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martedì 21 febbraio 2012

IL FILM «ACAB» E LA VIOLENZA METROPOLITANA, di Roberto Massari

ACAB di Stefano Sollima (tratto dall’omonimo romanzo-inchiesta di Carlo Bonini – Einaudi 2009, sceneggiato da Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Valenti) ha molti meriti: non ultimo di aver posto all’attenzione del grande pubblico il tema della violenza istituzionale in maniera scoperta (brutale?) e di aver costretto ambienti tra loro distanti anni-luce a discutere dei contenuti del film. E ciò perché si sono sentiti chiamare in causa, per una ragione o per un’altra: dalla magistratura alle forze «di base» dell’apparato repressivo, dalle varie categorie vittime della violenza poliziesca alle varie categorie impegnate ad esercitare una violenza contropoliziesca o fine a se stessa, oltre al mondo della casta politica (sia pur marginalmente e non per il tema della violenza): tutti più o meno direttamente tirati in ballo.
Ed è proprio dei contenuti del film che mi accingo a discutere anch’io (nella seconda parte di questa presentazione), non tralasciando di premettere però una banalità che viene dimenticata spesso e volentieri da parte di chi non segue per ragioni professionali le vicende del cinema: e cioè che il giudizio su un qualsiasi film dev’essere in primo luogo fondato su una valutazione cinematografica, da intendersi nel senso pieno del termine. Deve cioè evidenziare i tratti salienti 1) del rapporto che viene proposto tra la forma espressiva caratteristica dello strumento cinema e i suoi contenuti, 2) del modo in cui si realizza la combinazione tra i vari elementi che compongono l’opera (dalla recitazione alla fotografia, dalla sceneggiatura alla musica, dall’ambientazione al sonoro ecc.), 3) della comunicazione che si potrà stabilire con il pubblico. Aggiungendo magari considerazioni specifiche che possono dipendere 4) dal contesto geoculturale in cui il film è stato prodotto e soprattutto 5) dal genere in cui esso si colloca: western, musical, commedia americana, giallo, fantascienza, animazione ecc. Il tutto con l’obiettivo di stabilire quali corde della nostra sensibilità o emotività il film riesce a far vibrare e quindi a che titolo lo si può considerare espressione artistica nel campo di quella specifica forma d’arte moderna, realmente contemporanea e sempre più futuribile che è per l’appunto il cinema (l’unica Musa - con l’eccezione anch’essa «vistosa» e visuale dell’Architettura - che sembra ancora godere di buona salute e non destinata ad entrare per ora in crisi epocale, a mio personale e poco modesto modo di vedere).
Alcuni critici sono andati a riscoprire nel film di Stefano Sollima i cromosomi trasmessi geneticamente dall’opera filmica del padre Sergio - il bravo confezionatore di film western negli anni del d.S.L. (dopo Sergio Leone), come l’indimenticabile Resa dei conti del 1967 - poi assorbito nei meandri della produzione cinetelevisiva. Magari sarà vero, ma in un senso per ora non evidente e tutto da dimostrare.

Il genere filmico
E comunque, anche solo per inserire ACAB in un genere filmico, s’incontrano alcune difficoltà: si tratta, infatti, di un film in primo luogo politico e di denuncia (con dichiarati scopi protestatari e didascalici, una sorta di manifesto antirepressivo del dopo-Genova 2001), facilmente riconducibile alla tradizione filmica di Giuseppe Ferrara; certamente di attualità (almeno per noi cittadini italiani, perché in Iran, in Cina, nell’Argentina dei generali o in tanti altri Paesi del mondo attuale il grado di violenza espressa in questo film farebbe solo tenerezza); con un forte orientamento documentaristico. Peraltro un film poliziesco, non del genere giallo (detective story), ma del genere effettivamente «poliziesco», centrato sul lato oscuro della forza o meglio delle forze… dell’ordine.
Un genere molto italiano che è fiorito dagli anni ’70 in poi a partire da un capolavoro come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri del 1970 - prodotto sulla scia della più grande insorgenza di massa antisistemica e anticapitalistica conosciuta da questo Paese - per calare via via di tono e lucidità politica, ma crescendo in efferatezze sceniche con tutta la serie dei commissari cinici o arroganti, dei film sulla polizia che spara o non spara, da Franco Nero a Tomas Milian, arrivando agli odierni film sulle bande periferiche dell’Urbe, i romanzi criminali, il dopo-Genova, le crisi d’identità degli esponenti delle tante branche di polizia e corpi speciali di cui è purtroppo ampiamente dotata l’Italia. Non dimenticherei a questo riguardo – come più significativo precedente del film di Sollima - la contraddittoria figura del celerino-suicida Matteo, creato dalla magnifica sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano Rulli per La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana del 2003.
