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mercoledì 29 febbraio 2012

LA GESTIONE POLITICA POSTDEMOCRATICA DELLA CRISI ECONOMICA. (Riflessioni su postdemocrazia e statalizzazione dei partiti della sinistra, 1), di Michele Nobile


1. Un esempio del processo decisionale postdemocratico: la garanzia del governo irlandese sulle banche.
Tra la sera del 29 e il primo mattino del 30 settembre 2008, giusto a due settimane dalla bancarotta della Lehman Brothers e dall’inizio del terremoto finanziario, il governo irlandese prese la decisione di offrire una garanzia pubblica su tutte le passività di tutte le banche del paese. L’urgenza era determinata dall’imminente tracollo della Anglo Irish Bank, che fu poi nazionalizzata a metà dicembre 2009.

Secondo il giornalista Simon Carswell che ne ha ricostruito la vicenda, quella fu «la più importante decisione politica presa da un governo irlandese» (1), tale da impegnarlo per l’equivalente di circa tre volte il prodotto interno e dieci volte il debito pubblico del momento. Iniziava così il processo di socializzazione dei costi del salvataggio del sistema finanziario privato dell’Irlanda, nonché dei creditori esteri, che ha ipotecato il futuro dell’intero paese, come sancito dall’accordo internazionale stipulato nel 2010. Più precisamente, ad essere ipotecati sono l’occupazione, i salari, le pensioni e i servizi pubblici dei comuni cittadini irlandesi, per molti anni a venire (2).
Nonostante la sua straordinaria importanza la decisione di garantire tutte le passività venne presa da un gruppo ristretto, in tutto una dozzina di persone: il primo ministro, il ministro delle finanze, l’attorney general, il governatore della banca centrale, alcuni alti funzionari; nelle stesse ore questo gruppo ebbe consultazioni con l’agenzia di rating Merrill Lynch e i massimi dirigenti (presidenti e Ceo) della Anglo Irish Bank e della Bank of Ireland. L’approvazione degli altri membri del governo venne ottenuta telefonicamente. Prima delle sei del mattino venivano informati il primo ministro del Lussemburgo, allora presidente del Eurogruppo, e il ministro delle finanze francese Christine Lagarde, a capo dell’Ecofin dell’Unione europea, ora direttore generale del Fmi. La decisione venne resa pubblica alle 6,45 e poi ratificata dal parlamento, con 124 voti a favore e 18 contrari: a favore votarono anche il principale partito d’opposizione, il Fine Gael, e il Sinn Féin, paladino dell’indipendenza irlandese.

Questo è solo un esempio di come, nelle moderne «democrazie rappresentative», decisioni politiche di grande impegno possano essere prese prescindendo dalla consultazione dei rappresentanti del «popolo (presunto) sovrano» e mettendo le istituzioni parlamentari di fronte a fatti compiuti e ad accordi internazionali che, si dice, non possono che essere accettati. Per quanto riguarda il processo decisionale si tratta del risultato della combinazione di due tendenze storiche, di lungo periodo.
Cronologicamente, la prima è quella della disciplina di partito nella sua applicazione ai gruppi parlamentari. Più degli altri, di essa erano specialmente orgogliosi i socialisti, almeno come ideale normativo: era uno dei modi di essere del partito «di massa» proletario opposto al partito parlamentare e borghese di notabili. L’esperienza storica dice però che la disciplina di partito può essere lo strumento attraverso il quale viene rovesciato il rapporto tra mezzi e fini: fu il senso sacrale della disciplina a far sì che il 4 agosto 1914 la frazione parlamentare socialdemocratica del Reichstag votasse all’unanimità i crediti di guerra. A favore votarono anche Karl Liebknecht, che presto divenne l’emblema della lotta alla guerra, e altri che nella riunione preliminare della frazione avevano espresso contrarietà e dubbi. 
La seconda tendenza emerse nella guerra mondiale, si consolidò durante la gestione politica della depressione degli anni Trenta e la guerra mondiale, e si sviluppò energicamente con la crescita delle funzioni economiche e sociali dello Stato nel corso del secondo dopoguerra: si tratta dello spostamento dei rapporti tra esecutivo (e apparati burocratici specializzati) e assemblee parlamentari a netto favore del primo e della dislocazione della formulazione, mediazione e decisione politica in sedi diverse da quelle elettive. Da notare che questo processo fu simultaneo all’età d’oro della moderna «democrazia rappresentativa», alla più frequente e lunga partecipazione dei partiti socialisti al governo, al riconoscimento formale dei diritti socioeconomici, all’estensione reale (benché ineguale) del welfare State.
Si può dunque dire che lo sviluppo della tendenza al dislocamento della decisione politica fuori delle istituzioni elettive e verso la burocrazia statale sia coeva a quella che appariva (e a molti ancora appare tale) come la «democratizzazione» politica e sociale dello Stato, da intendersi come l’introduzione in esso di aspetti non-capitalistici o protosocialisti. Ma che partiti e Stato si compenetrassero, con gravi effetti a lungo termine per la loro stessa identità e le istituzioni elettive, non era che il necessario complemento della funzionalità dell’interventismo statale alla riproduzione allargata del capitale; ragion per cui non deve stupire che lo stesso fenomeno di statalizzazione dei partiti (e dei sindacati) si sia poi volto contro i precedenti diritti sociali, quando sono mutate le condizioni dell’accumulazione del capitale.

