste Chiese, ma di vicende storiche. Molte di esse sono antiche, altre sono contemporanee. L’antichità nei Balcani, nel Levante, nell’Est, nella Mezzaluna Fertile ecc. non è un problema: può essere un “ieri” se ancora perdurano gli effetti di accadimenti in sé lontani nel tempo. Ma c’è un accadimento-base che non è mai cessato e che, per quanto mimetizzato sotto pelli d’agnello, ancora lo si vede bene: è la volontà di comando del Vescovo di Roma sul mondo cristiano (primato di giurisdizione), e soprattutto su una Chiesa che per certi aspetti il Vaticano ritiene più vicina delle Chiese nate dalla Riforma.

La frattura fra le due Chiese
Dopo le traumatiche separazioni ecclesiali e gli anatemi causati dalle controversie cristologiche nell’VIII secolo, il quadro di quel che restava della vecchia Chiesa unita non era dei migliori: per le mutilazioni subìte e per il fatto che i Patriarcati orientali e il Patriarcato di Roma - in linea di massima alleati durante i conflitti teologici - finiti gli avversari interni si trovarono a fare i conti con una disunione latente, in parte nascosta dalle crisi precedenti e che veniva progressivamente alla luce. Emergevano tutte le divaricazioni spirituali, teologiche, ecclesiologiche e organizzative sviluppatesi nel frattempo, determinanti per la successiva scissione tra la Chiesa romana e Chiesa ortodossa bizantina.

Naturalmente esplicarono un ruolo di rilevo anche elementi di natura politica, ma la loro importanza viene esagerata dalla pubblicistica cattolica (ma anche da una certa stampa laica), che a tutt’oggi non vuole ammettere che le cause non contingenti del conflitto erano (e sono) di natura spirituale, teologica ed ecclesiologica, e minimizza quel che divide. Tant’è che - pur essendo mutato da vari secoli il quadro politico - il contrasto religioso rimane, e rimane la separazione. Detto in sintesi per evitare dolori di testa ai lettori, i Cattolici non condividono fondamentali posizioni teologiche degli Ortodossi, e viceversa. Due mondi diversi, quindi: uno metafisicamente orientale, l’altro di matrice europea occidentale. Per una ipotetica riunificazione ciascuna delle parti dovrebbe rimettere in discussione componenti essenziali del proprio patrimonio culturale.

Lo scenario storico
Dopo che in maggioranza le componenti egiziane, siriane, armene ed etiopi ebbero abbandonato la grande Chiesa unita, quest’ultima si trovò ad essere principalmente di formazione greca e latina. La sua parte orientale era strutturata in quattro patriarcati - Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme - che con quello di Roma formavano la Pentarchia stabilita dal canone 28 del Concilio di Calcedonia.
In Occidente la situazione si era sviluppata in modo del tutto peculiare a motivo degli accadimenti politici ivi verificatisi. L’Impero romano fin dal III secolo era articolato in due parti, Impero d’Occidente e Impero d’Oriente, e nel 476 Odoacre (434-493), capo della popolazione germanica degli Eruli stanziatasi in Italia, aveva deposto l’ultimo imperatore occidentale, Romolo detto “Augustolo” (459-476). Odoacre, però, formalmente governava sotto l’autorità nominale dell’Imperatore d’Oriente insediato a Costantinopoli. Da un punto di vista strettamente giuridico, quindi, l’Impero si trovava teoricamente riunificato sotto lo scettro bizantino. La realtà era ben diversa, in quanto sull’Italia, sulle Gallie, sull’Iberia e sul Nordafrica (maghrib) a comandare davvero erano i barbari.
In questa situazione, la Chiesa d’Occidente - sempre più egemonizzata dal Patriarca di Roma - aveva finito col rappresentare per le popolazioni locali (le meno cristianizzate dell’Impero, si badi) l’unico punto di riferimento nel marasma provocato dai cosiddetti “regni romano-barbarici”. Si trattava di un punto di riferimento sempre più autonomo - sotto ogni aspetto - da Costantinopoli e dai Patriarcati d’oriente, tanto che il Patriarca romano era giunto ad arrogarsi un proprio potere temporale su Roma sulla base di quel documento falso, costruito nelle sue stesse cancellerie (evidentemente non per mera iniziativa di uno zelante impiegato), noto come Donazione di Costantino a papa Silvestro (dal 314 al 335). Un potere de facto, cioè, fondato sul nulla storico e giuridico. Tuttavia su tali basi i Patriarchi di Roma divennero i veri capi della Chiesa occidentale.
