CONTENUTI DEL BLOG

mercoledì 29 novembre 2017

I COLORI DEL CIELO (Francesco Mazza, 2017), di Pino Bertelli

Pensiero meridiano vuol dire fondamentalmente questo: restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri. Tutto questo non vuol dire indulgenza per il localismo, quel giocare melmoso con i propri vizi che ha condotto qualcuno a chiamare giustamente il sud un «inferno». Al contrario un pensiero meridiano ha il compito di pensare il sud con maggior rigore e durezza, ha il dovere di vedere e combattere iuxta propria principia la devastante vendita all’incanto che gli stessi meridionali hanno organizzato delle proprie terre. In questa vendita all’incanto, in questo assalto volgare e trasformistico alla modernità si sono venute affermando le due facce oggi dominanti del sud: paradiso turistico e incubo mafioso. […] l’antica spinta egalitaria è affogata nell’anomia generalizzata, nella perdita di riferimento ad un’altra forma di vita. […]
Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, […] invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.
(Franco Cassano, Il pensiero meridiano, 2005)

Pino Bertelli negli inediti panni di «Ismaele»…
[…] «Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa - non importa ch’io vi dica quanti - avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessasse a terra»1… sono andato a girovagare in terre di briganti… lì ho conosciuto una sorta di capitano Achab che diceva: «Sia gioia, gioia eccelsa, intima gioia, a colui che contro gli dèi e i commodori superbi di questa terra oppone sempre il suo inesorabile se stesso»2. Era gradevole, intelligente quanto un arpioniere di balene bianche senza tatuaggi… un cittadino del cielo… ci siamo intesi subito… così abbiamo pensato d’imbarcarci su una nave fantastica (il Pequod, una vecchia auto rossa con la radio sempre accesa sui bollettini di guerra metropolitana) e navigare fra terre, monti e mari di Calabria e fare un film e un libro fotografico con i calabresi… della ciurma facevano parte anche Anna Maria, secondo ufficiale del Pequod, e Paola, una figlia della Tortuga, che fumava la pipa… in fondo, dissi - «Siamo uomini nel mondo, non del mondo» - e partimmo.
Non è stato facile… abbiamo affrontato venti avversi… boschi in fiamme, laghi asciutti, mari deserti… e incontrato tribù che cucinavano tenerezza e accoglienza… il vino ci ha accompagnato in tutte le nostre rotte e i canti delle lavandaie hanno scaldato i nostri sogni di fraternità ed eguaglianza… anche davanti ai brutti ceffi che volevano affondare la “nave” non abbiamo avuto paura e senza il timore di dio né del diavolo abbiamo continuato a navigare sulle nostre rotte sconosciute… ci sono state anche battaglie a viso aperto con i mostri di queste terre o cieli o mari profondi… ribelli per vocazione, marinai che fecero l’impresa, siamo sopravvissuti al naufragio nell’asciuttezza dei nostri sospiri estremi!
© Pino Bertelli
L’epilogo: ne sono usciti un libro fotografico e un film del tutto personali… del tutto fuori dai cimiteri del consenso e del successo, e più ancora, ne siamo certi, sono opere non dell’oggi né del domani, ma dell’immaginario del nostro scontento che diventa destino. Ma è del film del capitano Achab che vi voglio ora parlare… con una coppa di vino in mano, un sigaro all’anice e il canto dei gatti in amore sui tetti della città di utopia. Sia lode ora a uomini e donne di chiara fama.
