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lunedì 20 febbraio 2012

UN PRIMO APPROCCIO ALLA CRISI GRECA, di Pier Francesco Zarcone


Crisi dolorosissima sul piano umano, complessa dal punto di vista tecnico/economico e complicata per quanto riguarda le possibilità e modalità di uscita. Questo aspetto è ovviamente il più importante dal punto di vista politico.

La scelta peggiore fatta dalla Grecia
Un osservatore esterno, che conosca un po’ la storia greca, a far tempo dalla rivolta protottocentesca contro il dominio ottomano, non dovrebbe avere molte difficoltà a concludere che in epoca contemporanea la peggiore scelta effettuata dai governanti greci è stata la decisione di aderire all’euro. E i motivi si sprecano.
Innanzi tutto la creazione di una moneta unica senza le necessarie e fondamentali premesse politico/istituzionali, senza i meccanismi monetari per la sua difesa, in più nel quadro dell’ossessione bilancistica del neoliberalismo e del timor panico (soprattutto tedesco) per qualsiasi spinta inflazionistica, è metaforicamente paragonabile a un edificio dalle fondamenta “così così” che abbia subìto una sopraelevazione di pesantezza rilevante. Gli scricchiolii saranno fisiologici e il finale crollo pure. Tutto questo era noto – basti ricordare gli ammonimenti inascoltati dell’ex Cancelliere tedesco Helmut Khol – ma evidentemente il mix fra interessi materiali e cecità ideologica era troppo forte per arrestarsi.

Nel caso della Grecia infilarsi nella complessa e fragile realtà dell’euro era cosa proprio da non fare a motivo della sedimentata situazione interna di questo paese che – spiace dirlo – è definibile solo in un modo, per usare una volta tanto gli stereotipi: balcanica.
Fin dall’indipendenza l’assetto interno greco è risultato squilibrato in maniera arcaica, politicamente ed economicamente. Il fatto che in politica, pur con il mutare dei nomi di battesimo, ricorrano sempre gli stessi cognomi – Karamanlís, Venizelos, Papandreu – è espressione della persistente egemonia di clan famigliari tali da ricordare le fittizie alternanze fra realtà similari che fra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novento ingessarono i sistemi politici iberici. Tutto questo è aggravato dalla conseguenze di lungo periodo delle due micidiali repressioni (dal 1944 con la guerra civile, e poi sotto la “macelleria” dei colonnelli) che nel secolo scorso hanno schiantato i partiti di sinistra (indipendentemente dal giudizio che se ne dia).
In aggiunta, il sistema politico ha generato – sul piano antropologico culturale – mancanza di senso civico, mancata percezione di cosa sia la “cosa comune” e sterili rissosità senza sbocchi. In siffatto contesto in Grecia la società produttiva (in senso lato) si presenta divisa in due nette fazioni, che possono solo fare del male al paese: a) coloro che vivono grazie al potere politico (impiegati pubblici e clientes partitici); b) quanti vivono sfuggendo al potere, cioè i soggetti attivi di un’economia sommersa che, secondo stime approssimative, equivarrebbe a 1/3 del Pil ellenico ed evade tasse e imposte alla grande. Per di più esiste un elevato grado di corruzione endemica (in Grecia non si parla di bustarella, ma di “pacchetto”, ma sempre di soldi si tratta).
Che da questo sistema sia potuta venire una colossale falsificazione dei conti pubblici (col governo di centrodestra di “Nuova Democrazia”), la cui scoperta ha inaugurato la crisi, diventa quasi “normale”, e in più ha dato ai severi censori del Nordeuropa (Germania, Olanda, Finlandia) la dimostrazione che i governanti greci e i loro governati erano rimasti ben lungi dal capire che l’andazzo non poteva più durare. Da qui anche il riemergere nei nostri nordici tutti di un pezzo (soprattutto a livello popolare) del complesso che a suo tempo aveva portato a teorizzare una herrenrasse (schiatta dei signori) contrapposta agli untermenschen (sottouomini) dell’Europa meridionale. L’arroganza e l’intento di umiliare con cui Berlino & C si sono rivolti finora alla Grecia mostra che quanto sopra non è un’esagerazione retorica.
Vero è che in Grecia si è fatto tutto il possibile per suscitare le ire del parsimonioso contribuente germanico e per attizzare indignate conversazioni innanzi a uno spumeggiante boccale di birra: il debito greco è allegramente arrivato a quasi il 142% del Pil nazionale (il famoso Patto di Stabilità prevedeva il limite del 60%); fino all’esplosione della crisi la gestione economico/finanziaria è stata più che allegra, con consumi a man bassa oltre le possibilità oggettive e con il disinvolto ricorso ai prestiti. Grazie a tutto ciò i salari della funzione pubblica erano praticamente raddoppiati, ma con le casse statali vuote.
Inevitabile nell’ottica di Berlino l’imposizione alla Grecia di un programma detto “di rigore”, ma in realtà di strangolamento economico/sociale, che ha portato il paese a un’ampia recessione e in un tunnel dal quale con tali sistemi sicuramente non uscirà. Si calcola che globalmente diritti e retribuzioni dei lavoratori siano stati retrocessi alla situazione degli anni ’50 del secolo scorso: solo che i prezzi sono del 2012.

