ACAB di Stefano Sollima (tratto dall’omonimo romanzo-inchiesta di Carlo Bonini
– Einaudi 2009, sceneggiato da Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo
Valenti) ha molti meriti: non ultimo di aver posto all’attenzione del grande
pubblico il tema della violenza istituzionale in maniera scoperta (brutale?) e
di aver costretto ambienti tra loro distanti anni-luce a discutere dei contenuti del film. E ciò perché si sono sentiti
chiamare in causa, per una ragione o per un’altra: dalla magistratura alle
forze «di base» dell’apparato repressivo, dalle varie categorie vittime della
violenza poliziesca alle varie categorie impegnate ad esercitare una violenza
contropoliziesca o fine a se stessa, oltre al mondo della casta politica (sia
pur marginalmente e non per il tema della violenza): tutti più o meno
direttamente tirati in ballo.
Ed è
proprio dei contenuti del film che mi accingo a discutere anch’io (nella
seconda parte di questa presentazione), non tralasciando di premettere però una
banalità che viene dimenticata spesso e volentieri da parte di chi non segue
per ragioni professionali le vicende del cinema: e cioè che il giudizio su un
qualsiasi film dev’essere in primo luogo fondato su una valutazione cinematografica, da intendersi nel senso
pieno del termine. Deve cioè evidenziare i tratti salienti 1) del rapporto che
viene proposto tra la forma espressiva caratteristica dello strumento cinema e
i suoi contenuti, 2) del modo in cui si realizza la combinazione tra i vari
elementi che compongono l’opera (dalla recitazione alla fotografia, dalla
sceneggiatura alla musica, dall’ambientazione al sonoro ecc.), 3) della
comunicazione che si potrà stabilire con il pubblico. Aggiungendo magari considerazioni
specifiche che possono dipendere 4) dal contesto geoculturale in cui il film è
stato prodotto e soprattutto 5) dal genere in cui esso si colloca: western,
musical, commedia americana, giallo, fantascienza, animazione ecc. Il tutto con
l’obiettivo di stabilire quali corde della nostra sensibilità o emotività il
film riesce a far vibrare e quindi a che titolo lo si può considerare
espressione artistica nel campo di quella specifica forma d’arte moderna,
realmente contemporanea e sempre più futuribile che è per l’appunto il cinema
(l’unica Musa - con l’eccezione anch’essa «vistosa» e visuale dell’Architettura
- che sembra ancora godere di buona salute e non destinata ad entrare per ora
in crisi epocale, a mio personale e poco modesto modo di vedere).
Alcuni
critici sono andati a riscoprire nel film di Stefano Sollima i cromosomi
trasmessi geneticamente dall’opera filmica del padre Sergio - il bravo
confezionatore di film western negli anni del d.S.L. (dopo Sergio Leone), come l’indimenticabile Resa dei conti del 1967 - poi assorbito
nei meandri della produzione cinetelevisiva. Magari sarà vero, ma in un senso
per ora non evidente e tutto da dimostrare.
Il genere filmico
E
comunque, anche solo per inserire ACAB
in un genere filmico, s’incontrano alcune difficoltà: si tratta, infatti, di un
film in primo luogo politico e di denuncia (con dichiarati scopi
protestatari e didascalici, una sorta di manifesto antirepressivo del
dopo-Genova 2001), facilmente riconducibile alla tradizione filmica di Giuseppe
Ferrara; certamente di attualità
(almeno per noi cittadini italiani, perché in Iran, in Cina, nell’Argentina dei
generali o in tanti altri Paesi del mondo attuale il grado di violenza espressa
in questo film farebbe solo tenerezza); con un forte orientamento documentaristico. Peraltro un film poliziesco, non del genere giallo
(detective story), ma del genere effettivamente «poliziesco», centrato sul lato
oscuro della forza o meglio delle forze… dell’ordine.