La combinazione delle due tendenze sopra indicate ha creato una catena di comando che va dal governo (o da un inner cabinet o dal Consiglio di Gabinetto nel caso di diversi governi italiani) alle direzioni dei gruppi parlamentari fino ai singoli parlamentari: la disciplina di partito impartita dalla decisione dell’esecutivo prevale sulla presunta libertà di coscienza dei singoli deputati che pure, teoricamente, dovrebbero ciascuno rappresentare la nazione. Ma la disciplina di partito è un aspetto fondamentale della prassi parlamentare moderna. Se il «popolo» è in realtà atomizzato in una massa amorfa di individui, i partiti a cui gli individui delegano la (presunta) sovranità, senza mandato vincolante o possibilità di controllo e revoca (se non in occasione delle scadenze elettorali), sono i titolari reali della sovranità e, dentro i partiti, i loro vertici e il personale in osmosi con gli apparati statali.

Nel caso degli Stati membri dell’Unione europea (Ue) e dell’eurosistema, la problematicità che il concetto di «sovranità popolare» presenta sul piano interno è aggravata dai vincoli che alla politica nazionale sono posti dalle decisioni in sede europea, i cui organi di governo soffrono di quel che è gentilmente detto un deficit di legittimità democratica.

Ma già prima dell’unificazione monetaria i rapporti di forza tra le classi erano stati alterati a favore del padronato e ben avviato era l’attacco ai diritti socioeconomici; i limiti posti all’espansione della spesa pubblica dagli accordi dell’eurozona, la politica monetaria seguita dalla Banca centrale europea e la subordinazione dell’occupazione alla stabilità dei prezzi, la «politica europea dell’occupazione», tutta centrata sul lato dell’offerta (sulla formazione del «capitale umano», l’«impiegabilità», l’«imprenditorialità») e la «riforma» del mercato del lavoro (con la rinuncia ad un’attiva politica sul lato della domanda), hanno ulteriormente rafforzato quanto già procedeva dall’interno dei singoli paesi, fornendo anche l’alibi della convergenza e dei vincoli esterni alla politica nazionale.
La questione della «sovranità» e della «rappresentatività» dei governi e dei parlamenti è divenuta drammatica nel corso della crisi attuale, sia a causa del contenuto (anti-)sociale delle decisioni di politica economica che per le procedure attraverso cui esse sono state e sono prese, ratificate dall’approvazione delle condizioni presenti negli accordi di prestito stipulati con la Commissione europea (sotto l’European financial stabilization mechanism e l’European financial stability facility), la Bce, il Fondo monetario internazionale.
Bisogna però guardarsi dal considerare i rapporti tra l’Unione europea e i singoli Stati in termini di mera sottrazione di «sovranità» ai secondi, non solo perché l’Ue è un costrutto degli Stati e non essa stessa uno Stato. Si può vedere nelle politiche dell’Ue e nell’istituzione della Bce, con tutti i problemi relativi alla «rappresentatività» e alla legittimazione politica, non la causa della sottrazione della «sovranità» ai popoli (e ai governi nazionali) ma, viceversa, l’espressione di un processo politico già affermato al livello dei singoli paesi che viene ulteriormente sviluppato e consolidato su scala internazionale.