Dallo scenario politico continentale
La posizione europea verso la Grecia appare priva di senso, mentre quella tedesca forse di sensi ne ha più di uno. Se si vuole salvare la Grecia gli strumenti usati sono palesemente di segno contrario, ma gli attuali dogmi economici di un’Unione forse già moribonda non si toccano, anche perché non lo vuole il padrone tedesco. Ma che si vuole di ulteriore alla Cancelleria di Berlino dove ci si affanna a dire – nonostante tutto – che la Grecia deve restare nella zona euro?
Non ci si può limitare a ripetere che la Germania vuole comandare. Bisogna andare un po’ più in là. Ciò fa emergere il sospetto che la Germania non consideri la Grecia solo come un’Afghanistan finanziario (lo scrive la stampa portoghese), ma altresì come un laboratorio per un esperimento di dominazione, suscettibile di ripetizioni in altri paesi a economia debole (tipo Spagna e Portogallo - oggi. Domani chissà). In concreto, se la Grecia resta nella zona euro il suo destino è chiaro: l’attuale occupazione finanziaria diventerebbe anche scopertamente politica e si avrebbe il primo caso nell’Ue di perdita di sovranità nazionale senza nemmeno il “conforto” dell’appartenenza a una confederazione o a una federazione. In più la Germania metterebbe le mani su quell’ultimo tassello balcanico sfuggito alla massiccia egemonia conquistata (non lo si dimentichi) con la disgregazione della ex Jugoslavia. Già nelle librerie iberiche circolano libri aventi a oggetto il Quarto Reich che la Germania starebbe costruendo senza bisogno di fare la guerra, dopo averne perse due (e mondiali) con lo stesso obiettivo. Non si dimentichi che per la Germania la ricetta greca incombe altresì sugli altri paesi a economia debole che dovessero appellarsi alla “solidarietà” (!) europea. 
All’ultima riunione dell’Ecofin è stata captata una conversazione fra il Primo Ministro spagnolo Mariano Rajoy, il Ministro delle Finanze portoghese Vítor Gaspar e il Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, durante la quale Rajoy si vantava di aver messo a punto una “riforma” sui licenziamenti che li rende più veloci e meno costosi. Il commento di Schäuble è stato : «Se è vero è ottimo, auguri». Un augurio attestante sul piano economico che della tanto evocata “ripresa economica” non interessa niente a nessuno, né in Grecia né altrove; e su quello politico conferma che la Germania è alla testa del fronte che vuole riportare lo stato del lavoro ai primordi del capitalismo.
Sul sopraindicato sospetto grava però un dubbio: che pensa di fare la Germania della grande quantità di sue esportazioni verso i paesi dell’Europa meridionale una volta che il potere di acquisto dei cittadini venga ridotto al lumicino? Molti eminenti economisti se lo chiedono, ma la risposta ancora non c’è.