Un genere
molto italiano che è fiorito dagli anni ’70 in poi a partire da un capolavoro come Indagine su un cittadino al di sopra di
ogni sospetto di Elio Petri del 1970 - prodotto sulla scia della più grande
insorgenza di massa antisistemica e anticapitalistica conosciuta da questo
Paese - per calare via via di tono e lucidità politica, ma crescendo in
efferatezze sceniche con tutta la serie dei commissari cinici o arroganti, dei
film sulla polizia che spara o non spara, da Franco Nero a Tomas Milian,
arrivando agli odierni film sulle bande periferiche dell’Urbe, i romanzi
criminali, il dopo-Genova, le crisi d’identità degli esponenti delle tante
branche di polizia e corpi speciali di cui è purtroppo ampiamente dotata
l’Italia. Non dimenticherei a questo riguardo – come più significativo
precedente del film di Sollima - la contraddittoria figura del celerino-suicida
Matteo, creato dalla magnifica sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano
Rulli per La meglio gioventù di Marco
Tullio Giordana del 2003.
Insisto
sul carattere «documentaristico» del film (senza per questo considerarlo un
demerito, vista la grande tradizione cinematografica in primo luogo
statunitense che esiste in questo genere) per l’ispirazione generale della
sceneggiatura (tratta del resto da un romanzo-inchiesta), per i continui rinvii
all’attualità, per gli espliciti riferimenti a fatti di cronaca realmente
accaduti, per le scelte operate in fase di montaggio (volte a privilegiare
determinate sequenze facilmente riconducibili a vicende note o comunque
verosimili, a discapito dell’invenzione narrativa), per la precisione e la
verosimiglianza nella scelta dei veicoli di servizio o delle divise, per la
precisa identificazione dei luoghi e dei contesti, e infine e soprattutto per
la trama.
Trama esile e intermittente
Esile,
incerta e intermittente, è volutamente tale per non distogliere lo spettatore
dal discorso fondativo del film, su cui torneremo parlando dei contenuti. Essa
sembra fungere da pretesto, quasi una traccia per il collegamento di una serie
di quadri, secondo una procedura a tratti anche ingenua. Nelle vite private o
negli intervalli non-lavorativi e quindi non-polizieschi di questi centurioni
della notte, si affacciano temi abbastanza prevedibili: lo sfratto incombente
sulla madre dell’unico celerino semionesto (o meglio, semietico, ma solo perché
giovane, inesperto e transfuga dal mondo degli skinheads - Domenico Diele); lo
stereotipo abusato della mulatta cubana italianizzata (Eradis Josende Oberto)
che mette in strada l’incauto marito (Filippo Nigro); l’incomunicabilità del padre
(di destra - Marco Giallini) in conflitto con il figlio impegnato nella destra
nazifascista (Eugenio Mastrandrea), a sua volta giustificato se non proprio
coccolato dalla madre, anch’essa poliziotta (Roberta Spagnuolo); la fissazione
per le diete ipocaloriche e il mantenimento della forma fisica dell’ex celerino
un po’ psicopatico (Andrea Sartoretti); il conflitto interiore e le
autoassoluzioni di Cobra (Pierfrancesco Favino, qui perfetto per la parte
ombrosa assegnatagli); il cameratismo da palestra tra maschi; i valori (o
disvalori) della solidarietà di gruppo, dell’amicizia ridotta di fatto a
omertà, volutamente formulati come luoghi comuni e falsamente retorici per
mostrarne la loro inconsistenza nella più generale degenerazione della società
attuale ecc.
Tanti
quadri o bozzetti che fanno da intermezzi per le sezioni fondamentali del film
che ne costituiscono la vera trama, con maggiore o minore continuità a seconda
dei ritmi del montaggio: vale a dire le scene di violenza, di massa e non, in
esterni o in interni, giuste o ingiuste, di parte o di… altra parte, secondo
una catalogazione «quasi politica» della loro importanza sulla quale torneremo
tra breve. Aggiungendo che l’intera vicenda è avvolta in un’atmosfera
complessivamente caratterizzata da una dose fortissima (spropositata?
indispensabile?) di realismo, facilitata dall’utilizzo della parlata romanesca
(o, più esattamente, della calata romano-coattesca in auge tra le nuove leve
metropolitane), dalla facile identificazione dei luoghi cittadini, dalle
citazioni di cronaca giornalistica, dal frequente ricorso ai telegiornali come
voci narranti.