D’altra parte, così come le differenze tra i diversi capitalismi non sono assorbite nell’unico calderone della presunta globalizzazione economica, allo stesso modo l’Ue e la moneta unica non dissolvono le differenze politiche e istituzionali tra i diversi Stati europei. Semmai, creando i meccanismi interstatali che presiedono alla sua diffusione e, specialmente, al suo approfondimento, Ue ed eurozona (due aree che non coincidono) hanno l’effetto di dare nuovo impulso al processo di chiusura dei sistemi di partito rispetto agli interessi della cittadinanza e di svuotamento delle istituzioni elettive a favore della burocrazia statale, dei vertici della casta politica e di procedure e sedi di mediazione non elettive, che nella dimensione europea sono ancor più opache e distanti da possibili influenze dei movimenti sociali.

Se questo è vero, allora le grida indignate per la violazione della «sovranità nazionale» e la rivendicazione dell’uscita dall’Ue e dall’eurosistema mancano il bersaglio, scambiando l’effetto per la causa. Non sono l’Ue, la troika Ue-Bce-Fmi, le «banche» a sottrarre «sovranità» al popolo: il fenomeno è intrinseco allo Stato capitalistico e in regime liberaldemocratico trova i suoi agenti nel sistema dei partiti nazionali, i sovrani reali che tanto più sono autoreferenziali quanto più procede l’integrazione nello Stato e l’adattamento alle compatibilità capitalistiche.
Quanto alla libertà d’azione dei governi europei, se è vero che è limitata dalla rinuncia a una moneta nazionale, è anche vero che in definitiva essa dipende dalla posizione dei diversi capitalismi nelle gerarchie della divisione del lavoro internazionale e della potenza statale: con o senza euro, il capitalismo tedesco non è quello greco. Come quella politica, la «sovranità» economica è da sempre un fatto relativo. Chi si propone l’uscita dall’eurosistema dovrebbe tener ben conto che crisi valutarie, bancarie, e del debito internazionale occorrono anche in paesi con una propria moneta, e possono essere devastanti: sicché il punto non è salvare il capitalismo «nazionale» dalle grinfie dei rapaci esteri ma combattere entrambi, avendo anche come obiettivo da realizzare la costruzione di solidarietà militante, non episodica e non simbolica, tra i lavoratori e i movimenti sociali del continente.

Come la crisi economica non è che l’espressione aperta di processi da tempo operanti, la manifestazione eclatante delle contraddizioni inerenti al successo di una determinata struttura storica, in modo analogo quella che oggi appare come crisi della sovranità «popolare» nazionale, della «rappresentatività» dei partiti e del parlamentarismo prodotta o aggravata dalla crisi economica, non è che l’aperto manifestarsi di tendenze operanti e consolidate da diversi decenni: sull’intero arco del secondo dopoguerra per quel che concerne il rapporto tra partiti, Stato e funzioni sociali ed economiche delle politiche statali; nell’ultimo quarto del XX secolo per quel che riguarda la mutazione qualitativa dei partiti socialisti.
La tesi principale di questo articolo, che sarà sviluppata in quelli seguenti, è che le trasformazioni della statualità e dei sistemi dei partiti nei paesi a capitalismo avanzato hanno carattere strutturale, internazionale e di lungo periodo. Ritengo siano enormi e sgradevoli le implicazioni che questo comporta circa il rapporto tra lotta sociale e lotta per le libertà, la valutazione del regime liberaldemocratico, l’atteggiamento nei confronti di tutti i partiti e delle elezioni politiche. Ma negare la realtà della storia significa negarsi la possibilità di cambiarla.