I colori del cielo di Francesco Mazza [capitano Achab] è qualcosa che non ha nulla a che fare con il documentario o il film/inchiesta… forse anche con il docufilm… è una sorta di pamphlet o saggio cinematografico piuttosto anomalo… riprende le radici architetturali delle opere di Straub, Brocani, Pasolini - tanto per fare qualche nome (anche riconosciuto)… e affabula una cartografia dell’esistenza nel trapasso delle ideologie, delle fedi, dei conformismi criminali, anche… alla maniera della bandiglia situazionista (credo), il regista elabora una costruzione delle situazioni in terra di Calabria - ma a ben vedere oltre il tessuto emozionale delle persone che s’interrogano (e rispondono) sulle poche parole di un fotografo di strada (che incidentalmente sono io, Ismaele) - dette anche in maniera un po’ dialettale o selvatica… figurano spaccati profondi della loro storia e della loro vivenza. Quello che ne sortisce è un trattato di filosofia etica, non morale… l’etica segue il principio edonista della maggiore felicità per il maggior numero (Epicuro), la morale è una maledizione o una dottrina dell’abbandono che Stati, chiese e banchieri prediligono per la domesticazione sociale.
© Pino Bertelli
I colori del cielo riparte da Comizi d’amore di Pasolini, certo, riprende lo sconcerto e l’incanto di Pasolini nei confronti del sud e della Calabria, principalmente… ma si chiama fuori, come si è già detto, dal film/inchiesta pasoliniano… quello di Mazza è un rizomario di atti senza apostoli, elaborati fuori dalle preghiere raccomandate, o un portolano di emozioni disseminate su secoli di lacrime e sangue innocente versati fra l’inedia e il gemito di un popolo di antiche culture e profonde bellezze (sovente sfigurate dalla ferocia del malaffare, della politica, della Chiesa)… nelle parole dei calabresi non affiora però solo l’incertezza, la paura, il dissidio o il rispetto verso una fatalità ereditaria… nel non detto o appena accennato o nella rabbia rimasta in gola si scorgono forme di saggezza plebea e di liberazione necessaria… e non c’è da stupirsi che l’ultimo dei vagabondi o degli analfabeti valga più dei “dotti” che fanno professione di pensare… poiché la sfera della coscienza affiora sui corpi, volti, gesti degli intervistati come crescono le rose di campo - così, senza una ragione precisa, per volontà di una gioia terrena che si fa bellezza dei giorni - e approdano all’universale.
Nelle parole, negli sguardi, nelle posture grecaniche dei calabresi filmati da Mazza c’è un coinvolgimento sapienziale che si aggrappa alla radicalità dell’uomo, alla sua terra… Ismaele, che si aggira nelle strade di Calabria e incontra centinaia di persone, le fotografa secondo una visione antropologica del vissuto quotidiano, spesso piuttosto sgangherata o inopportuna per le scuole di fotografia… è una sorta di viandante delle stelle o un bracconiere di sogni che il regista filma con determinazione e pervicacia a ricordo dei fotografi ambulanti americani, quando fissavano sulle lastre la magnificenza di un popolo, quello dei Pellerossa, destinato al genocidio dall’avanzare della modernità. In apertura di un grande film western, Gli implacabili (1955) di Raoul Walsh, interpretato magistralmente da Clark Gable, Jane Russell, Robert Ryan e Cameron Mitchell - ma un po’ troppo infarcito di canzoni - Gable e il fratello, Mitchell, affiorano dal fondo della prateria… vedono un uomo impiccato ad un albero e Gable dice al fratello: «Siamo vicini alla civiltà!». Non c’è differenza tra i sogni di un macellaio e quelli di un banchiere. Il valore di ogni uomo si misura nel valore dei suoi disaccordi! Siccome viviamo nel bel mezzo di terrori eleganti, si può benissimo passare dall’oblio dell’uniformità all’onorabilità della rivolta (quale che sia), la più ancestrale delle nostre vitalità.