Personalmente,
come romano doc cresciuto in gioventù politica e negli anni ’60-‘70 con una
corposa pratica di scontri di strada con i cellerini
(si raccomanda la doppia l) a partire
dal 1966 fino a Genova 2001, non ho faticato a ritrovarmi in alcune immagini
anche crude del film. Esse hanno risvegliato ricordi (potenza del mezzo
filmico!) e riflessioni sull’effettiva utilità di quegli scontri (di cui dirò
in altra occasione…).
L’insieme
del film è stato pensato in un contesto sonoro volutamente ossessivo in alcune
sue parti, fatto di rumori urbani o di
risonanza in interni, con tanta musica dura e rock internazionale oltre alle
composizioni originali dei Mokadelic.
Valutazione d’insieme e scena finale
Insomma,
un film ben costruito dal punto di vista della dinamica scenica, molto
ambizioso nel suo tentativo di sintetizzare il volto reale del sistema partendo
dal punto di vista di una minoranza molto specifica (i celerini veri e propri,
quelli in divisa e con i manganelli e non i poliziotti assegnati ad altre
funzioni, i loro superiori o i loro «datori di lavoro»). È dotato di un suo
ritmo (che ben si confà al crescendo delle scene spettacolari di violenza per le
quali non sembra esservi compiacimento nelle inquadrature o nei movimenti della
camera) e di una buona ambientazione. È inquietante e psicologicamente
sgradevole quel tanto che basta per non ridurlo a un puro subprodotto
dell’industria paraculturale o della società dello spettacolo. Gli va anche
reso merito di non essere incappato nelle panie del politically correct,
dimostrandosi in più di un’occasione politicamente scorretto verso la destra,
la sinistra, i giovani, le donne, gli immigrati e le forze dell’ordine. Verso
tutti e soprattutto verso il sistema della cui degenerazione presenta un quadro
impietoso e senza speranza. Un film eversivo sotto questo profilo, anche se non
è detto che questo aspetto sia facile da cogliere.
Infine, va
detto che per un film in cui le cadute di stile potevano affacciarsi ad ogni
momento, il livello qualitativo riesce a sostenersi abbastanza coerentemente.
Escludendo però la scena finale, in cui appare troppo felicemente ricomposto il
gruppo dei celerini «eroici», animati dall’ardore disperato (stile Mucchio selvaggio) su cui aveva sempre
insistito Cobra nel rapporto con la recluta Spina. Schierati nel piazzale
davanti alla piscina del Foro Italico (a pochi metri dallo stadio Olimpico e
dall’obelisco con scritto «Dux» di Mussolina, un’epigrafe che però non si
vede), si apprestano ad affrontare l’ultima carica degli alieni, vale a dire le
nere ombre con passamontagna (stile Black bloc) delle tifoserie organizzate,
per questa volta alleate tra loro e con le teste rasate (quelle protagoniste
del film omonimo di Claudio Fracasso del 1993).
Il regista
ce la mette tutta per far apparire questo manipolo di irriducibili difensori
dell’ordine costituito come un intrepido avamposto destinato al massacro, alla
stregua dei 300 delle Termopili
(regia di Zack Snyder, 2007) o i Seicento di Balaclava (Michael Curtiz, 1936;
Tony Richardson, 1968), senza contare i vari film col 7° Cavalleggeri a Little
Big Horn o gli intrepidi marines schierati controvento a Jiwo Jima. Questo
finale da «resa dei conti» metropolitana è un po’ retorico e ovviamente
irreale, perché anche i celerini scappano quando vedono la mala parata (lo
verificammo bene noi, i «trecento» di Valle Giulia quando li cacciammo dalla
facoltà di Architettura il primo marzo del 1968, prima però di scappare a
nostra volta quando li vedemmo tornare in forze).
