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giovedì 16 febbraio 2012

Sul film A.C.A.B., di Antonio Marchi e Antonella Marazzi


ACAB è un pugno nello stomaco, dove l’uso della violenza sembra la normalità quotidiana, in un mondo in cui oppressori e oppressi si scambiano rapidamente i ruoli e vengono osservati da un punto di vista “umano”, che esclude pregiudizi e stereotipi, ma lascia fuori casi isolati di altrettanta barbarie, per “rese dei conti” assurde. Il film abbraccia quasi tutti i  problemi dei nostri giorni - dagli scioperi dei lavoratori, alla politica, passando per gli ultrà allo stadio fino agli immigrati, agli sgomberi dei nomadi - riuscendo a farci entrare nella parte non di semplici spettatori, ma di protagonisti, nella contesa a volte esasperata e spettacolare dello scontro: "tifoseria” di una o dell’altra parte, ci fa schierare (“dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando”?- De Gregori), mostrandoci la violenza per quello che è (sempre assurda) quando non ha sbocchi politici. Lo fa senza eccessivo compiacimento ed enfatizzando il fascino oscuro della divisa e delle simbologie che vi ruotano attorno.
In quel gesto irrefrenabile di picchiare duro c’è tutta la frustrazione e la cattiveria di un mestiere assurdo e incivile, ma c’è anche il disonore di una società capitalistico-borghese che trova più semplice risolvere i problemi a manganellate, piuttosto che affrontarli democraticamente. Inevitabile un comune senso di nausea, odio, intolleranza, nei confronti del celerino, ma anche delle istituzioni, politici, parlamento, Stato… che lo usano e lo sfruttano.
Il  celerino, protetto dall’uniforme, oltre che dallo Stato, è nel film una “macchina da guerra”, usato contro chiunque reclami qualcosa, non stia alle regole conformistiche della società, si trovi nel posto sbagliato (anche per caso), ma è abbandonato al suo destino di reietto quando reclama diritti e precipita nella parte dell'"oppresso”, con meraviglia, stupore e rabbia.
Nella sua spettacolarizzazione degli scontri con le tifoserie, il film tralascia però i casi isolati e poco si sofferma sul ruolo repressivo della forza armata dello Stato contro le manifestazioni operaie e studentesche, contro le proteste dei movimenti per la difesa dei diritti e del territorio. Lascia sgomenti e increduli, la brutalità di fatti vigliacchi e criminali che hanno portato alla morte giovani vite (Cucchi, Sarti, Frapporti ecc.) per un protagonismo di mestiere e di ordine (fascista) che ha nella divisa, più che nella "difesa" del cittadino, la sua maggior colpa. Di fronte alla criminale arroganza di quella divisa - che dovrebbe essere (ma quando mai?!) portata a rispetto dell’incolumità della persona che abbia o no commesso reato, ma che invece il più delle volte intimidisce, interroga, umilia, toglie la libertà, percuote e a volte ammazza - la ferita rimane aperta per sempre e l’oltraggio non può essere dimenticato.
ACAB ha il merito di ricordare episodi violenti e di poterli raccontare anche a distanza di tempo per quel sangue dimenticato, perché ancora le ferite sanguinano (...)
Antonio Marchi
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Caro Antonio,
la tua quasi-recensione è bella e mi è piaciuta per la sua partecipazione accorata, il tuo sdegno, il tuo sguardo lucido. Mi ha fatto, credo, un quadro genuino e veritiero di ciò che esprime il film e, forse, del suo messaggio. Un film che, penso, non ho andrò a vedere, perchè non ne posso più di violenza, sia di quella cieca e irrazionale che nasce dalla disperazione di esistenze non consapevoli ( dei celerini e delle loro vittime arrabbiate), sia di quella cinica e razionale del sistema borghese che usa le forze dell'ordine come cieca massa di manovra contro tutte le sue opposizioni. E non ne posso più in generale della violenza sempre più cieca di un sistema mondiale basato sullo sfruttamento selvaggio e sul profitto, che devasta il pianeta e che sta distruggendo la terra in cui viviamo e la nostra stessa umanità. Non lo andrò a vedere non perchè creda che film come questo mandino messaggi sbagliati, ma perchè vedo così lucidamente la violenza montarci intorno che un film come questo non può aggiungere altro a ciò di cui sono crudamente consapevole. Grazie per le emozioni che hai voluto comunicarci. 
Antonella
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