La progressiva trasformazione del ruolo di questo Patriarcato non ebbe analogie, e nemmeno fu accettata, nell’Oriente cristiano. Anche se spesso vescovi orientali si rivolsero a Roma con richiesta di interventi arbitrali nelle loro controversie, ai cristiani dei territori bizantini, e tanto meno a quelli dei territori in mano ai musulmani, non passò mai per la testa che il Patriarca di Roma fosse il capo di tutta la Chiesa. Per motivi storico-politici legati a ciò che aveva significato Roma in passato, quel Patriarca aveva solo un primato d’onore, peraltro condiviso col suo “collega” di Costantinopoli. A parte temporanee interruzioni di rapporti nel corso delle dispute cristologiche, non ci furono mai veri e propri scismi fra questi due mondi. I germi effettivi della crisi tra Roma e Costantinopoli si formarono soprattutto nel V secolo, seppure all’inizio in modo latente; quando cioè a Roma cominciò a manifestarsi l’ideologia per cui il Vescovo di Roma sarebbe stato il successore di Pietro, assunto per ciò che non era mai stato: cioè Vescovo di Roma. Gli Apostoli, infatti, non erano vescovi locali.
Negli ambienti romani l’ideologia del primato ebbe ulteriori arricchimenti, nel senso che non solo Pietro sarebbe stato il primo papa di Roma, ma addirittura il capo dei dodici Apostoli! Un falso storico che solo nell’Occidente dell’epoca - immerso nelle tenebre della barbarie e dell’ignoranza - poteva attecchire (ma il problema è che attecchisce ancora oggi…). Non fu un caso, quindi, che a Calcedonia i rappresentanti del Patriarca di Roma rifiutassero di accettare il canone 28, poiché l’affermazione della Pentarchia patriarcale si scontrava con lo sviluppo della concezione teorico/pratica del primato romano, inteso non come struttura onorifica e di mero diritto ecclesiastico, bensì come realtà avente al suo interno un principio gerarchico, e di diritto divino. È di tutta evidenza come ciò comportasse un contrasto anche ecclesiologico, poiché la tradizione della vecchia Chiesa indivisa era fondataa sull’uguaglianza delle funzioni sacramentali dei vescovi.
Il fatto poi che nel secolo VI i patriarchi di Costantinopoli assumessero il titolo di “Patriarchi ecumenici” (portato a tutt’oggi) agli occhi dei papi non faceva che sottolineare il ruolo - per essi negativo - di Costantinopoli come contraltare di Roma in Oriente. Tuttavia, nonostante questo formarsi di elementi antitetici l’unità bene o male (forse piú male che bene) resse fino al IX secolo. Il contrasto vero e proprio esplose per cause teologiche - create da ragioni politiche - non direttamente connesse con la questione del primato romano, e venne favorito dalle mutate situazioni di forza tra l’Occidente europeo e Costantinopoli. Infatti, l’indebolirsi del potere politico e militare bizantino in Italia, le difficoltà di Costantinopoli alle prese contemporanenamente con le aggressioni degli arabi e dei bulgari, i torbidi e le lotte di potere entro i confini dell’Impero aggravate dalla crisi iconoclasta, fecero sì che i Patriarchi di Roma cercassero appoggio contro i longobardi - e potenzialmente contro Costantinopoli - nel Regno dei franchi. E quando questi barbari d’oltralpe travolsero i longobardi, si ebbero tutte le condizioni per un duraturo asse politico/religioso fra loro e i papi. Parallelamente, ad aggravare la divaricazione fra i due blocchi di Chiese fu la progressiva ma inarrestabile grecizzazione dell’Impero bizantino. Si trattava ormai di due mondi divisi da lingua, cultura, tradizione religiosa e concezione della Chiesa. Il quadro si aggravò per la decisione di Costantinopoli (durante la lotta all’iconoclastia) di sottrarre alla giurisdizione di Roma le Chiese delle zone ancora greche dell’Italia - Sicilia, Calabria e parte meridonale della Penisola - e dell’Illiria, la cui giurisdizione aveva acquisito durante il periodo iconoclasta.
Si era così creata una miscela esplosiva che ebbe un detonatore negli interessi politici di Carlo Magno (747-814) il quale dette inizio alla controversia sul Filioque nel Credo. Per una migliore comprensione di quanto avvenne, bisogna fare un passo indietro.