Rimane il
dubbio, tuttavia, che quella scena da finale western classico sia volutamente
retorica e finta, forse proprio per sdrammatizzare il decorso così cupo e
realistico del film, a ricordarci che in fondo si tratta pur sempre di cinema,
quindi di miti e di invenzioni. Se questa dev’essere la lettura giusta (e non
sarebbe nemmeno male, nel caso così fosse…), occorreva che il regista e gli
sceneggiatori lo facessero capire meglio, per evitare, come accade al momento,
che il finale sfoci nel ridicolo o nell’esaltazione militaresca dei «poveri»
celerini (forze del Bene) esposti in pochi all’imminente massacro da parte
delle preponderanti forze del Male: prospettiva poco credibile perché anche in
questa occasione i celerini riusciranno a prevalere, come sappiamo dalla
cronaca successiva agli scontri per l’uccisione del tifoso laziale Andrea
Sandri all’autogrill di Arezzo (11 novembre 2007) cui il film si riferisce.
E a
proposito di autogrill, va detto che è veramente insopportabile la continua e
ossessiva presenza della birra nei dialoghi e nelle scene, frutto ovviamente di
un accordo pubblicitario che porta il film a produrre situazioni goffe in cui
anche il più ingenuo spettatore si rende conto che quel tratto di sceneggiatura
è stato piegato all’accordo commerciale (per es. quando la recluta si rifiuta
sulle prime di bere la birra offertagli da Cobra dopo essere stato vittima del
nonnismo del suo gruppo che lo ha quasi soffocato con un candelotto fumogeno).
Protagonista: la violenza metropolitana
Fin qui si
è parlato di attori, scene e situazioni filmiche, ma la vera protagonista di
quest’opera di un esordiente e promettente regista è certamente la violenza, in modo particolare la violenza metropolitana. Che qui viene
osservata dal punto di vista di alcuni celerini (e non di agenti in servizio di
polizia o detectives come si diceva poc’anzi), ma restando pur sempre
all’interno di una tradizione filmica che soprattutto negli Usa ha visto sfornare
in forma massiccia opere dedicate al tema: si pensi a quanta violenza abbiamo
osservato attraverso gli occhi di sceriffi buoni, cattivi o così così, agenti
di Pinkerton, della Cia, del Fbi, tenenti o poliziotti semplici (in servizio
generalmente a New York, Los Angeles o Chicago) anch’essi buoni, cattivi o così
così. Senza dimenticare tutta la vasta gamma di squadre anticrimine, agenti
speciali, giustizieri in proprio o guerrieri della notte, da Gene Hackman a
Charles Bronson, sconfinando a volte anche nella fantascienza (tra i tanti,
Will Smith, in Io sono leggenda di
Francis Lawrence, del 2007). Con una sola ma fondamentale differenza rispetto
al film di Sollima e più in generale al genere poliziesco italiano: si trattava quasi sempre e vistosamente di
«cinema», cioè trasposizioni filmiche di miti, leggende (anche metropolitane)
più o meno accreditate, romanzi e fictions, in cui il contesto surreale o
paradossale doveva prepare l’immancabile finale contrassegnato dalla vittoria
del Bene sul Male (per trovarne uno in cui accada il contrario, cioè che sul
terreno della violenza il Male vinca sul Bene, bisogna veramente andare a
spulciare gli archivi delle cineteche, per imbattersi nei Cancelli del cielo di Michael Cimino (1981), o in un tristissimo
crepuscolare western di Sergio Corbucci (Il grande silenzio,1968).
Il film di
Sollima, abbiamo già detto, non ha intenzioni mitopoietiche, non inventa nulla,
ma vuole denunciare più o meno crudamente (in termini relativi, dipendenti dal
punto in cui si colloca l’osservatore e dalla sua fede politica) la violenza
che da ogni parte scuote la nostra vita quotidiana e che gli scontri fisici tra
celerini e dimostranti vari simbolizzano egregiamente: la violenza (quella fisica anche se istituzionale) come chiave di lettura della degenerazione
del sociale. Idea non nuova, ma sempre attuale e potenzialmente ricca di
spunti politici e teorici.