2. La postdemocrazia dei paesi a capitalismo avanzato e l’economia mondiale.
Da due decenni vado contestando la validità analitica della nozione di globalizzazione (3), ma ora devo evidenziare un paradosso conseguente dal suo uso politico che contraddice quanto in quella nozione possa esserci di vicino alla realtà.
In primo luogo, il processo attraverso cui si perviene a una ristrutturazione storica dell’economia mondiale è complesso, lungo e drammatico: perché si formasse la struttura dell’economia mondiale del secondo dopoguerra occorsero due guerre mondiali, una grande depressione internazionale, la Rivoluzione russa e quella cinese, per essere brevi! La politica nel suo senso più ampio entra certamente in gioco, ma attraverso esperimenti, lotte sociali, scontri armati, contraddizioni, oscillazioni, fallimenti ed effetti non intenzionali, non nella forma della volontà animata da un piano consapevole e razionale. Se si concorda su questo e se si ritiene, come logica vuole, che l’economia mondiale (convergente intorno a valori globali oppure ancora caratterizzata dallo sviluppo ineguale e combinato) sia un fatto strutturale, che non può essere determinato da un qualche tipo di politica o d’ideologia ma risulta da lotte di potere e di classe, dalla gerarchia di fatto in campo economico e politico-militare del sistema degli Stati, allora dalla globalizzazione non si può «uscire» (tanto meno rimanendo in un’economia capitalistica) sulla base di una volontà politica (tanto meno rimanendo nella scala nazionale e affidandosi ai partiti).

In secondo luogo, per essere coerente la tesi della globalizzazione implica il drastico ridimensionamento delle capacità d’intervento economico e sociale dei singoli Stati (piuttosto che un diverso orientamento di quelle capacità: senza le quali saremmo però da un pezzo in piena depressione mondiale stile anni Trenta e a far la fila per il brodino). Ma, allora, non si capisce perché un tale cambiamento epocale e strutturale non debba comportare, se si ammette che la società sia un «fatto totale», analoghi cambiamenti strutturali ed epocali nell’ambito squisitamente politico dei sistemi di partito e del rapporto tra partiti e cittadini. Ovviamente, non è indifferente se si considera la struttura della totalità sociale, con la sua miriade di centri di potere privato economico (fortemente ineguali) e la concentrazione della potenza politico-militare negli Stati (anch’essa molto inegualmente distribuita), come espressione del potere di una classe dominante e retta dalla riproduzione del sistema capitalistico su scala mondiale, oppure no. 

Il paradosso nasce dal fatto che nel suo uso politico a sinistra la globalizzazione è aggettivata come «neoliberista» (o comunque usata per lo più in quel senso): il che implica che essa risulti essenzialmente da una determinata parte politica, la «destra neoliberista», o dagli effetti politici di una macrocorrente ideologica (il «pensiero unico»); ma anche che la medesima configurazione «materiale» dell’economia mondiale (o dell’imperialismo) possa essere gestita politicamente in modo non «neoliberistico», magari «dal basso». Evidentemente ciò è in contrasto con il concetto di globalizzazione come fatto strutturale, di lungo periodo, che comporta trasformazioni della statualità che non possono non interessare anche le istituzioni della «democrazia rappresentativa» e i sistemi di partito; e non bisogna dimenticare che l’onnipotenza dei mercati finanziari, la deterritorializzazione del capitale e l’obsolescenza delle capacità di intervento degli Stati mal si conciliano con la prospettiva di politiche economiche e sociali nazionali alternative al «neoliberismo».

I partiti di «terza via» (ex socialdemocratici, ex comunisti) possono usare coerentemente la globalizzazione come fatto strutturale e il potere dei «mercati» come alibi politico. Il paradosso esiste invece per i partiti che ancora si definiscono «comunisti» o «verdi» o similmente, ed esso nasce da una necessità politica: quella di poter partecipare ai giochi della scena politica nazionale facendosi portavoce e rappresentante dei movimenti (o come si diceva un tempo, del movimento dei movimenti) contro il «neoliberismo» (a geometria variabile a seconda delle congiunture e del rapporto con i partiti di «terza via»). Necessità che, a sua volta, comporta che il carattere «rappresentativo» del regime liberaldemocratico sia tuttora valido o possa essere ristabilito: insomma, la «democrazia rappresentativa», eventualmente arricchita dal «bilancio partecipativo» e da altre forme di partecipazione popolare, costituisce l’orizzonte entro il quale si definisce concretamente il percorso politico, al di qua dei miti e dei riti dell’identità relativi al futuro sol dell’avvenire, rosso, verde o a pois.