Insisto sul carattere «documentaristico» del film (senza per questo considerarlo un demerito, vista la grande tradizione cinematografica in primo luogo statunitense che esiste in questo genere) per l’ispirazione generale della sceneggiatura (tratta del resto da un romanzo-inchiesta), per i continui rinvii all’attualità, per gli espliciti riferimenti a fatti di cronaca realmente accaduti, per le scelte operate in fase di montaggio (volte a privilegiare determinate sequenze facilmente riconducibili a vicende note o comunque verosimili, a discapito dell’invenzione narrativa), per la precisione e la verosimiglianza nella scelta dei veicoli di servizio o delle divise, per la precisa identificazione dei luoghi e dei contesti, e infine e soprattutto per la trama.

Trama esile e intermittente
Esile, incerta e intermittente, è volutamente tale per non distogliere lo spettatore dal discorso fondativo del film, su cui torneremo parlando dei contenuti. Essa sembra fungere da pretesto, quasi una traccia per il collegamento di una serie di quadri, secondo una procedura a tratti anche ingenua. Nelle vite private o negli intervalli non-lavorativi e quindi non-polizieschi di questi centurioni della notte, si affacciano temi abbastanza prevedibili: lo sfratto incombente sulla madre dell’unico celerino semionesto (o meglio, semietico, ma solo perché giovane, inesperto e transfuga dal mondo degli skinheads - Domenico Diele); lo stereotipo abusato della mulatta cubana italianizzata (Eradis Josende Oberto) che mette in strada l’incauto marito (Filippo Nigro); l’incomunicabilità del padre (di destra - Marco Giallini) in conflitto con il figlio impegnato nella destra nazifascista (Eugenio Mastrandrea), a sua volta giustificato se non proprio coccolato dalla madre, anch’essa poliziotta (Roberta Spagnuolo); la fissazione per le diete ipocaloriche e il mantenimento della forma fisica dell’ex celerino un po’ psicopatico (Andrea Sartoretti); il conflitto interiore e le autoassoluzioni di Cobra (Pierfrancesco Favino, qui perfetto per la parte ombrosa assegnatagli); il cameratismo da palestra tra maschi; i valori (o disvalori) della solidarietà di gruppo, dell’amicizia ridotta di fatto a omertà, volutamente formulati come luoghi comuni e falsamente retorici per mostrarne la loro inconsistenza nella più generale degenerazione della società attuale ecc.
Tanti quadri o bozzetti che fanno da intermezzi per le sezioni fondamentali del film che ne costituiscono la vera trama, con maggiore o minore continuità a seconda dei ritmi del montaggio: vale a dire le scene di violenza, di massa e non, in esterni o in interni, giuste o ingiuste, di parte o di… altra parte, secondo una catalogazione «quasi politica» della loro importanza sulla quale torneremo tra breve. Aggiungendo che l’intera vicenda è avvolta in un’atmosfera complessivamente caratterizzata da una dose fortissima (spropositata? indispensabile?) di realismo, facilitata dall’utilizzo della parlata romanesca (o, più esattamente, della calata romano-coattesca in auge tra le nuove leve metropolitane), dalla facile identificazione dei luoghi cittadini, dalle citazioni di cronaca giornalistica, dal frequente ricorso ai telegiornali come voci narranti.
Personalmente, come romano doc cresciuto in gioventù politica e negli anni ’60-‘70 con una corposa pratica di scontri di strada con i cellerini (si raccomanda la doppia l) a partire dal 1966 fino a Genova 2001, non ho faticato a ritrovarmi in alcune immagini anche crude del film. Esse hanno risvegliato ricordi (potenza del mezzo filmico!) e riflessioni sull’effettiva utilità di quegli scontri (di cui dirò in altra occasione…).
L’insieme del film è stato pensato in un contesto sonoro volutamente ossessivo in alcune sue parti,  fatto di rumori urbani o di risonanza in interni, con tanta musica dura e rock internazionale oltre alle composizioni originali dei Mokadelic.