L’alterazione latina del Credo
Nella Chiesa delle origini si era consolidata l’usanza di far recitare ai neofiti una confessione di fede sulla Trinità-Unità di Dio e sull’Incarnazione. Quasi ogni Chiesa locale aveva un proprio Credo, finché il secondo Concilio ecumenico non definì il Credo di tutta la Chiesa, cioè il Simbolo detto niceno-costantinopolitano. Il terzo Concilio ecumenico ne proibì ogni aggiunta e modifica, decretando che la comunione tra le Chiese dipendeva dall’accettazione del Simbolo nella sua interezza e integrità. Nessun problema fino al VI secolo, quando alcuni Concili locali iberici - cioè di una Chiesa che non brillava affatto per cultura teologica - interpolarono nel Credo il termine Filioque a proposito della collocazione dello Spirito Santo, che in tal modo veniva a procedere dal Padre e dal Figlio. Credendo in questo modo di dare maggiore e più efficace base teorica alla lotta contro l’Arianesimo - ormai problema solo occidentale a motivo della conversione al Crisitianesimo ariano dei popoli barbari stanziatisi in Italia, Gallie e Spagna. Secondo quei vescovi iberici, attribuendo al Figlio un ruolo pari a quello del Padre nella collocazione dello Spirito Santo si disponeva di un’arma in più per contrastare le tesi ariane, senza rendersi conto che in tal modo, oltre a non risolvere nulla, creavano in prospettiva problemi ulteriori. L’aggiunta fu poi recepita nelle Gallie, mentre a Roma il patriarca Adriano I (dal 772 al 795) rifiutò di accettarla; e così fu fino al IX secolo. Non solo: papa Leone III (dal 795 al 816), per porre fine all’abuso, fece addirittura incidere il testo originario del Credo su tavole d’argento, poi affisse in pubblico. Sulle prime la questione non turbò molto le Chiese orientali, forse perché contenuta nei limiti di Chiese locali considerate barbare e ignoranti. Ma entrato in scena Carlo Magno (747-814) il quadro mutò, e il problema del Filioque divenne contemporaneamente un affare di Stato e una fonte di turbamento dei rapporti teologici fra latini e orientali ortodossi.
Agli occhi di molti suoi contemporanei Carlo Magno fu un usurpatore di territori dell’Impero romano, ancora esistente con capitale Costantinopoli, guidato da un Imperatore che sul piano giuridico era diretto discendente degli antichi Cesari, e quindi titolare di diritti che si estendevano automaticamente alla parte occidentale del vecchio Impero, per quanto occupata dai barbari. Di tutto questo Carlo era perfettamente consapevole e infatti inizialmente cercò di instaurare buoni rapporti con Costantinopoli, sperando di ottenere quel riconoscimento che gli era necessario per la legittimità formale. Quando si rese conto dell’inutilità degi sforzi (ne fu esempio il fallimento del suo tentativo di sposare l’imperatrice Irene) dette il via ad una politica di contrapposizione frontale con Costantinopoli, ricorrendo all’arma a quei tempi più efficace: l’accusa di eresia.
Egli fece quindi del Filioque una bandiera di battaglia in quanto, con assoluta faccia tosta, accusò i sovrani bizantini di essersi staccati dalla vera fede per avere eliminato il Filioque dal Credo e per l’uso delle immagini (si vedano i Libri Carolini, inviati da Carlo a Adriano I nel 792). L’iniziativa fu appoggiata da vari vescovi e teologi occidentali, pur se non ancora avallata da Roma. I fautori del Filioque facevano riferimento alla particolare teologia trinitaria di Agostino di Ippona (354-430) e a certe espressioni di alcuni Padri della chiesa isolate dal contesto di appartenenza. Le accuse di Carlo Magno non potevano che suscitare le reazioni della Chiesa orientale, poiché violavano i dettami dei Concili ecumenici. Inoltre agli orientali, ampiamente dotati di teologi ben preparati, non sfuggiva che con quell’aggiunta al Credo - oltre a effettuarsi unilateralmente modifiche al comune Simbolo della fede - si rompeva il delicato equilibrio trinitario realizzato dai Concili, col rischio perdere il senso della Tri-Unità e di ridurne l’efficacia nella vita spirituale dei fedeli (difatti nel Cattolicesimo il ruolo dello Spirito è alquanto fantasmatico).