Si può sostanziare il fattore politico-ideologico con quello sociologico-elitista di una nébuleuse che costituisce il governo informale del mondo, governance without government, costituita dall’insieme di entità quali la la Ocse, il Fmi, la Commissione Trilaterale, le conferenze di Bilderberg e di Davos, la Mount Pelerin Society, e così via. Una versione recente di questa logica è quella del «governo delle banche». 

Ma per i precedenti argomenti, l’idea che i destini del mondo (o della Grecia o dell’Italia) siano governati da una élite finanziaria cosmopolitica è una semplificazione infantile del tutto estranea alla complessità e contraddittorietà della storia reale; combinando elitismo politico e una visione ristretta dei rapporti economici internazionali e dei rapporti tra le classi sociali, essa non può spiegare la convergenza d’interessi tra capitale monetario e produttivo, tra le grandi società multinazionali e le istituzioni finanziarie, la stessa «finanziarizzazione» dall’interno del capitale produttivo (negli Stati Uniti le corporations da tempo si autofinanziano ma svolgono operazioni finanziarie in proprio, oltre a distribuire un’alta quota di dividendi sul capitale disponibile). Per farla breve, non si vede come l’internazionalizzazione del capitale monetario non sia che l’altra faccia dell’internazionalizzazione del capitale produttivo, che essi siano in simbiosi e in osmosi, che la fisiologia dei flussi finanziari risponda a una determinata struttura dell’economia mondiale risultato di decenni di (ineguale) sviluppo capitalistico, dei cambiamenti nella struttura sociale e nei rapporti di forza tra le classi sociali. Totalità non è sinonimo d’armonia: tutti questi processi sono contraddittori ed è sotto gli occhi l’instabilità che essi generano, a partire dal settore finanziario; ma senza cogliere le connessioni del tutto non si può neanche comprendere la durata e la resilienza del cosiddetto «neoliberismo».

3. Epoche della rappresentanza politica: dalla liberaldemocrazia alla postdemocrazia, passando dalla mutazione dei partiti di sinistra.
Si può osservare che alla configurazione dell’imperialismo che portò alla Prima guerra mondiale corrispondeva la forma statuale liberale (ma non liberistica, tranne nel caso della Gran Bretagna); che a quella tra le guerre mondiali corrispose la crisi dello Stato liberale e l’ascesa della forma statale fascista (oltre che staliniana). Infine abbiamo avuto la forma statuale liberaldemocratica, la politica industriale, il neocorporativismo, lo sviluppo del welfare State ecc. Lo Stato capitalistico e la rappresentanza politica hanno la loro storia, nella quale specifiche forme nascono, mutano, muoiono. Come tutto ciò che è umano. Irreversibilmente.

Sul piano dei partiti politici, è da tener conto che nei regimi liberaldemocratici del secondo dopoguerra i parametri generali dell’interventismo statale in campo economico e sociale furono condivisi sia dalla «sinistra» che dalla «destra» o, meglio, dal «centro» (e quando queste espressioni avevano in Europa valore distintivo superiore a quello odierno). Tra normative di welfare varate sotto maggioranze socialdemocratiche o «borghesi» c’era differenza, ma esse vennero adottate ovunque, e rimasero sotto tutte le maggioranze; in Germania, Austria, Belgio, Olanda e Italia furono opera di governi centrati sui democratico-cristiani. Analogamente, trent’anni fa ha avuto inizio, e si è completata negli anni Novanta, la convergenza tra i partiti intorno a un orientamento fondamentale di politica economica e sociale neomercantilistica che richiede la restrizione dei diritti sociali e delle garanzie per i lavoratori, pur persistendo differenze ereditate dalle diverse storie degli Stati e dei partiti nazionali.
Esistono epoche della politica e anche della politica economica che attraversano gli schieramenti politici e ideologici.

