Dal massacro
all’interferenza straniera
La sempre più ingarbugliata situazione siriana attualmente si presta più
alla cronaca che non a commentari con pretesa di andare - almeno un po’ - al di
là del momento in cui vengono scritti. Tuttavia c’è un aspetto su cui vale la
pena discutere anche ora: ci riferiamo al proiettarsi – sempre più consistente
e palese - di interferenze straniere nella crisi siriana. Allo stato delle cose
non può dirsi se questo porterà a interventi militari diretti (alla maniera
libica), per quanto i droni statunitensi già abbiano cominciato a “vigilare”.
Ci basti essere consapevoli del gravare su tutta l’area del Vicino Oriente
della formazione delle premesse per innescare una serie di reazioni a catena, i
cui beneficiari saranno solo determinati complessi militari/industriali, ma non
certo gli interessi di lungo periodo delle rispettive potenze né tanto meno
quelli delle popolazioni locali e del resto del mondo.
Il nucleo centrale che non rende agevole – in una prospettiva etica e
politica - trattare la questione siriana non è difficile da esporre: oggi come
oggi, dietro a una sollevazione popolare contro un regime tirannico (che ancora
dispone di un certo seguito, e non solo militare) esistono movimenti di entità
politico/religiose non ben definite e sicuramente con obiettivi eterogenei,
talché c’è da pensare che, caduto al-Assād, tutto vada a finire nel peggiore
dei modi, cioè o alla maniera libica o con una vittoria sul campo del
radicalismo islamico. Inutile dire che in entrambi i casi le conseguenze
sarebbero negative e, nel secondo di essi, devastanti.
Il precedente libico, inutile negarlo, esercita un suo peso nelle
valutazioni. Oggi ci si può chiedere se esista ancora una Libia nel territorio
così denominato diventato campo di scontro violento fra milizie tribali e/o
locali che nessuno controlla e che dei tanto difesi (a parole) diritti umani
fanno lo stesso uso del defunto Gheddafi. La somalizzazione della società
libica non può essere esclusa, allo stato delle cose, ma è certo che lo “zio
Sam” – filantropo di sé stesso – troverà il modo per controllare in prima
persona il petrolio libico con i suoi mercenari armati. Se ci riesce, per il
resto della Libia potrà scattare il famoso fuck
off.
L’interferenza arabo-sunnita
Adesso ci sono brutti segni di cambiamento a motivo dell’entrata in campo
di governi arabi sunniti, come quelli di Arabia Saudita e Qatar. Apparentemente
non ci dovrebbero essere problemi, trattandosi di solidi “alleati” di
Washington. Invece i problemi ci sono, e grandi.
Si tratta dei vertici di due realtà che da un lato stanno a braccetto con
gli Usa e da un altro lato sono stati e sono i massimi (e indisturbati)
fomentatori e finanziatori del peggiore estremismo islamico nel mondo. Cioè di
coloro che gli Usa considerano i più acerrimi e pericolosi nemici. Forse la
cosa è passata un po’ inosservata, ma giorni fa una rete televisiva pubblica
italiana ha dato una notizia che richiederebbe un terremoto politico
internazionale di vasta portata: si è detto, cioè, che l’Arabia Saudita sta
definendo con al-Qaida il trasferimento di combattenti dall’Iraq alla Siria!
Se fosse vero – e tralasciamo per il momento lo squarcio che aprirebbe
nella cortina di bugie sugli interventi in Iraq e Afghanistan – le implicazioni
sulla questione siriana sarebbero dirompenti. Sullo sfondo resta l’assurda
politica estera statunitense, da decenni caratterizzata dall’enorme dispendio
di vite umane e risorse materiali per lottare contro il nuovo nemico islamico e
contemporaneamente dalla protezione ai regimi (Arabia Saudita, Qatar, Pakistan)
che notoriamente sono i sovvenzionatori principali del radicalismo islamico e –
non da ultimo – gli organizzatori della diffusione di questo virus nelle
società musulmane.
Il contrasto infraislamico
Tenuto conto di come sono finite le cose in Tunisia, Egitto e Marocco, non
sembra azzardato vedere nell’insieme degli oppositori di al-Assād un settore
che finirà presto (se non lo è già) egemonizzato dagli islamici radicali, i
quali – poiché in Siria la politica ormai la fanno le armi – progressivamente
assumeranno il volto degli estremisti salafiti. La poco promettente coloritura
verde-Islam cupo che si sta delineando è in grado di far cadere ogni illusione
sul fatto che le forze protagoniste in Siria dello scontro finale siano la
tirannide e la “democrazia” all’occidentale, al di là dei pii desideri di tanta
gente che si è fatta ammazzare e ancora si farà ammazzare.
Si profila cioè uno scontro ultimo fra due tirannidi: infatti la
situazione, pur nella sua attuale confusione presenta un certo grado di
chiarezza almeno sul punto di quel che succederà a seconda di chi vinca. Qui
non si tratta di cinismo né di amorale realpolitik,
bensì di qualcosa che emerge dai fatti, e che si traduce nell’esigenza di non
illudersi che la sconfitta del regime baathista sul campo di battaglia porti – nella situazione attuale - all’avvento della democrazia rappresentativa.
Ma ciò non basta. Deve altresì esser chiara la portata della prevedibile
reazione a catena: oltre al rafforzamento e all’estremizzazione dei governi
islamici di Tunisia ed Egitto, entrerebbero in “zona rischio acuto” Algeria e
Giordania e aumenterebbero le spinte islamiche in Turchia (dove però c’è
l’incognita dell’esercito che è laico). In più, resisterebbe il Marocco in un
simile scenario, ad onta dell’essere il suo sovrano discendente del Profeta?