lunedì 27 novembre 2017

A LA ARGENTINA SE LE HA PERDIDO UN SUBMARINO Y NO SABEN QUIÉN LO TIENE…, por Nechi Dorado

El submarino argentino ARA San Juan (S-42) fondeado
A partir de la desaparición del submarino de bandera argentina ARA San Juan, distintas versiones se han lanzado ante el mutismo del Comandante en Jefe de las Fuerzas Armadas, léase gobierno y un séquito que parece más ocupado en aplicar ajustes que afectan al pueblo y dentro de éste a los sectores más vulnerables: jubilados, empleados, obreros, pequeñas industrias, educación, salud.
En medio del desastre que estamos viviendo –padeciendo sería más objetivo– contando con la aceptación de adeptos hasta de la clase más desposeída, suceden cosas invisibilizadas para los votantes PRO [Propuesta Republicana (n.d.r.)] y similares.
El medio informativo KontraInfo hace un minucioso análisis sobre este hecho luctuoso para muchos que deja al descubierto la ineptitud para resolver problemas de extrema sensibilidad.
Por ejemplo, en nota del periodista Daniel do Campo Spada se opina que existe la posibilidad de un ataque misilístico contra el submarino ARA San Juan, provocado “por error” (encomillado mío) por una nave gringa, en el marco de operaciones secretas en el Atlántico Sur de las que formarían parte EE.UU. y Gran Bretaña.
Por ser una misión realizada a ocultas, se reviste de un gran manto de mentira y como tal, más temprano que tarde saldrían a luz los hechos, si fuera cierto que la mentira tiene pata corta y si existiera voluntad política real como para dejar de mentir alguna vez.
Existe la versión que indicaría que Macri habría pactado con Obama en 2016 la realización de maniobras conjuntas a espaldas del Congreso Nacional, que no autorizó las mismas.
Si es así cabe preguntarse si un gobierno que actúa contra la decisión del Congreso puede enmarcarse dentro de los márgenes de la “democracia”, intuyo en esto una desprolijidad más preocupante que todo lo que viene sucediendo en la política nacional.
Como Operación Cormorán se conocieron las maniobras que dejan como saldo la probable muerte de 44 marinos de carrera, no improvisados. Digo probable porque mientras unos aseguran el trágico final de los presentes en la maniobra a espaldas del Congreso y del pueblo, otros dicen que no. Como siempre será el pueblo el último en enterarse de lo que se cocina entre gallos y madrugadas.
Sugestiva y subrepticiamente, con gran calma por otra parte, extraña la tranquilidad del espectro político y hasta del militar, dado que prestamente los EE.UU. estarían, hace unos días, en la zona de catástrofe con una celeridad impactante. Casi como si supieran que algo habría de suceder, aparecieron en escena raudamente.
Otras versiones circulantes hacen referencia a una operación de prensa que justificaría la compra de material bélico, mientras a los argentinos nos encajan unos ajustes que erizan la piel, anticipo de lo que vendrá en los próximos días, que sería una reforma laboral que podríamos enmarcar en lo obsceno. Sería bueno preguntarnos qué lobbys se beneficiarían con esa compra de pertrechos.
Según informa la agencia que no es para nada improvisada, hacia finales de octubre comenzaban las maniobras militares en las que se lanzarían hacia el área continental misiles Rapier. La pregunta es: ¿lanzaron acciones bélicas en aguas argentinas? ¿Pudiera ser que el submarino haya sido dañado sea por Gran Bretaña como por EE.UU.?
Se presupuso que no, que los misiles Rapier son tierra-aire y de corto alcance –lo que imposibilitaría la avería–, pero el submarino ARA San Juan estaba en misión secreta en aguas de exclusión y en la zona donde estaban los británicos.
El misterio de los posicionamientos impidió la comunicación con la base para evitar detectar el lugar dónde operaban, pero no se entiende qué motivó la privatización de la comunicación vía satelital con una empresa extranjera, aunque no deja de llamar la atención del mundo ya que se han movilizado las marinas de todos los países y “casualmente” permitieron que converjan en la zona mientras se realizan ejercicios militares en el lugar.
Lo extraño, entre tanta extrañez, es la falta de celeridad para intentar el rescate, así como las versiones encontradas entre los partes de la Armada y el Ministerio de Defensa, una descoordinación inexplicable en un hecho de características de extrema gravedad. Las familias no están informadas, según aseguran fuentes de noticias al minuto, de la situación que padecen o padecieron sus familiares, y esto de por sí se suma a los hechos de extrema gravedad que preocupan a un sector de la población nacional y llama la atención en el exterior.
Otro detalle no menor lo marcaría un problema en el sistema de baterías, hecho que fue negado en principio aunque luego la Marina salió a reconocer que sí lo hubo. Vaya a saber quién dice la verdad.
Entre mentiras, especulaciones, noticias que dicen y desdicen los medios que llamo (des) informativos es más que evidente que vuelven a mentir, tal su costumbre.
Se habló de un incendio en un tanque, se dijo que el submarino continuó navegando, se dijo que al haber fallas en las comunicaciones el submarino debía haber emergido pero no lo hizo.
Dimes y diretes que nos recuerdan el tratamiento infame que se ha brindado por parte de la prensa nacional respecto al asesinato del joven Santiago Maldonado, cuando hasta se especuló con afirmaciones “los motivos de su muerte”, tratando de embarrar la cancha en un caso tan espeluznante sucedido en medio de una brutal represión al Pueblo Mapuche, históricamente despojado pero nunca de su dignidad.
La desinformación preocupa demasiado, éticamente no se debería jugar con la sensibilidad de las familias de los 44 marinos que hoy nadie sabe en qué se situación real se encuentran.

domenica 26 novembre 2017

GUATEMALA: ¿POR QUÉ LA MINERÍA ES CUESTIONABLE? EL CASO DE LA MINA MARLIN, por Marcelo Colussi