Questa prima fase della contrapposizione si attenuò, comunque, quando, per interessi politici e sia pure con qualche riserva, l’imperatore di Costantinopoli riconobbe l’impero di Carlo Magno sull’Occidente. Ma la teologia del Filioque continuò ad affermarsi in Occidente, anche perché meglio fondava la pretesa del primato papale quale “vicario di Cristo”. Infatti, la subordinazione metafisica dello Spirito al Figlio eliminava il pericolo del formarsi nella Chiesa latina di realtà carismatiche con pretesa di sfuggire al controllo della gerarchia papale per il fatto di essere animate dallo Spirito divino.
Nel 1014 ci fu la definitiva approvazione di Roma: papa Benedetto VIII (dal 1012 al 1024) recitò il Credo con l’aggiunta del Filioque in occasione dell’incoronazione dell’imperatore Enrico II (973 o 978-1024).
Ma altre cause - oltre al consolidarsi del primato di giurisdizione dei Patriarchi di Roma e al Filioque - si andavano sviluppando in senso dirompente. 

Fozio e Cerulario
Nuovi contrasti si ebbero con Fozio, patriarca di Costantinopoli, e con l’evangelizzazione degli Slavi. Nell’anno 857 Ignazio (797-877), patriarca di Costantinopoli, per intervento dell’Imperatore Michele III (842-867) fu deposto dalla cattedra patriarcale. Oggi la cosa può sembrare scandalosa, ma in quell’epoca sia in Oriente sia in Occidente non si negava all’Imperatore il diritto di supervisione sulle nomine patriarcali. A Ignazio succedette Fozio (820-891), un ex funzionario civile, uomo tra i più colti di quel periodo. Sul piano della forma le cose si svolsero con regolarità, poiché Fozio ascese al Patriarcato solo dopo le dimissioni del predecessore. Tuttavia un gruppo di avversari convinse Ignazio a ritirare le dimissioni. A questo punto fu chiesto l’arbitrato di Roma, che fino ad allora non era mai intervenuta in questioni disciplinari interne ai Patriarcati.  
Roma rifiutò di riconoscere l’ascesa di Fozio e inviò legati a Costantinopoli, con una lettera del papa Nicola I (dal 858 al 867) in cui egli rivendicava il suo diritto al controllo sulle attività di tutte le Chiese locali. Nella stessa lettera si faceva capire che Roma avrebbe potuto riconoscere Fozio a condizione che le province ecclesiastiche dell’Italia meridionale, dell’Illiria e della Sicilia fossero restituite alla giurisdizione papale. Nell’851 si tenne a Costantinopoli un Concilio locale che, per quanto presieduto dai legati romani, sentenziò in favore della legittimità della nomina di Fozio. Nicola I, che in Occidente stava sopprimendo vari diritti dei Metropoliti, colse lo spunto del persistere di una piccola opposizione a Fozio per annullare (senza averne il potere per gli Orientali) le decisioni del Sinodo costantinopolitano, intimando a Ignazio e Fozio di presentarsi a Roma. Trattandosi di una procedura non sancita da alcun preesistente Concilio ecumenico, Costantinopoli non rispose neppure alla richiesta. Intanto nei rapporti tra le due maggiori sedi patriarcali si inseriva, in termini conflittuali, la questione della conversione delle popolazioni slave al Cristianesimo.
Rinvigoritasi e rifiorita dopo la fine della crisi iconoclasta, la Chiesa di Costantinopoli si era impegnata in un’intensa attività missionaria, foriera di frizioni con  la Chiesa latina. Va detto per completezza che (come al solito) l’attività - oltre a essere considerata un dovere religioso primario - serviva anche a rendere meno aggressivi i popoli confinanti, conseguendo obiettivi di pace per l’Impero e aumentandone l’influenza politica, culturale, economica e militare. Con le popolazioni slave in procinto di aderire al Cristianesimo, sia Roma sia Costantinopoli si rendevano conto dell’importanza che la conversione fosse opera di missionari dell’una invece che dell’altra Chiesa.
Un ruolo importantissimo lo svolsero i fratelli Cirillo (m. 869) e Metodio (m. 885) di Tessalonica, che tradussero in antico slavo la Bibbia. Essi furono inviati in Moravia, su richiesta del locale principe Ratislavo, da cui Costantinopoli contava - in cambio di aiuto contro i Tedeschi - di essere a sua volta aiutata dai Moravi contro i Bulgari (all’epoca ancora di ceppo turco), che premevano sulle frontiere settentrionali.  