Ed è appunto questo l’ultimo tocco all’evoluzione (o involuzione) dei sistemi politici: l’irreversibile mutazione programmatica e ideale dei grandi partiti scaturiti dal movimento operaio del XIX e XX secolo. Nel secondo dopoguerra essi vennero favoriti dal cambiamento del rapporto tra Stato (imperialistico) ed economia (capitalistica): i partiti socialdemocratici principalmente, ma anche quelli comunisti che, pur esclusi dai governi nazionali, miravano a più avanzate riforme, certo non alla sovversione del sistema. Il prezzo pagato è però stato la progressiva statalizzazione dei partiti di sinistra e il loro adattamento ai limiti e alle compatibilità dell’accumulazione del capitale, che negli anni Settanta del secolo scorso iniziarono a farsi piuttosto stretti e rigide. Con ciò è definitivamente tramontata la possibilità che sulla scena politica venga in qualche modo «rappresentato» l’interesse immediato dei salariati e l’esistenza del conflitto di classe. La sedicente «sinistra» o i partiti o le coalizioni di «centrosinistra» ora non sono parte della soluzione dei problemi della «democrazia rappresentativa», ma soggetti attivi dell’obsolescenza della «rappresentanza» e del parlamentarismo. Sono i veri soggetti dell’antipolitica, ovvero nemici della mobilitazione autonoma della cittadinanza, in specie dei lavoratori.
L’evoluzione dei sistemi politici può dirsi postdemocratica, ma rimane nel quadro dello Stato liberale e parlamentare capitalistico (e imperialistico): essa ne è, anzi, una conseguenza necessaria, proprio per la natura sociale di questa forma statuale, che può ben integrare apparati di partito per tenere a debita distanza il démos e sostenere l’accumulazione di capitale. Non ha nulla a che fare con «regimi d’eccezione», come il fascismo e il bonapartismo, né con l’autoritarismo nel senso più forte, mettendo nel conto che lo Stato capitalistico dispone sempre della capacità e volontà di far valere selettivamente il monopolio legale della violenza e di esercitare la barbarie su ampia scala nei paesi neocoloniali. La forma avanzata della società (tardo?) capitalistica come «società dello spettacolo» non ha affatto bisogno di dispiegare al suo interno la violenza di massa rozza e massiccia o, comunque, di abbandonare la forma «rappresentativa» liberale.
Ma se si prende sul serio il concetto che la «chiusura» oligarchica dei sistemi dei partiti ha carattere strutturale, in quanto risultante dall’evoluzione dei rapporti tra Stato ed economia nei paesi a capitalismo avanzato e connessa all’insieme delle trasformazioni dell’economia mondiale; e che essa costituisce l’ultimo sviluppo (o involuzione) del lungo processo di integrazione dei partiti nello Stato, a danno deliberato, ma non privo di contraddizioni, della loro capacità di «rappresentare» il dèmos - allora vuol dire che partecipare ai giochi di potere e ai riti elettorali di questa postdemocrazia non serve più a conquistare o ampliare spazi di libertà e diritti.
Il tempo non trascorre invano. Per gran parte del XIX e del XX secolo il movimento operaio fu il protagonista della lotta per conquistare o difendere i diritti politici, oltre a quelli sociali, nutrendosi, nei settori sociali più avanzati dell’aspirazione, più o meno confusa e moderata, più o meno chiara e rivoluzionaria, a trascendere in qualche modo il capitalismo. Ma ora che i partiti che ne furono espressione maggioritaria si sono statalizzati, il regime liberaldemocratico e il sistema dei partiti di cui essi sono parte integrante, e che è il vero soggetto della sovranità, sono divenuti un ostacolo all’estensione e all’approfondimento dei diritti economici e sociali. Un’epoca storica si è chiusa. Le vie dell’espansione della democrazia e della socializzazione della politica non passano più attraverso la rappresentanza da parte dei partiti nelle istituzioni parlamentari.

Se non si prende coscienza di questo dato, se si rimane ancorati alle illusioni e ai miti di un’epoca tramontata, non si sarà neanche in grado di battersi collettivamente per la difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche e dei diritti sociali contro lo Stato liberaldemocratico, nel presente e nel futuro.

Note.
1) Simon Carswell, «The big gamble. The inside story of the bank guarantee», Irish Times, 25 settembre 2010.
2) Rimando a Michele Nobile, «La crisi dell’Irlanda, un esempio delle contraddizioni dell’Unione Europea. Nota 5 sulla crisi», aprile 2011. in rete nel blog di Utopia Rossa
3) Vedi il testo più organico, Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006.


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