© Benjamin Schwab
Alzar la voz contra la industria minera tal como se está haciendo en Guatemala hoy día no es un capricho: ¡es una medida imprescindible en favor de la salud de la población y en defensa del medio ambiente!
La minería es vital para las sociedades; el desarrollo humano hace uso creciente de metales y diversos minerales. Desde la aparición del cobre hace 9,000 años hasta los elementos hoy conocidos como estratégicos (coltán, niobio, torio –futuro sustituto del petróleo–), la historia de la humanidad va de la mano de la investigación minera.
¿Qué es lo cuestionable entonces? La forma en que se hace la explotación, el descuido y desprecio de las poblaciones, la búsqueda de lucro empresarial a cualquier costo. El caso de la mina Marlin, en Guatemala, lo evidencia de modo patético.
La empresa minera Montana Exploradora de Guatemala S.A., subsidiaria de la transnacional canadiense Goldcorp Inc., es propietaria del proyecto minero Marlin. Inició exploraciones en territorio maya-mam y maya-sipakapense en 1996 (municipios de Sipakapa y San Miguel Ixtahuacán, departamento de San Marcos), con una licencia del Ministerio de Energía y Minas. En 2003 el Ministerio de Ambiente aprobó el “Estudio de Evaluación de Impacto Ambiental y Social” presentado por la empresa. Dos meses después, Energía y Minas otorgó licencia a la minera para explotar oro y plata. Ambas resoluciones carecen de validez, pues no se realizó una consulta ciudadana para consensuar el proyecto en cuestión, tal como lo estipula el artículo 15.2 del Convenio 169 de la Organización Internacional del Trabajo –OIT–, que también es ley guatemalteca, y que obliga a hacer un referéndum para tomar este tipo de decisiones. La mina Marlin comenzó operaciones, saltando estas regulaciones legales, en 2005.
En Sipakapa, el pueblo maya-sipakapense realizó una consulta popular en 2005, donde el 99% de la población dijo no a la actividad minera en su territorio, sabiendo de los severos daños medioambientales y sanitarios que la misma podría acarrear, tal como sucedió en otros puntos del planeta, de lo que ya existe copiosa información. El resultado del plebiscito fue ignorado por el gobierno y la empresa.
La explotación minera implica la desaparición de 142 hectáreas de bosques y suelos en los primeros dos años de operaciones, y una eliminación de cobertura boscosa de 289 hectáreas al final de las actividades. La operación genera 170 barriles de desechos mensuales (una tercera parte son desechos orgánicos), con una estimación total de 23 a 27 millones de toneladas de residuos al final del proyecto.
Los desechos generarán una escombrera con 38 millones de toneladas de basura. Dicha área se extenderá en 157 hectáreas, y el depósito de lodos en 150 hectáreas, existiendo una alta probabilidad de liberación de aguas ácidas del material depositado en la escombrera en época de lluvias, así como de ocurrencia de derrames con consecuentes riesgos sanitarios y ambientales para las poblaciones, el entorno y las especies acuáticas.
La empresa perfora 60 pozos de 7 metros de profundidad para detonaciones diarias. Producto de las detonaciones se han ocasionado daños en viviendas ubicadas en sus inmediaciones. Desde el inicio de operaciones, las poblaciones de las aldeas locales han padecido una creciente escasez hídrica. En la población maya-mam de San Miguel Ixtahuacán se han secado 6 pozos.
Parte de los deshechos de la mina van a parar a los ríos Cuilco y Tzalá y sus afluentes, que son las principales fuentes de agua de la región para consumo y actividades de subsistencia. A partir de su contaminación, aparecen los problemas de salud. Existen altas concentraciones de cobre, aluminio, manganeso y sobre todo arsénico. Todo ello ocasiona diversas afecciones dermatológicas, gástricas, neurológicas, y en muchas ocasiones: cáncer.
Más allá de pomposas declaraciones de gobierno y empresa, la realidad es cruel. Denuncias de afectación en la salud en la población de Sipakapa y San Miguel Ixtahuacán por el consumo de aguas contaminadas surgieron desde casi los inicios de las operaciones de la mina. Dichas denuncias se basaban en: a) problemas de salud por trabajar en la mina; y b) problemas de salud provocados por la supuesta contaminación de las fuentes de agua, o escasez debido a la secada de los ríos. Pero dichas denuncias siempre fueron desvirtuadas por la empresa y por el Estado.
En 2010, la Comisión Interamericana de Derechos Humanos –CIDH– otorgó medidas cautelares a favor de 18 comunidades del pueblo indígena maya. La CIDH solicitó al Estado de Guatemala que suspenda la explotación de la mina Marlin, e implementar medidas efectivas para prevenir la contaminación ambiental, hasta tanto la Comisión adoptara una decisión sobre el fondo de la petición asociada a esta solicitud de medidas cautelares. Pero en 2011, contrariando la voluntad popular, la Comisión Interamericana de Derechos Humanos, obviamente por presiones recibidas de parte de la empresa, modificó las medidas cautelares que había otorgado. Por lo pronto, suprimió la solicitud de suspensión de las operaciones de la mina, de descontaminar las fuentes de agua y de atender los problemas de salud.
La mina Marlin extrae minerales a partir de 2003, pero desde 2012 solo trabaja su subsuelo. Tiempo atrás su director informó que la mina iría cerrando paulatinamente para finalizar operaciones en 2016. Sin embargo, en 2014, solicitó una prórroga y nuevo subsuelo para trabajar. Por ley, una mina en Guatemala dispone como máximo de 20 kilómetros cuadrados para explotar su superficie y su subsuelo por un lapso de 25 años. La estrategia de Montana para continuar al menos dos años más fue restar un kilómetro ya explotado que no rendía para agregar otro kilómetro cuadrado con potencial en su subsuelo, que no forma parte de su área de explotación. La maniobra le permitió seguir operando. Y el Estado aprobó la jugarreta.
La autorización fue firmada a principios de enero de 2016; Montana fue notificada de la autorización el 11 de enero de 2016, tres días antes de que concluyera el mandato del presidente provisional Alejandro Maldonado. Un mes después, el proyecto siguió adelante bajo la presidencia del nuevo mandatario Jimmy Morales. Finalmente, por las presiones populares, la mina cerró en mayo de 2017.