Che farà la Grecia a questo punto?
Porre la domanda è ineluttabile, ma che cosa rispondere? Dall’esito delle elezioni si capirà, quanto meno, se il peso maggiore sarà per l’opzione del restare legati all’euro, oppure per quella dell’uscire dalla zona della moneta unica.
Se alla fine prevalessero in Parlamento i fautori della prima opzione non ci vuole la palla di vetro per capire che la situazione attuale peggiorerà a vista d’occhio, con ogni possibile esito se le elezioni dovessero confermare la situazione monitorata dai primi sondaggi: cioè un grande vittoria dei partiti delle ale estreme di sinistra e di destra.
L’eventuale uscita dall’euro deve scontare un primo periodo veramente terribile. I media legati agli interessi capitalistici generalmente mettono l’accento sulle conseguenze per il resto d’Europa (altro segnale del fallimento europeo). In questa sede interessa di più la Grecia. Ebbene, ci sarebbe un’impoverimento/strangolamento generalizzato, e maggiore dell’attuale, per tutti (privati, imprese e Stato), poiché tutto dovrebbe essere pagato con una moneta locale dal valore infimo. In un tale contesto ogni scenario è possibile, anche il solito colpo di stato militare reazionario.
Molti dall’esterno sono colpiti dal fatto che finora ci siano state in Grecia forti ondate potenzialmente prerivoluzionarie, ma senza sbocchi e con la tendenza al riassorbimento nella scontentezza rassegnata. Atteggiamento che è facile criticare, ma verso il quale è meno facile indicare il concreto “che fare?”. Lo si critica dall’esterno, ma se ci si immerge nela situazione del paese e si deve concludere che lotte e tumulti non hanno portato a nulla, allora lo sconforto viene, e la rabbia continua a manifestarsi impotente.
Si parla a volte di situazione propizia per una rivoluzione sociale ellenica. Astrattamente sì. Ma parlare di fase prerivoluzionaria e di passaggio a quella rivoluzionaria è mero esercizio verbale fino a quando “tenga” l’apparato repressivo dello Stato. E fino ad oggi ha tenuto. Di recente in certi ambienti di sinistra ha acceso qualche fiammella di emozione (oltre ai sondaggi che danno i partiti di sinistra sopra il 40% alle prossime elezioni) la notizia dell’Agenzia Reuters secondo cui un sindacato di polizia greco – che rappresenta i 2/3 dei poliziotti - vorrebbe arrestare i funzionari del Fondo Monetario e della UE.
Al momento la cosa non va al di là del velleitario, poiché vorrebbe dire (per coerenza) ammutinamento della polizia una volta che la magistratura ellenica li metta poi in libertà per mancanza di presupposti giuridici (anche se la giustizia popolare li vorrebbe fucilati senza processo…). Tuttavia si tratta della prima interessante manifestazione di malcontento, da parte di un settore che non ha risparmiato manganelli e gas lacrimogeni. Perché quando si dice «Qualora continuiate con le vostre politiche distruttive, vi avvisiamo che non riuscirete a farci combattere contro i nostri fratelli. Ci rifiutiamo di fronteggiare i nostri genitori, i nostri figli e tutti i cittadini che protestano e chiedono un cambiamento nelle politiche», la frase ha un oggettivo valore di monito.
Se i poliziotti dovessero incrociare le braccia, e lasciare i politici greci alla mercè della folla infuriata, tuttavia, sarebbe ancora presto per vedere la bandiera rossa sul Partenone: infatti, resterebbe un’incognita, da tenere presenta anche per il caso di uscita dall’euro guidata da un eventuale governo di sinistra: l’esercito, sul cui spirito democratico ogni scommessa è azzardata.

La Grecia comunque segna uno spartiacque
Restando in attesa dello sviluppo degli eventi, qualche considerazione è possibile riguardo all’Ue. Comunque vadano le cose in Grecia in Europa la situazione politica è cambiata. Non sappiamo se l’euro celebrerà l’undicesimo compleanno, né quanti saranno nel 2013 gli Stati a esso aderenti in caso di sua sopravvivenza. Sappiamo però che – a parità di situazione - questa Unione Europea non ha più (che quanti così l’abbiano intesa) il fascino del sogno politico: al massimo potrà continuare a operare come area di libero scambio, ma senza anima, sulle macerie di una solidarietà intereuropea rivelatasi un involucro vuoto. Inoltre diventa sempre più aleatorio – e non per l’ostruzionismo francese – l’ingresso della Turchia (a meno che non voglia ritrovarsi sotto la Germania come durante la Grande Guerra) e certo aumenteranno le spinte locali a non cedere ulteriori pezzi di sovranità nazionale a Berlino, visto come poi ci si ritrova.  

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