Alla fine
del film non trionfa nessuno, né il Bene né il Male, perdiamo tutti: e questo
fatto può già prestarsi a una critica politica, tenuto conto dell’intenzione
del regista di presentare una visione realistica della violenza. Perché non ci
sono dubbi che nella nostra società (atteniamoci per ora all’Italia, ma il
discorso vale ovunque, anche se in gradi maggiori o minori) trionfano
regolarmente il Male, la sopraffazione, l’omertà e l’assassinio, l’asservimento
dei più deboli da parte dei più forti, sempre e con rare eccezioni. Ciò vale da
secoli, se si escludono i brevi interludi insurrezionali, se non proprio
rivoluzionari, che però si sono sempre dimostrati portatori a loro volta di
altro Male e di altre violenze (nella Russia del soffocamento dei soviet ne
avemmo un esempio da manuale).
E non
trionfa solo il Male di chi dirige l’economia o la religione o la cultura, ma
anche il Male di chi ruba dall’interno della casta politica, uccide i
magistrati scomodi, depista le indagini sugli attentati terroristici, viola in
continuazione le leggi (si pensi all’attuale presidente della Repubblica Napolitano e all’art. 11 della
Costituzione sul ripudio delle guerre «come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali»), massacra i manifestanti a Napoli nel 2001
(governo di centrosinistra) e poi a Genova (governo di centrodestra), fa morire
i vari Stefano Cucchi in carcere (come accadde al povero geometra il 22 ottobre
del 2009), per non dimenticare l’uccisione diretta ed esplicita dell’anarchico
Giuseppe Pinelli, dei tanti militanti (di sinistra, ma a volte anche di destra)
o dei tanti non-militanti colpevoli solo di non essersi fermati a un segnale di
alt (come l’ennesima vittima di pochi giorni or sono, un immigrato cileno,
disarmato e privo di permesso di soggiorno, cui l’agente ha sparato alla
schiena). La lista è lunghissima, soprattutto a partire da quando la legge
Reale (votata dall’intera casta politica nel 1975 - Pci in prima fila -
concesse alle forze dell’ordine la licenza di sparare e uccidere a vista).
Altro che sospensione alla pari della lotta tra il Bene e il Male! Di tutti
questi assassinii di Stato non sono stati identificati quasi mai i colpevoli
oppure, se identificati, sono stati in genere assolti oppure condannati a pene
irrisorie poi subito annullate appena passata la buriana dell’opinione
pubblica.
Il cinema
ci fa sognare proprio perché ci rappresenta in continuazione il contrario della
realtà, vale a dire la vittoria del Bene sul Male: un fatto questo impensabile
nelle nostre società capitalistiche (per non parlare di quelle dominate da
caste burocratiche staliniane o ex staliniane). Da questa trasformazione in
immagini di un sogno che certamente alberga nelle fantasie di quasi tutto il
genere umano - e cioè che il Bene vinca sul Male e che la Pace vinca sulla
Violenza - dipende certamente la principale ragione di successo del mezzo
cinematografico su scala mondiale, vista la facilità (per quanto effimera) con
cui esso consente di fuggire dalla realtà e rifugiarsi nel mondo dei sogni. E
poiché lo ha fatto inizialmente solo con le immagini in bianco e nero ma in
movimento, poi con il sonoro, poi a colori, ora a tre dimensioni, domani con
chissà quale altro marchingegno interattivo, neanche l’illusione religiosa alla
lunga potrà vincere la concorrenza su questo terreno (cioè la produzione e la
distribuzione dei sogni). Anche per questo la Musa del cinema non accenna ad
entrare in declino e chissà dove è destinata ad arrivare…
Ebbene, il
fatto che nel corso del film di Sollima e nella conclusione non vinca nessuno,
non solo non corrisponde alla realtà possibile o ipotizzabile, ma impedisce di
sognare un esito favorevole per la parte in cui lo spettatore s’identifica. Di
qui le «comprensibili» critiche di parte piovute addosso al film, da «destra» e
da «sinistra». Di qui la lista delle cose o degli episodi di violenza non
citati che portano inevitabilmente, da un lato, a una prima conclusione di
parte: il film sarebbe favorevole alle forze dell’ordine perché non cita questa
o quella loro vittima (ma c’è anche chi ha il coraggio di dire che il film non
parla del G-8 di Genova, nonostante la quantità di riferimenti, la confessione
dei sensi di colpa di Cobra e Mazinga e la coincidenza simbolica ma casuale del
nome della caserma Diaz con piazza Maresciallo Diaz - che sta effettivamente
vicino allo Stadio Olimpico, a poche centinaia di metri dal luogo in cui si
svolge la scena finale).
