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mercoledì 22 febbraio 2012

MONDO ARABO IN RIVOLTA XXVII, di Pier Francesco Zarcone

Siria

Dal massacro all’interferenza straniera
La sempre più ingarbugliata situazione siriana attualmente si presta più alla cronaca che non a commentari con pretesa di andare - almeno un po’ - al di là del momento in cui vengono scritti. Tuttavia c’è un aspetto su cui vale la pena discutere anche ora: ci riferiamo al proiettarsi – sempre più consistente e palese - di interferenze straniere nella crisi siriana. Allo stato delle cose non può dirsi se questo porterà a interventi militari diretti (alla maniera libica), per quanto i droni statunitensi già abbiano cominciato a “vigilare”. Ci basti essere consapevoli del gravare su tutta l’area del Vicino Oriente della formazione delle premesse per innescare una serie di reazioni a catena, i cui beneficiari saranno solo determinati complessi militari/industriali, ma non certo gli interessi di lungo periodo delle rispettive potenze né tanto meno quelli delle popolazioni locali e del resto del mondo.
Il nucleo centrale che non rende agevole – in una prospettiva etica e politica - trattare la questione siriana non è difficile da esporre: oggi come oggi, dietro a una sollevazione popolare contro un regime tirannico (che ancora dispone di un certo seguito, e non solo militare) esistono movimenti di entità politico/religiose non ben definite e sicuramente con obiettivi eterogenei, talché c’è da pensare che, caduto al-Assād, tutto vada a finire nel peggiore dei modi, cioè o alla maniera libica o con una vittoria sul campo del radicalismo islamico. Inutile dire che in entrambi i casi le conseguenze sarebbero negative e, nel secondo di essi, devastanti.
Il precedente libico, inutile negarlo, esercita un suo peso nelle valutazioni. Oggi ci si può chiedere se esista ancora una Libia nel territorio così denominato diventato campo di scontro violento fra milizie tribali e/o locali che nessuno controlla e che dei tanto difesi (a parole) diritti umani fanno lo stesso uso del defunto Gheddafi. La somalizzazione della società libica non può essere esclusa, allo stato delle cose, ma è certo che lo “zio Sam” – filantropo di sé stesso – troverà il modo per controllare in prima persona il petrolio libico con i suoi mercenari armati. Se ci riesce, per il resto della Libia potrà scattare il famoso fuck off.

L’interferenza arabo-sunnita
Adesso ci sono brutti segni di cambiamento a motivo dell’entrata in campo di governi arabi sunniti, come quelli di Arabia Saudita e Qatar. Apparentemente non ci dovrebbero essere problemi, trattandosi di solidi “alleati” di Washington. Invece i problemi ci sono, e grandi.
Si tratta dei vertici di due realtà che da un lato stanno a braccetto con gli Usa e da un altro lato sono stati e sono i massimi (e indisturbati) fomentatori e finanziatori del peggiore estremismo islamico nel mondo. Cioè di coloro che gli Usa considerano i più acerrimi e pericolosi nemici. Forse la cosa è passata un po’ inosservata, ma giorni fa una rete televisiva pubblica italiana ha dato una notizia che richiederebbe un terremoto politico internazionale di vasta portata: si è detto, cioè, che l’Arabia Saudita sta definendo con al-Qaida il trasferimento di combattenti dall’Iraq alla Siria!
Se fosse vero – e tralasciamo per il momento lo squarcio che aprirebbe nella cortina di bugie sugli interventi in Iraq e Afghanistan – le implicazioni sulla questione siriana sarebbero dirompenti. Sullo sfondo resta l’assurda politica estera statunitense, da decenni caratterizzata dall’enorme dispendio di vite umane e risorse materiali per lottare contro il nuovo nemico islamico e contemporaneamente dalla protezione ai regimi (Arabia Saudita, Qatar, Pakistan) che notoriamente sono i sovvenzionatori principali del radicalismo islamico e – non da ultimo – gli organizzatori della diffusione di questo virus nelle società musulmane.

