1. Un esempio del processo decisionale postdemocratico: la garanzia del
governo irlandese sulle banche.
Tra la
sera del 29 e il primo mattino del 30 settembre 2008, giusto a due settimane
dalla bancarotta della Lehman Brothers e dall’inizio del terremoto finanziario,
il governo irlandese prese la decisione di offrire una garanzia
pubblica su tutte le passività di tutte le banche del paese. L’urgenza era
determinata dall’imminente tracollo della Anglo Irish Bank, che fu poi nazionalizzata
a metà dicembre 2009.
Secondo
il giornalista Simon Carswell che ne ha ricostruito la vicenda, quella
fu «la più importante decisione politica presa da un governo irlandese» (1),
tale da impegnarlo per l’equivalente di circa tre volte il
prodotto interno e dieci volte il debito pubblico del momento. Iniziava così il
processo di socializzazione dei costi del salvataggio del sistema finanziario
privato dell’Irlanda, nonché dei creditori esteri, che ha ipotecato il futuro
dell’intero paese, come sancito dall’accordo internazionale stipulato nel 2010.
Più precisamente, ad essere ipotecati sono l’occupazione, i salari, le pensioni
e i servizi pubblici dei comuni cittadini irlandesi, per molti anni a venire
(2).
Nonostante
la sua straordinaria importanza la decisione di garantire tutte le passività
venne presa da un gruppo ristretto, in tutto una dozzina di persone: il primo
ministro, il ministro delle finanze, l’attorney general, il governatore della banca
centrale, alcuni alti funzionari; nelle stesse ore questo gruppo ebbe
consultazioni con l’agenzia di rating Merrill Lynch e i massimi dirigenti (presidenti e Ceo) della Anglo Irish Bank e della Bank
of Ireland. L’approvazione degli altri membri del governo venne
ottenuta telefonicamente. Prima delle sei del mattino venivano informati il
primo ministro del Lussemburgo, allora presidente del Eurogruppo, e il ministro
delle finanze francese Christine Lagarde, a capo
dell’Ecofin dell’Unione europea, ora direttore generale del Fmi. La decisione
venne resa pubblica alle 6,45 e poi ratificata dal parlamento, con 124 voti a
favore e 18 contrari: a favore votarono anche il principale partito
d’opposizione, il Fine Gael, e il Sinn Féin,
paladino dell’indipendenza irlandese.
Questo è
solo un esempio di come, nelle moderne «democrazie rappresentative», decisioni
politiche di grande impegno possano essere prese prescindendo dalla consultazione
dei rappresentanti del «popolo (presunto) sovrano» e mettendo le istituzioni
parlamentari di fronte a fatti compiuti e ad accordi internazionali che, si
dice, non possono che essere accettati. Per quanto riguarda il processo
decisionale si tratta del risultato della combinazione di due tendenze storiche, di lungo periodo.
Cronologicamente,
la prima è quella della disciplina di partito nella sua applicazione ai gruppi
parlamentari. Più degli altri, di essa erano
specialmente orgogliosi i socialisti, almeno come ideale normativo: era uno dei
modi di essere del partito «di massa» proletario opposto al partito
parlamentare e borghese di notabili. L’esperienza storica dice però che la
disciplina di partito può essere lo strumento attraverso il quale viene
rovesciato il rapporto tra mezzi e fini: fu il senso sacrale della disciplina a
far sì che il 4 agosto 1914 la frazione parlamentare socialdemocratica del Reichstag votasse all’unanimità i crediti di guerra. A favore votarono anche
Karl Liebknecht, che presto divenne l’emblema della lotta alla guerra, e altri
che nella riunione preliminare della frazione avevano espresso contrarietà e
dubbi.
La
seconda tendenza emerse nella guerra mondiale, si consolidò durante la gestione
politica della depressione degli anni Trenta e la guerra mondiale, e si
sviluppò energicamente con la crescita delle funzioni economiche e sociali
dello Stato nel corso del secondo dopoguerra: si tratta dello spostamento dei
rapporti tra esecutivo (e apparati burocratici specializzati) e assemblee
parlamentari a netto favore del primo e della dislocazione della formulazione,
mediazione e decisione politica in sedi diverse da quelle elettive. Da notare
che questo processo fu simultaneo all’età d’oro della moderna «democrazia
rappresentativa», alla più frequente e lunga partecipazione dei partiti
socialisti al governo, al riconoscimento formale dei diritti socioeconomici,
all’estensione reale (benché ineguale) del welfare
State.
Si può
dunque dire che lo sviluppo della tendenza al dislocamento della decisione
politica fuori delle istituzioni elettive e verso la burocrazia statale sia
coeva a quella che appariva (e a molti ancora appare tale) come la
«democratizzazione» politica e sociale dello Stato, da intendersi come
l’introduzione in esso di aspetti non-capitalistici o protosocialisti. Ma che
partiti e Stato si compenetrassero, con gravi effetti a lungo termine per la
loro stessa identità e le istituzioni elettive, non era che il necessario
complemento della funzionalità dell’interventismo statale alla riproduzione
allargata del capitale; ragion per cui non deve stupire che lo stesso fenomeno
di statalizzazione dei partiti (e dei sindacati) si sia poi volto contro i
precedenti diritti sociali, quando sono mutate le condizioni dell’accumulazione
del capitale.