Valutazione d’insieme e scena finale
Insomma, un film ben costruito dal punto di vista della dinamica scenica, molto ambizioso nel suo tentativo di sintetizzare il volto reale del sistema partendo dal punto di vista di una minoranza molto specifica (i celerini veri e propri, quelli in divisa e con i manganelli e non i poliziotti assegnati ad altre funzioni, i loro superiori o i loro «datori di lavoro»). È dotato di un suo ritmo (che ben si confà al crescendo delle scene spettacolari di violenza per le quali non sembra esservi compiacimento nelle inquadrature o nei movimenti della camera) e di una buona ambientazione. È inquietante e psicologicamente sgradevole quel tanto che basta per non ridurlo a un puro subprodotto dell’industria paraculturale o della società dello spettacolo. Gli va anche reso merito di non essere incappato nelle panie del politically correct, dimostrandosi in più di un’occasione politicamente scorretto verso la destra, la sinistra, i giovani, le donne, gli immigrati e le forze dell’ordine. Verso tutti e soprattutto verso il sistema della cui degenerazione presenta un quadro impietoso e senza speranza. Un film eversivo sotto questo profilo, anche se non è detto che questo aspetto sia facile da cogliere.
Infine, va detto che per un film in cui le cadute di stile potevano affacciarsi ad ogni momento, il livello qualitativo riesce a sostenersi abbastanza coerentemente. Escludendo però la scena finale, in cui appare troppo felicemente ricomposto il gruppo dei celerini «eroici», animati dall’ardore disperato (stile Mucchio selvaggio) su cui aveva sempre insistito Cobra nel rapporto con la recluta Spina. Schierati nel piazzale davanti alla piscina del Foro Italico (a pochi metri dallo stadio Olimpico e dall’obelisco con scritto «Dux» di Mussolina, un’epigrafe che però non si vede), si apprestano ad affrontare l’ultima carica degli alieni, vale a dire le nere ombre con passamontagna (stile Black bloc) delle tifoserie organizzate, per questa volta alleate tra loro e con le teste rasate (quelle protagoniste del film omonimo di Claudio Fracasso del 1993).
Il regista ce la mette tutta per far apparire questo manipolo di irriducibili difensori dell’ordine costituito come un intrepido avamposto destinato al massacro, alla stregua dei 300 delle Termopili (regia di Zack Snyder, 2007) o i Seicento di Balaclava (Michael Curtiz, 1936; Tony Richardson, 1968), senza contare i vari film col 7° Cavalleggeri a Little Big Horn o gli intrepidi marines schierati controvento a Jiwo Jima. Questo finale da «resa dei conti» metropolitana è un po’ retorico e ovviamente irreale, perché anche i celerini scappano quando vedono la mala parata (lo verificammo bene noi, i «trecento» di Valle Giulia quando li cacciammo dalla facoltà di Architettura il primo marzo del 1968, prima però di scappare a nostra volta quando li vedemmo tornare in forze).
Rimane il dubbio, tuttavia, che quella scena da finale western classico sia volutamente retorica e finta, forse proprio per sdrammatizzare il decorso così cupo e realistico del film, a ricordarci che in fondo si tratta pur sempre di cinema, quindi di miti e di invenzioni. Se questa dev’essere la lettura giusta (e non sarebbe nemmeno male, nel caso così fosse…), occorreva che il regista e gli sceneggiatori lo facessero capire meglio, per evitare, come accade al momento, che il finale sfoci nel ridicolo o nell’esaltazione militaresca dei «poveri» celerini (forze del Bene) esposti in pochi all’imminente massacro da parte delle preponderanti forze del Male: prospettiva poco credibile perché anche in questa occasione i celerini riusciranno a prevalere, come sappiamo dalla cronaca successiva agli scontri per l’uccisione del tifoso laziale Andrea Sandri all’autogrill di Arezzo (11 novembre 2007) cui il film si riferisce.
E a proposito di autogrill, va detto che è veramente insopportabile la continua e ossessiva presenza della birra nei dialoghi e nelle scene, frutto ovviamente di un accordo pubblicitario che porta il film a produrre situazioni goffe in cui anche il più ingenuo spettatore si rende conto che quel tratto di sceneggiatura è stato piegato all’accordo commerciale (per es. quando la recluta si rifiuta sulle prime di bere la birra offertagli da Cobra dopo essere stato vittima del nonnismo del suo gruppo che lo ha quasi soffocato con un candelotto fumogeno).