Il successo di Cirillo e Metodio fu grandissimo, e altrettanto dicasi per la gelosia del clero germanico in Moravia, che aveva introdotto la liturgia latina e il Credo con l’interpolazione del Filioque. Questo allarmato clero accusò di eresia i due fratelli. Cirillo e Metodio ricorsero contro questa ridicolaggine a Roma, dove i successori di Nicola I, cioè Adriano II (dal 867 al 872) e Giovanni VIII dal 872 al 882), li accolsero con favore essendo entrambi preoccupati per l’eccessiva autonomia arrogatasi dai vescovi tedeschi. Tuttavia dopo un’invasione ungherese nel 906, la Chiesa slava della Moravia subì i colpi del clero latino, che progressivamente soppresse gli usi slavo-bizantini. Nel 1096 l’ultimo baluardo non latino, il monastero di Sazava in Boemia, venne latinizzato.
Ben più gravi e importanti risvolti ebbe la conversione dei Bulgari. Il sovrano bulgaro Boris (852-889), in un primo tempo in corrispondenza con Roma, nell’864 accettò il battesimo da sacerdoti bizantini e addirittura chiese all’imperatore Michele III di fargli da padrino. Quando però pretese di avere un patriarca per il suo popolo e gli fu opposto un rifiuto, si rivolse di nuovo a Roma, da cui nell’866 vennero inviati due vescovi latini con una lettera di papa Nicola I a Boris nella quale si lanciavano accuse ai Greci e lo si metteva in guardia sul fatto che il Patriarca di Costantinopoli si sarebbe allontanato dalla vera tradizione. Questa slealtà romana scatenò le ire dei Bizantini e Fozio nell’867 convocò a Costantinopoli un Sinodo in cui venne condannato il gesto del Papa romano e si accusarono i missionari latini di vari errori teologici tra cui l’uso del Filioque (peraltro all’epoca non ancora ufficialmente accettato da Roma). Fozio ruppe quindi i rapporti con Roma.
Nello stesso anno morì Nicola II e Fozio fu deposto dal nuovo imperatore Basilio (867-888). Alla cattedra patriarcale di Costantinopoli tornò Ignazio, ma questo non attenuò la polemica antilatina di Fozio; e quando nell’869 il bulgaro Boris cambiò di nuovo idea e cacciò dal suo territorio il clero latino, inserendo definitivamente il suo popolo nell’area bizantina, Ignazio ne accolse entusiasticamente il voltafaccia. Alla morte di Ignazio nell’878 Fozio ridiventò patriarca e ristabilì la pace con Roma. Giovanni VIII (872-882) insieme ai vescovi bizantini condannò l’introduzione del Filioque nel Credo. Pace temoranea, però. La grande e definitiva frattura si avvicinava, e con il patriarca costantinopolitano Michele Cerulario (1000-1059) ci fu la tappa ulteriore. Fino al 1053 i rapporti fra Roma e Costantinopoli erano stati abbastanza normali, ma in quest’arco di tempo a Roma il papato si era trovato in un periodo di decadenza, mentre la sede costantinopolitana aveva conosciuto una fase di fulgore sotto la dinastia macedone (867-1056). Tale era in quel momento la grandezza politica e religiosa di Costantinopoli che non si dette molto peso neppure all’ufficializzazione del Filioque, avvenuta ad opera di Benedetto VIII (dal 1012 al 1024). In realtà durante questo periodo Roma e Costantinopoli si erano più che altro ignorate reciprocamente, finendo col perdere in termini esistenziali il senso dell’unità ecclesiale ed ecclesiologica: Roma aveva trasferito nel papato il criterio della verità, mentre Costantinopoli aveva mantenuto immutata la dottrina secondo cui è l’intera Chiesa a esserne depositaria, normalmente esprimendola attraverso i Concili ecumenici.
C’erano anche due fattori a giocare un ruolo rilevante: a) alla cattedra di Roma non salivano più uomini appartenenti alla vecchia cultura mediterranea, la stessa - in fondo - dei Bizantini, mediante la quale, alla fin fine, nonostante gli screzi e i dissapori ci si poteva intendere; ormai i papi di Roma erano prelati nati e cresciuti in Germania o in Francia, stranieri per gli Italici come per Greci; b) il movimento della riforma cluniacense, in espansione, era per il rafforzamento ulteriore del potere papale, per la sua supremazia sulla Chiesa, sostenuto da un clero celibatario a lui obbediente e libero da controlli civili. Il fatto che gli avversari del celibato ecclesiastico si richiamassero sovente all’esempio dei sacerdoti Greci creava altri motivi di potenziale dissidio tra i due mondi, ciascuno dei quali era ormai convinto della propria superiorità nei confronti dell’altro.