E veniamo al contrasto infraislamico. L’interferenza di Arabia Saudita e
Qatar, vale a dire, rende visibile – e contemporaneamente estremizza – un
aspetto del conflitto siriano già noto agli specialisti ma rimasto non evidenziato
al fuori del mondo arabo: il trattarsi, cioè, in Siria anche di uno scontro fra
sunniti e alauiti para-sciiti.
Lo scarso interesse a pubblicizzare o evidenziare questo profilo non
dipende da cecità, ma forse da una sorta di superstiziosa cautela, i cui motivi
risultano subito da un mero sguardo alla carta geografica. Infatti “sciiti”
vuol dire – fuori dalla Siria – Iran, la maggioranza della popolazione
irachena, Hezbollah libanese, una minoranza saudita stanziata però in una zona
ricca di petrolio, e la maggioranza della popolazione del Qatar in lotta contro
il proprio sovrano sunnita.
Non è difficile pensare che, precipitando gli eventi, in Libano
ricomincerebbe la lotta fra Hezbollah (non più sostenuto dalla Siria) e i
musulmani sunniti, con una netta prospettiva di guerra civile, di fronte alla
quale non è certo che Israele starebbe alla finestra in attesa di vedere il
vincitore. Iran e sciiti iracheni si troverebbero circondati dai nemici
sunniti, con due possibili conseguenze: l’incremento in Iraq del terrorismo
sunnita, e il radicalizzarsi del programma atomico iraniano aprendolo agli usi
militari. La “ciliegia sulla torta”
avvelenata, però, sarebbe una crisi politica in Pakistan (paese dotato di atomiche)
tale da portare al potere, anche formalmente, radicali islamici, equivalente
all’accerchiamento sunnita dell’Iran. C’è la consapevolezza di questo pericolo
dietro l’invio nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, che ovviamente
vigilerebbero sulla costa siriana.
Se le cose andassero in questo modo, perché non mettere nel conto un
incremento della destabilizzazione islamica nell’Asia ex sovietica e una
ripresa della guerriglia cecena?
Questo non è terrorismo psicologico, ma un semplice ragionamento sulle
possibili conseguenze di una vittoria islamica in Siria: cioè il formarsi di
una vera e propria polveriera pronta a esplodere nel peggiore dei modi, col
corollario del tramonto di ogni speranza politica “umanista” nel mondo arabo
per parecchi decenni e del prendere corpo le nefaste profezie sullo “scontro di
civiltà”.
Lo scarso margine degli
ultimi alleati di al-Assād
Notoriamente al regime siriano oggi resta solo l’appoggio di Russia e Cina,
oltre a quello dell’Iran, che però ha i suoi problemi attuali, giacché fra
breve potrebbe trovarsi alle prese con un attacco israeliano o statunitense.
È facile deprecare che l’intervento russo/cinese finora si sia incentrato
nel bloccare le iniziative occidentali al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Che
cosa stia facendo la loro diplomazia sotterranea, non sappiamo, ma nemmeno
possiamo ipotizzare a ragion veduuta su
quali mosse si debbano giocare nei confronti di al-Assād ai fini di una reale
svolta politica; ciò in quanto manca una qualsiasi luce su cosa sia
politicamente l’opposizione organizzata siriana e quale mappatura del suo
seguito popolare sia tracciabile, con la già detta spada di Damocle di una
vittoria dell’opposizione equivalente alla vittoria del Salafismo.
Finora si è parlato della crisi siriana guardando all’innegabile atrocità
della repressione del regime, ma dando per scontato che gli oppositori siano i
“buoni” del film, secondo il diffuso contagio del rozzo manicheismo
statunitense. Ma l’oscurità di cui si diceva è tale da far ritenere foriera di
grossi rischi anche la teorica soluzione del convincere/forzare al-Assād ad
andarsene (non sarebbe né il primo né l’ultimo dittatore a farla franca e
morire in un comodo e ricco letto), e creare un governo di transizione capace
di portare il paese a libere elezioni. Sarebbe puro buon senso, ma
difficilmente troverà concretizzazione.
L’estrema criticità della situazione dipende altresì dall’eventualità che,
in luogo di una transizione del tipo auspicato, l’abbandono di campo di
al-Assād determini un repentino collasso del fronte filogovernativo all’insegna
del “si salvi chi può”. Infatti il regime baathista siriano è fortemente
accentrato attorno alla figura del Presidente della Repubblica e al culto della
sua personalità talché, trattandosi di regime assai autoritario, sarebbe
ingenuo ritenere che tra le personalità di vertice siano diffusi la pratica del
pensare/agire con la propria testa e lo spirito di inziativa. Un prevedibile
squagliamento vorrebbe dire “campo del tutto libero” per i settori sunniti
estremisti, desiderosi di vendetta e di eliminare i loro nemici di sempre:
eretici alauiti, sciiti ortodossi, minoranza cristiana e componenti laiche
della società siriana. Quindi, una tirannide ancora peggiore di quella che si
vuole abbattere. Purtroppo non sarebbe una novità nel panorama storico delle
rivoluzioni.
Per quanto possa non piacere, spazi di mediazione non esistono: ciascuna
delle parti in causa sa che questo scontro è questione di vita per il vincitore
e di morte per il vinto. Alternative alla prosecuzione della guerra civile -
sui cui attori c’è davvero poco da fare il tifo – non ce ne sono
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