Protagonista: la violenza metropolitana
Fin qui si è parlato di attori, scene e situazioni filmiche, ma la vera protagonista di quest’opera di un esordiente e promettente regista è certamente la violenza, in modo particolare la violenza metropolitana. Che qui viene osservata dal punto di vista di alcuni celerini (e non di agenti in servizio di polizia o detectives come si diceva poc’anzi), ma restando pur sempre all’interno di una tradizione filmica che soprattutto negli Usa ha visto sfornare in forma massiccia opere dedicate al tema: si pensi a quanta violenza abbiamo osservato attraverso gli occhi di sceriffi buoni, cattivi o così così, agenti di Pinkerton, della Cia, del Fbi, tenenti o poliziotti semplici (in servizio generalmente a New York, Los Angeles o Chicago) anch’essi buoni, cattivi o così così. Senza dimenticare tutta la vasta gamma di squadre anticrimine, agenti speciali, giustizieri in proprio o guerrieri della notte, da Gene Hackman a Charles Bronson, sconfinando a volte anche nella fantascienza (tra i tanti, Will Smith, in Io sono leggenda di Francis Lawrence, del 2007). Con una sola ma fondamentale differenza rispetto al film di Sollima e più in generale al genere poliziesco italiano:  si trattava quasi sempre e vistosamente di «cinema», cioè trasposizioni filmiche di miti, leggende (anche metropolitane) più o meno accreditate, romanzi e fictions, in cui il contesto surreale o paradossale doveva prepare l’immancabile finale contrassegnato dalla vittoria del Bene sul Male (per trovarne uno in cui accada il contrario, cioè che sul terreno della violenza il Male vinca sul Bene, bisogna veramente andare a spulciare gli archivi delle cineteche, per imbattersi nei Cancelli del cielo di Michael Cimino (1981), o in un tristissimo crepuscolare western di Sergio Corbucci (Il grande silenzio,1968).
Il film di Sollima, abbiamo già detto, non ha intenzioni mitopoietiche, non inventa nulla, ma vuole denunciare più o meno crudamente (in termini relativi, dipendenti dal punto in cui si colloca l’osservatore e dalla sua fede politica) la violenza che da ogni parte scuote la nostra vita quotidiana e che gli scontri fisici tra celerini e dimostranti vari simbolizzano egregiamente: la violenza (quella fisica anche se istituzionale) come chiave di lettura della degenerazione del sociale. Idea non nuova, ma sempre attuale e potenzialmente ricca di spunti politici e teorici.
Alla fine del film non trionfa nessuno, né il Bene né il Male, perdiamo tutti: e questo fatto può già prestarsi a una critica politica, tenuto conto dell’intenzione del regista di presentare una visione realistica della violenza. Perché non ci sono dubbi che nella nostra società (atteniamoci per ora all’Italia, ma il discorso vale ovunque, anche se in gradi maggiori o minori) trionfano regolarmente il Male, la sopraffazione, l’omertà e l’assassinio, l’asservimento dei più deboli da parte dei più forti, sempre e con rare eccezioni. Ciò vale da secoli, se si escludono i brevi interludi insurrezionali, se non proprio rivoluzionari, che però si sono sempre dimostrati portatori a loro volta di altro Male e di altre violenze (nella Russia del soffocamento dei soviet ne avemmo un esempio da manuale).
E non trionfa solo il Male di chi dirige l’economia o la religione o la cultura, ma anche il Male di chi ruba dall’interno della casta politica, uccide i magistrati scomodi, depista le indagini sugli attentati terroristici, viola in continuazione le leggi (si pensi all’attuale presidente della  Repubblica Napolitano e all’art. 11 della Costituzione sul ripudio delle guerre «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), massacra i manifestanti a Napoli nel 2001 (governo di centrosinistra) e poi a Genova (governo di centrodestra), fa morire i vari Stefano Cucchi in carcere (come accadde al povero geometra il 22 ottobre del 2009), per non dimenticare l’uccisione diretta ed esplicita dell’anarchico Giuseppe Pinelli, dei tanti militanti (di sinistra, ma a volte anche di destra) o dei tanti non-militanti colpevoli solo di non essersi fermati a un segnale di alt (come l’ennesima vittima di pochi giorni or sono, un immigrato cileno, disarmato e privo di permesso di soggiorno, cui l’agente ha sparato alla schiena). La lista è lunghissima, soprattutto a partire da quando la legge Reale (votata dall’intera casta politica nel 1975 - Pci in prima fila - concesse alle forze dell’ordine la licenza di sparare e uccidere a vista). Altro che sospensione alla pari della lotta tra il Bene e il Male! Di tutti questi assassinii di Stato non sono stati identificati quasi mai i colpevoli oppure, se identificati, sono stati in genere assolti oppure condannati a pene irrisorie poi subito annullate appena passata la buriana dell’opinione pubblica.