L’occasione per una nuova crisi - anche se non si trattò ancora di un nuovo scisma - lo fornirono i Normanni d’Italia, chiamati da papa Benedetto VIII per aiutarlo contro gli Arabi di Sicilia e i Bizantini. I Normanni si erano impadroniti dell’isola, erano penetrati fortemente nell’Italia meridionale e miravano a impadronirsi delle residue province bizantine nella penisola. Una minaccia, quindi, sia per Costantinopoli che per il Papa. Per conseguenza, papa Leone IX (dal 1049 al 1054) cercò di stringere rapporti più stretti con Costantinopoli. Nel 1054 inviò all’Imperatore bizantino una delegazione incaricata di concludere  l’alleanza guidata dal cardinale Umberto di Mourmontiers, vescovo di Silva Candida (1010-1063). La presenza di Umberto non fu tra le più propizie per il buon esito della missione, in quanto Michele Cerulario già in precedenza si era scontrato con lui per questioni liturgiche e per le pretese di supremazia papale. La delegazione pontificia fu ben accolta dall’Imperatore, mentre Cerulario le fu immediatamente ostile e avanzò sospetti sull’autenticità delle credenziali dei delegati papali, giacché papa Leone IX si trovava prigioniero dei normanni. Da parte sua Umberto di Silva Candida ebbe la “delicatezza” di far capire all’Imperatore che la possibilità di alleanza con Roma era subordinata alla sua completa sottomissione al Papa. Quando il 19 aprile giunse  notizia della morte di Leone IX in prigionia, Cerulario dichiarò che per lui le credenziali non avevano più valore e cessò i contatti con la delegazione. A questo punto Umberto agì di sua iniziativa: il 16 luglio 1054, poco prima dell’inizio della liturgia, entrò in Santa Sofia e depose sull’altare una bolla di scomunica, non già contro tutti i fedeli delle Chiese d’Oriente ma solo contro Cerulario, l’Imperatore e qualche altro personaggio. Ciò fatto, Umberto uscì dalla cattedrale  scrollandosi la polvere dalle scarpe in segno di massimo disprezzo. La bolla di scomunica, oltre a contenere accuse menzognere e assolutamente risibili, accusava il clero ortodosso di aver mutilato il Simbolo di fede sopprimendovi il Filioque. La risposta di Cerulario fu immediata: un Concilio locale a sua volta scomunicò Umberto e gli altri delegati papali. In merito a questo scambio di scomuniche ad personas, in genere si fa notare che erano avvenute mentre la Sede romana era vacante e non ricevettero poi nessuna conferma (ma anche nessuna smentita). Comunque non si ebbe la sensazione di una rottura definitiva.

Le Crociate e lo scisma vero e proprio
La situazione precipitò con le Crociate. In genere non ci si rende ben conto in Occidente di quanto grande sia stato il loro effetto traumatico per la Cristianità orientale (oltre che per il mondo islamico, ovviamente): una vera e propria e devastante invasione barbarica. Dal canto loro, i rozzi e incolti occidentali venuti a contatto con Costantinopoli reagirono male al fatto di essere di fronte a una realtà assai diversa da quella cui erano abituati, e le stesse chiese bizantine  sembravano loro appartenere a una religione diversa. Alle popolazioni dell’Impero i Crociati offrirono il volto del saccheggio, dello stupro, della violenza più brutale, della devastazione e del massacro, e territori giuridicamente sottoposti a Costantinopoli divennero bottino della loro rapacità. Inoltre - cosa importante ai fini della ricostruzione della sequenza dello scisma effettuato dalla Chiesa latina - nei territori conquistati dai Crociati le gerarchie ecclesiastiche bizantine vennero forzatamente sostituite da vescovi e preti occidentali. Un momento fondamentale nell’accelerazione di tale processo si ebbe nel 1100 con la cacciata da Antiochia del Patriarca Giovanni il Greco. Tale era il clima dell’epoca che quando nel 1103 il Normanno Boemondo da Taranto (1050/58-1111), viaggiò per l’Europa al fine di reclutare un esercito con cui combattere i Bizantini considerati scismatici (!), questa idea non apparve per nulla assurda o peregrina.