Oppure,
sul versante opposto, chi afferma che il film sarebbe troppo tenero con i moti
di piazza, con le angherie degli immigrati, con i giovani dalle teste rasate o
dei centri sociali (questi ultimi mai nominati, ma individuabili anonimamente in
una scena che li ridicolizza, oltre che sullo sfondo di parti della vicenda),
gli spacciatori o le tifoserie guerreggianti, visto che non cita questo o
quell’agente morto in servizio (beh, almeno uno lo cita, salvando la par
condicio) e non mostrerebbe quante difficoltà gli agenti incontrino ogni volta
che si mettono veramente a spaccare le teste.
Scala di valori e disvalori nella rappresentazione
della violenza
Forse è
vero che esaminando il film con attenzione emerge un trattamento lievemente più
condiscendente verso le violenze della polizia che verso quelle
dell’antipolizia. Ma il divario è minimo e francamente mi sembra del tutto
privo d’interesse. Fa parte del meccanismo filmico il fatto quasi naturale che
quando s’indaga cinematograficamente su personaggi o personalità storiche,
anche le peggiori, più disumane ed efferate (persino per degli psicopatici
sadici e crudeli come Stalin o Hitler) il regista finisca per trovare qualcosa
di umano anche in loro. Magari sarà pure vero, ma il peso di quei tratti umani,
per la forza stessa delle immagini sullo schermo, finisce con l’acquistare una
valenza spropositata rispetto ai crimini effettivamente compiuti.
In questo
genere di trappola è caduto di recente anche un grande regista come Clint
Eastwood nella sua infelice ricostruzione della biografia del più grande
esponente storico della criminalità poliziesca-istituzionale in campo
capitalistico non-nazista: Hoover, il capo intramontabile del Fbi (Edgar, 2011). Per ignoranza o autentica
convinzione ne viene presentato nell’interpretazione un po’ sopra le righe di
Leonardo De Caprio un ritratto fatto di mezze tinte chiaroscurali tra
assassinii o nefandezze (che furono molte, importanti e protratte per decenni
decisivi della vita statunitense) e punti di merito (enormi per la borghesia
imperialistica degli Usa, ma storicamente inconsistenti per le classi
subalterne o comunque insignificanti rispetto ai crimini compiuti).
Va
segnalato invece un piano di lettura sul tema della violenza proposto nel film
di Sollima che non è scontato e non è usuale, e comunque non è stato colto da
nessuna delle riflessioni che ho letto, soprattutto nei commenti da parte di
«kompagni» duri e puri, che hanno visto nel film una generale sottovalutazione
della reale estensione della violenza istituzionale e si sono precipitati ad
elencare tutti i riferimenti più atroci che nel film non trovano spazio. In
realtà non si sono accorti, costoro, che nel film non tutto è uguale o
appiattito al discorso della violenza tout court, cioè dura e pura e
indifferente alla natura dell’oggetto vittima. Esaminando attentamente lo
sviluppo drammaturgico del film e partendo dall’inizio si può riuscire a
cogliere una sorta di graduatoria nel
modo in cui il gruppo dei centurioni affronta e valuta la violenza delle
controparti.