Il contrasto infraislamico
Tenuto conto di come sono finite le cose in Tunisia, Egitto e Marocco, non sembra azzardato vedere nell’insieme degli oppositori di al-Assād un settore che finirà presto (se non lo è già) egemonizzato dagli islamici radicali, i quali – poiché in Siria la politica ormai la fanno le armi – progressivamente assumeranno il volto degli estremisti salafiti. La poco promettente coloritura verde-Islam cupo che si sta delineando è in grado di far cadere ogni illusione sul fatto che le forze protagoniste in Siria dello scontro finale siano la tirannide e la “democrazia” all’occidentale, al di là dei pii desideri di tanta gente che si è fatta ammazzare e ancora si farà ammazzare.
Si profila cioè uno scontro ultimo fra due tirannidi: infatti la situazione, pur nella sua attuale confusione presenta un certo grado di chiarezza almeno sul punto di quel che succederà a seconda di chi vinca. Qui non si tratta di cinismo né di amorale realpolitik, bensì di qualcosa che emerge dai fatti, e che si traduce nell’esigenza di non illudersi che la sconfitta del regime baathista sul campo di battaglia porti – nella situazione attuale -  all’avvento della democrazia rappresentativa.
Ma ciò non basta. Deve altresì esser chiara la portata della prevedibile reazione a catena: oltre al rafforzamento e all’estremizzazione dei governi islamici di Tunisia ed Egitto, entrerebbero in “zona rischio acuto” Algeria e Giordania e aumenterebbero le spinte islamiche in Turchia (dove però c’è l’incognita dell’esercito che è laico). In più, resisterebbe il Marocco in un simile scenario, ad onta dell’essere il suo sovrano discendente del Profeta?
E veniamo al contrasto infraislamico. L’interferenza di Arabia Saudita e Qatar, vale a dire, rende visibile – e contemporaneamente estremizza – un aspetto del conflitto siriano già noto agli specialisti ma rimasto non evidenziato al fuori del mondo arabo: il trattarsi, cioè, in Siria anche di uno scontro fra sunniti e alauiti para-sciiti.
Lo scarso interesse a pubblicizzare o evidenziare questo profilo non dipende da cecità, ma forse da una sorta di superstiziosa cautela, i cui motivi risultano subito da un mero sguardo alla carta geografica. Infatti “sciiti” vuol dire – fuori dalla Siria – Iran, la maggioranza della popolazione irachena, Hezbollah libanese, una minoranza saudita stanziata però in una zona ricca di petrolio, e la maggioranza della popolazione del Qatar in lotta contro il proprio sovrano sunnita.
Non è difficile pensare che, precipitando gli eventi, in Libano ricomincerebbe la lotta fra Hezbollah (non più sostenuto dalla Siria) e i musulmani sunniti, con una netta prospettiva di guerra civile, di fronte alla quale non è certo che Israele starebbe alla finestra in attesa di vedere il vincitore. Iran e sciiti iracheni si troverebbero circondati dai nemici sunniti, con due possibili conseguenze: l’incremento in Iraq del terrorismo sunnita, e il radicalizzarsi del programma atomico iraniano aprendolo agli usi militari.  La “ciliegia sulla torta” avvelenata, però, sarebbe una crisi politica in Pakistan (paese dotato di atomiche) tale da portare al potere, anche formalmente, radicali islamici, equivalente all’accerchiamento sunnita dell’Iran. C’è la consapevolezza di questo pericolo dietro l’invio nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, che ovviamente vigilerebbero sulla costa siriana.
Se le cose andassero in questo modo, perché non mettere nel conto un incremento della destabilizzazione islamica nell’Asia ex sovietica e una ripresa della guerriglia cecena?
Questo non è terrorismo psicologico, ma un semplice ragionamento sulle possibili conseguenze di una vittoria islamica in Siria: cioè il formarsi di una vera e propria polveriera pronta a esplodere nel peggiore dei modi, col corollario del tramonto di ogni speranza politica “umanista” nel mondo arabo per parecchi decenni e del prendere corpo le nefaste profezie sullo “scontro di civiltà”.

Lo scarso margine degli ultimi alleati di al-Assād
Notoriamente al regime siriano oggi resta solo l’appoggio di Russia e Cina, oltre a quello dell’Iran, che però ha i suoi problemi attuali, giacché fra breve potrebbe trovarsi alle prese con un attacco israeliano o statunitense.
È facile deprecare che l’intervento russo/cinese finora si sia incentrato nel bloccare le iniziative occidentali al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Che cosa stia facendo la loro diplomazia sotterranea, non sappiamo, ma nemmeno possiamo ipotizzare a ragion veduuta  su quali mosse si debbano giocare nei confronti di al-Assād ai fini di una reale svolta politica; ciò in quanto manca una qualsiasi luce su cosa sia politicamente l’opposizione organizzata siriana e quale mappatura del suo seguito popolare sia tracciabile, con la già detta spada di Damocle di una vittoria dell’opposizione equivalente alla vittoria del Salafismo.
Finora si è parlato della crisi siriana guardando all’innegabile atrocità della repressione del regime, ma dando per scontato che gli oppositori siano i “buoni” del film, secondo il diffuso contagio del rozzo manicheismo statunitense. Ma l’oscurità di cui si diceva è tale da far ritenere foriera di grossi rischi anche la teorica soluzione del convincere/forzare al-Assād ad andarsene (non sarebbe né il primo né l’ultimo dittatore a farla franca e morire in un comodo e ricco letto), e creare un governo di transizione capace di portare il paese a libere elezioni. Sarebbe puro buon senso, ma difficilmente troverà concretizzazione.
L’estrema criticità della situazione dipende altresì dall’eventualità che, in luogo di una transizione del tipo auspicato, l’abbandono di campo di al-Assād determini un repentino collasso del fronte filogovernativo all’insegna del “si salvi chi può”. Infatti il regime baathista siriano è fortemente accentrato attorno alla figura del Presidente della Repubblica e al culto della sua personalità talché, trattandosi di regime assai autoritario, sarebbe ingenuo ritenere che tra le personalità di vertice siano diffusi la pratica del pensare/agire con la propria testa e lo spirito di inziativa. Un prevedibile squagliamento vorrebbe dire “campo del tutto libero” per i settori sunniti estremisti, desiderosi di vendetta e di eliminare i loro nemici di sempre: eretici alauiti, sciiti ortodossi, minoranza cristiana e componenti laiche della società siriana. Quindi, una tirannide ancora peggiore di quella che si vuole abbattere. Purtroppo non sarebbe una novità nel panorama storico delle rivoluzioni.
Per quanto possa non piacere, spazi di mediazione non esistono: ciascuna delle parti in causa sa che questo scontro è questione di vita per il vincitore e di morte per il vinto. Alternative alla prosecuzione della guerra civile - sui cui attori c’è davvero poco da fare il tifo – non ce ne sono 

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