Il cinema ci fa sognare proprio perché ci rappresenta in continuazione il contrario della realtà, vale a dire la vittoria del Bene sul Male: un fatto questo impensabile nelle nostre società capitalistiche (per non parlare di quelle dominate da caste burocratiche staliniane o ex staliniane). Da questa trasformazione in immagini di un sogno che certamente alberga nelle fantasie di quasi tutto il genere umano - e cioè che il Bene vinca sul Male e che la Pace vinca sulla Violenza - dipende certamente la principale ragione di successo del mezzo cinematografico su scala mondiale, vista la facilità (per quanto effimera) con cui esso consente di fuggire dalla realtà e rifugiarsi nel mondo dei sogni. E poiché lo ha fatto inizialmente solo con le immagini in bianco e nero ma in movimento, poi con il sonoro, poi a colori, ora a tre dimensioni, domani con chissà quale altro marchingegno interattivo, neanche l’illusione religiosa alla lunga potrà vincere la concorrenza su questo terreno (cioè la produzione e la distribuzione dei sogni). Anche per questo la Musa del cinema non accenna ad entrare in declino e chissà dove è destinata ad arrivare…
Ebbene, il fatto che nel corso del film di Sollima e nella conclusione non vinca nessuno, non solo non corrisponde alla realtà possibile o ipotizzabile, ma impedisce di sognare un esito favorevole per la parte in cui lo spettatore s’identifica. Di qui le «comprensibili» critiche di parte piovute addosso al film, da «destra» e da «sinistra». Di qui la lista delle cose o degli episodi di violenza non citati che portano inevitabilmente, da un lato, a una prima conclusione di parte: il film sarebbe favorevole alle forze dell’ordine perché non cita questa o quella loro vittima (ma c’è anche chi ha il coraggio di dire che il film non parla del G-8 di Genova, nonostante la quantità di riferimenti, la confessione dei sensi di colpa di Cobra e Mazinga e la coincidenza simbolica ma casuale del nome della caserma Diaz con piazza Maresciallo Diaz - che sta effettivamente vicino allo Stadio Olimpico, a poche centinaia di metri dal luogo in cui si svolge la scena finale).
Oppure, sul versante opposto, chi afferma che il film sarebbe troppo tenero con i moti di piazza, con le angherie degli immigrati, con i giovani dalle teste rasate o dei centri sociali (questi ultimi mai nominati, ma individuabili anonimamente in una scena che li ridicolizza, oltre che sullo sfondo di parti della vicenda), gli spacciatori o le tifoserie guerreggianti, visto che non cita questo o quell’agente morto in servizio (beh, almeno uno lo cita, salvando la par condicio) e non mostrerebbe quante difficoltà gli agenti incontrino ogni volta che si mettono veramente a spaccare le teste.

Scala di valori e disvalori nella rappresentazione della violenza
Forse è vero che esaminando il film con attenzione emerge un trattamento lievemente più condiscendente verso le violenze della polizia che verso quelle dell’antipolizia. Ma il divario è minimo e francamente mi sembra del tutto privo d’interesse. Fa parte del meccanismo filmico il fatto quasi naturale che quando s’indaga cinematograficamente su personaggi o personalità storiche, anche le peggiori, più disumane ed efferate (persino per degli psicopatici sadici e crudeli come Stalin o Hitler) il regista finisca per trovare qualcosa di umano anche in loro. Magari sarà pure vero, ma il peso di quei tratti umani, per la forza stessa delle immagini sullo schermo, finisce con l’acquistare una valenza spropositata rispetto ai crimini effettivamente compiuti.
In questo genere di trappola è caduto di recente anche un grande regista come Clint Eastwood nella sua infelice ricostruzione della biografia del più grande esponente storico della criminalità poliziesca-istituzionale in campo capitalistico non-nazista: Hoover, il capo intramontabile del Fbi (Edgar, 2011). Per ignoranza o autentica convinzione ne viene presentato nell’interpretazione un po’ sopra le righe di Leonardo De Caprio un ritratto fatto di mezze tinte chiaroscurali tra assassinii o nefandezze (che furono molte, importanti e protratte per decenni decisivi della vita statunitense) e punti di merito (enormi per la borghesia imperialistica degli Usa, ma storicamente inconsistenti per le classi subalterne o comunque insignificanti rispetto ai crimini compiuti).