Con la Quarta Crociata ci fu la catastrofe. I Crociati si inserirono nella controversia tra Alessio, figlio del deposto Imperatore Isacco Angelo (1156-1204), e l’usurpatore Alessio III (1195-1203). Invece di dirigersi verso la Palestina, d’accordo con Venezia attaccarono Costantinopoli e installarono Alessio sul trono. Tuttavia costui, a causa dello stato di penuria del tesoro imperiale, non poté mantenere le promesse economiche avventatamente fatte ai suoi alleati latini. E quando nel 1204 il popolo di Costantinopoli si sollevò e uccise il nuovo Imperatore, i Crociati - già rabbiosi per il mancato guadagno - entrarono nella città e la misero selvaggiamente a sacco, devastando anche chiese e monasteri. Mai più la città - prima della conquista turca - tornò all’antico splendore. Il ricordo della prostituta ubriaca che danzava nuda sull’altare di Santa Sofia cantando canzoni oscene, mentre i Crociati devastavano la cattedrale, è rimasto emblematico del solco di sangue creatosi fra Cristiani latini e ortodossi, e continuato in seguito. Patriarca di Costantinopoli diventò arbitrariamente un vescovo occidentale, Tommaso Morosini, e si formò un effimero Impero latino d’Oriente, la cui vita ingloriosa cesserà nel 1261. Infatti i Greci ricostituirono su una parte limitata dei vecchi territori un debole Impero bizantino, poi distrutto nel 1453 dalla conquista ottomana. Il periodo in cui i Bizantini subirono l’oppressione politica e religiosa dei Latini, pregiudicò qualsiasi tentativo successivo di riunione fra le due Chiese, e inoltre, nel periodo antecedente alla vittoria turca si svolse un’importantissima controversia teologica che sancì definitivamente l’esistenza di due mondi religiosi separati: la cosiddetta “controversia palamita”. Per la sua complessità non è il caso di parlarne qui; d’altro canto la bibliografia abbonda.
                                                                                                                                     
La rottura definitiva
L’ultimo tentativo di ricomposizione si ebbe con il concilio di Ferrara-Firenze, risoltosi invece con la rottura definitiva. Ricostituitosi a seguito di varie vicende un Impero bizantino per opera di Michele VIII Paleologo (1223-1282), tutti gli Imperatori della nuova dinastia coltivarono l’illusione di giungere a una riunione delle due Chiese per ricevere aiuti militari dall’Occidente contro la crescente pressione turca. Ciò in quanto i papi condizionavano ogni loro intervento di sostegno alla previa soluzione del contrasto religioso.
Questi tentativi imperiali si scontrarono con la parte della Chiesa ortodossa che era decisamente contraria all’unione. Un primo tentativo ufficiale si ebbe nel 1274 con il Concilio di Lione, che partorì una fittizia riunificazione non sopravvissuta al regno di Michele VIII. In quell’occasione Michele era alle prese con la non teorica minaccia militare di Carlo d’Angiò (1226-1285), re di Napoli. Ma grazie alla rivolta dei Vespri siciliani l’Angioino si trovò del tutto impegnato nello sforzo di recuperare il dominio sulla Sicilia, per cui i Bizantini stessi si affrettarono a ripudiare l’unione.
Alla vigilia della conquista ottomana si ebbe un nuovo tentativo, quando ormai l’ultimo imperatore bizantino, Giovanni VIII (1392-1448), controllava solo la capitale, una sottile striscia di terra sulla costa asiatica del Mar di Marmara e qualche zona della Grecia. Nel 1437 Giovanni VIII giunse a Venezia con il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II (dal 1431 al 1439) e avviò i negoziati con papa Eugenio IV (dal 1431 al 1447). Il Papa convocò l’apposito Concilio a Ferrara, e nel 1439 l’assise si trasferì a Firenze. Le Chiese ortodosse vi erano tutte rappresentate: anche i Patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme avevano mandato propri delegati, e per la Chiesa russa giunse il metropolita Isidoro (m. 1463). Tra i delegati ortodossi non vi era affatto unità. Alcuni, guidati dall’Arcivescovo di Nicea, Bessarione (1395-1472), erano favorevoli all’unità, anche per motivi religiosi; ma altri, il cui maggiore esponente era Marco, arcivescovo di Efeso (m. 14439), difendevano il mantenimento di un’antica tradizione spirituale e rifiutavano di sottomettersi al Papa in materia religiosa.  Tra gli argomenti affrontati nelle discussioni c’erano naturalmente il Filioque, il Purgatorio (estraneo all’escatologia orientale) e il primato romano. Sul primo argomento si manifestò subito la vigorosa opposizione di Marco di Efeso, ma Bessarione e altri delegati greci, sollecitati dall’Imperatore, accettarono la dottrina occidentale; sul primato papale venne accettata la formulazione preparata da Roma a condizione che venissero conservati i privilegi e i diritti dei Patriarchi orientali. Fu quindi firmato l’atto di unione. Da tutti, tranne Marco di Efeso, per questo poi chiamato o fílakas tis Orthodoxías (il guardiano dell’Ortodossia). Bessarione diventerà cardinale della Chiesa di Roma.