Per la
durata di tempo concessa alle scene, per la sequenza delle riprese, per lo
stato d’animo manifestato dal trio in questione, si capisce che essi
considerano la violenza degli operai che manifestano meno grave di quella degli
sfrattati. Questa la considerano meno grave della violenza degli
extracomunitari che sporcano, spacciano o si prostituiscono. Questa meno grave
di chi è in fondo animato da intenti più o meno politici (nazifascisti, teste
rasate, kompagni - senza grandi distinzioni). E questa meno grave della
bestialità di branco negli stadi, alla quale vengono dedicate le sequenze più
lunghe e più drammatiche del film (compresi gli episodi della coltellata a
Mazinga e della spedizione punitiva a simbolica rievocazione della Diaz
genovese). Fuori scena viene citato anche un caso di stupro.
Con un
linguaggio cinematografico non molto facile da percepire, Sollima ci presenta
una sorta di gerarchia di disvalori, mano a mano che scende dantescamente nella
spirale della violenza gratuita, per toccare il fondo - l’inferno delle
tifoserie violente - nel buio delle tenebre in cui si svolge la scena finale.
Nella scala di valori e disvalori con cui il film condanna inequivocabilmente
ogni genere di violenza - istituzionale e non - non c’è dubbio che la violenza
gratuita e ingiustificata delle tifoserie viene collocata al gradino più
infimo.
Un
discorso complicato, questa delle gerarchie dei valori e disvalori violenti,
che in campo saggistico affronterei (che, anzi, ho affrontato più volte, a
partire soprattutto dal mio libro sul Terrorismo
del 1978-79) con altri strumenti. Ma sul terreno cinematografico non posso non
provare simpatia per il regista che ci ha almeno provato, senza riuscire
veramente a convincere.
Avrei
accettato anche un film che non avesse proposto questa sorta di scala della
violenza (al vertice quella operaia, al fondo quella degli stadi): in quanto
tale essa non rientra nelle finalità dichiarate del film e sicuramente non è
alla portata del celerino medio che per deformazione mentale, per istinto di
sopravvivenza o per prassi acquisita, quando colpisce non sta tanto a
distinguere tra l’operaio e il tifoso. Mena e ammazza secondo gli ordini
ricevuti dall’alto, espliciti o sussurrati a mezzo voce. E a chi tocca, tocca.
Che poi goda di più o di meno in questa impresa sadomasochistica con cui ha
deciso di guadagnarsi da vivere, è un problema suo, individuale e per noi
imperscrutabile. Il linguaggio del cinema può tentare (Sollima lo ha fatto) di
trasmetterci delle sensazioni o delle intuizioni, ma cosa il celerino pensi
veramente mentre picchia, massacra o ammazza sarà sempre difficilmente
analizzabile in termini statistici, di psicologia scientifica del
comportamento.
La scala
dei valori e disvalori comunque esiste, anche se non è facilmente percettibile
e ciò rende il film politicamente accettabile anche a ciò che un tempo veniva
chiamata «la sinistra»: è quindi proiettabile in sedi Anpi, Arci e centri
sociali.
Se Sollima
avrà mai occasione di leggere questo mio testo, vorrei raccomandargli di
pensare per il futuro a un film su cosa potrebbe diventare lo stesso gruppo di
centurioni una decina di anni dopo. Io posso immaginare alcuni sviluppi, altri
sono ipotizzabili. Ma spetterebbe a lui fornirne una rappresentazione da sequel
cinematografico, favorita anche dal fatto che la violenza poliziesca e la
controviolenza di chi vi si oppone – a torto o a ragione – è destinata a
protrarsi come male endemico e valvola di sfogo allo stesso tempo finché
esisterà la società del capitale. Potranno cambiare, però, le forme di questa
violenza in un senso più «civile» e meglio compatibile con le esigenze della
società dello spettacolo.
19 febbraio 2012
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