Va segnalato invece un piano di lettura sul tema della violenza proposto nel film di Sollima che non è scontato e non è usuale, e comunque non è stato colto da nessuna delle riflessioni che ho letto, soprattutto nei commenti da parte di «kompagni» duri e puri, che hanno visto nel film una generale sottovalutazione della reale estensione della violenza istituzionale e si sono precipitati ad elencare tutti i riferimenti più atroci che nel film non trovano spazio. In realtà non si sono accorti, costoro, che nel film non tutto è uguale o appiattito al discorso della violenza tout court, cioè dura e pura e indifferente alla natura dell’oggetto vittima. Esaminando attentamente lo sviluppo drammaturgico del film e partendo dall’inizio si può riuscire a cogliere una sorta di graduatoria nel modo in cui il gruppo dei centurioni affronta e valuta la violenza delle controparti.
Per la durata di tempo concessa alle scene, per la sequenza delle riprese, per lo stato d’animo manifestato dal trio in questione, si capisce che essi considerano la violenza degli operai che manifestano meno grave di quella degli sfrattati. Questa la considerano meno grave della violenza degli extracomunitari che sporcano, spacciano o si prostituiscono. Questa meno grave di chi è in fondo animato da intenti più o meno politici (nazifascisti, teste rasate, kompagni - senza grandi distinzioni). E questa meno grave della bestialità di branco negli stadi, alla quale vengono dedicate le sequenze più lunghe e più drammatiche del film (compresi gli episodi della coltellata a Mazinga e della spedizione punitiva a simbolica rievocazione della Diaz genovese). Fuori scena viene citato anche un caso di stupro.
Con un linguaggio cinematografico non molto facile da percepire, Sollima ci presenta una sorta di gerarchia di disvalori, mano a mano che scende dantescamente nella spirale della violenza gratuita, per toccare il fondo - l’inferno delle tifoserie violente - nel buio delle tenebre in cui si svolge la scena finale. Nella scala di valori e disvalori con cui il film condanna inequivocabilmente ogni genere di violenza - istituzionale e non - non c’è dubbio che la violenza gratuita e ingiustificata delle tifoserie viene collocata al gradino più infimo.
Un discorso complicato, questa delle gerarchie dei valori e disvalori violenti, che in campo saggistico affronterei (che, anzi, ho affrontato più volte, a partire soprattutto dal mio libro sul Terrorismo del 1978-79) con altri strumenti. Ma sul terreno cinematografico non posso non provare simpatia per il regista che ci ha almeno provato, senza riuscire veramente a convincere.
Avrei accettato anche un film che non avesse proposto questa sorta di scala della violenza (al vertice quella operaia, al fondo quella degli stadi): in quanto tale essa non rientra nelle finalità dichiarate del film e sicuramente non è alla portata del celerino medio che per deformazione mentale, per istinto di sopravvivenza o per prassi acquisita, quando colpisce non sta tanto a distinguere tra l’operaio e il tifoso. Mena e ammazza secondo gli ordini ricevuti dall’alto, espliciti o sussurrati a mezzo voce. E a chi tocca, tocca. Che poi goda di più o di meno in questa impresa sadomasochistica con cui ha deciso di guadagnarsi da vivere, è un problema suo, individuale e per noi imperscrutabile. Il linguaggio del cinema può tentare (Sollima lo ha fatto) di trasmetterci delle sensazioni o delle intuizioni, ma cosa il celerino pensi veramente mentre picchia, massacra o ammazza sarà sempre difficilmente analizzabile in termini statistici, di psicologia scientifica del comportamento.
La scala dei valori e disvalori comunque esiste, anche se non è facilmente percettibile e ciò rende il film politicamente accettabile anche a ciò che un tempo veniva chiamata «la sinistra»: è quindi proiettabile in sedi Anpi, Arci e centri sociali.
Se Sollima avrà mai occasione di leggere questo mio testo, vorrei raccomandargli di pensare per il futuro a un film su cosa potrebbe diventare lo stesso gruppo di centurioni una decina di anni dopo. Io posso immaginare alcuni sviluppi, altri sono ipotizzabili. Ma spetterebbe a lui fornirne una rappresentazione da sequel cinematografico, favorita anche dal fatto che la violenza poliziesca e la controviolenza di chi vi si oppone – a torto o a ragione – è destinata a protrarsi come male endemico e valvola di sfogo allo stesso tempo finché esisterà la società del capitale. Potranno cambiare, però, le forme di questa violenza in un senso più «civile» e meglio compatibile con le esigenze della società dello spettacolo.

19 febbraio 2012

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