Questa volta l’unione non rimase solo sulla carta: quando i delegati ortodossi tornarono alle loro sedi si scatenò un putiferio di grandi proporzioni. Le popolazioni e i monaci si manifestarono subito ostili, anche in Russia, dove il metropolita Isidoro dovette addirittura fuggire da Mosca per non essere linciato sul posto. Famoso è rimasto lo slogan contro l’unione urlato dalla folla di Costantinopoli, per quanto la città fosse virtualmente già assediata dai turchi: “Meglio il turbante del Sultano che la tiara del Papa!”.            
Con la conquista turca della città nel 1453, di unione non si parlò più, e si aggravarono ulteriormente i rapporti fra Chiesa di Roma e Chiese ortodosse; persecuzioni contro gli Ortodossi nella parte orientale del vecchio Regno di Polonia; passaggi forzati di comunità al rito orientale cattolico nei territori asburgici; sanguinose rivolte anticattoliche; massiccia partecipazione greca alla marina ottomana in lotta contro le potenze mediterranee cattoliche; grandi massacri di Ortodossi in Iugoslavia durante la Seconda guerra mondiale; campagne cattoliche per la “conversione” mediante i preti di rito orientale (detti spregiativamente “uniati”); forzata riunione alla Chiesa ortodossa russa delle Chiese cattoliche uniate nella Polonia orientale conquistata dall’Urss e in Ucraina, per ordine di Stalin.
In aggiunta ricordiamo le dogmatizzazioni della Chiesa cattolica, mai accettate dagli Ortodossi, su struttura della Trinità, Purgatorio, eternità dell’Inferno, trasmissione della colpa del peccato originale, dottrina delle indulgenze, Immacolata concezione, primato di giurisdizione e infallibilità del Papa ex cathedra; e altri elementi, come distinzione fra “Chiesa docente e Chiesa discente”, celibato ecclesiastico, assunzione del Tomismo a teologia-filosofica ufficiale, ruolo sacramentale dei laici, indissolubilità assoluta del matrimonio. 
Dopo il Concilio Vaticano II si è dato inizio a un pretenzioso quanto sterile ”dialogo ecumenico”, dai contenuti teologicamente confusi, per lo più a livello di vertice - dimostrandosi con ciò di non aver imparato la lezione di tanti secoli fa a Firenze, e ripetendo gli stessi errori. Tutto sommato un innocuo palcoscenico per l’esibizione ipocrita di tronfi prelati delle due parti, tutti incapaci di usare il sincero schema discorsivo indicato da Gesù (“sì sì, no no”). Un ulteriore solco, alla fine del secolo scorso, si è creato per il rilevante contributo dato dal Vaticano nell’innescare l’incendio iugoslavo.  
Nella basilica di S. Pietro a Roma i visitatori distratti passano davanti a una tomba che rappresenta meglio di ogni altra cosa le vicende di certi rapporti interecclesiali: nella navata di destra, appena entrati, sulla sinistra si trova la tomba monumentale di un Vescovo cattolico uniate; sul coperchio c’è la statua che ne riproduce le fattezze, coperta dai paramenti liturgici orientali. Costui operava nella parte est del vecchio Regno polacco, e tante ne aveva fatte contro la popolazione ortodossa che un giorno questa si ribellò e gliela fece pagare cara: lo crocifisse sulla porta della sua chiesa. Fino a quando quella tomba rimarrà dove si trova si può star sicuri che nulla è cambiato, per quanto non si ritenga “politicamente corretto” dirlo.

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