giovedì 23 novembre 2017

A WAIT-AND-SEE CONFERENCE ON CLIMATE CHANGE, by Andrea Vento (GIGA – Self-organised Geography Teachers Group)

IN DUE LINGUE (Inglese, Italiano)
IN TWO LANGUAGES (English, Italian)

© World Meteorological Organization
The great hopes for a historical understanding to contain global warming, caused by the proclamations of world leaders prior to the recent UN Climate Change Conference, have evaporated.
The ‘climate’ of confidence surrounding the conference – held in Bonn from November 6 to 17, officially known as the 23rd session of the Conference of the Parties (COP23) and presided over by Fiji – soon disappeared into thin air as environmental experts looked at what had been achieved.
Criticism has centred on the failure to establish a “compliance control committee” and a “sanctioning mechanism” against countries which do not respect the commitments they have entered into.
In practice, these are legally non-binding agreements, implementation of which is linked only to the environmental sensitivity and political determination of the various governments, but which are often however heavily influenced by enormous economic interests, primarily those of the multinationals in the energy and automotive industries.
The Bonn Conference, which many believed should have accelerated action and set more stringent rules on measures to combat climate change, ended without any major decision, so that a kind “supplementary session” will take place at the Paris summit in December.
This was a partially announced failure which was confirmed by the absence of the most important world leaders (except Angela Merkel and Emmanuel Macron) and the great international media circus, which largely deserted the event.
However, despite their low profile, four decisions were worthy of note:

• approval of a Gender Action Plan (certainly appreciable, but which does not contain significant relevance for climatic problems);
• recognition of the role of “indigenous peoples” (officially considered a resource, not an obstacle) in combating climate change, conserving biodiversity and protecting the environment;
• activation of the Thematic Working Group – TWG – on Agriculture, Food Security and Land Use (after six years of evanescent negotiations, it was recognised at COP23 that climate change aggravates the food insecurity of the most fragile populations and that, at the same time, today’s “agro-industrial” agricultural practices account for about 21% of total greenhouse gas emissions, necessitating a radical rethinking of the agribusiness sector);
• sanctions for “exceeding” by local entities – regions, cities, municipalities, indigenous communities, etc. – on the official representations of States (the case of California is emblematic: despite Trump ignoring the Paris Agreement, in Bonn its governor Jerry Brown announced that he would honour the commitments made).

For all the rest we are at a complete impasse.
In real terms, no significant decisions were made regarding the following:

• a compensation mechanism for loss and damage;
• funding of compensation measures designed to induce developing countries to reduce emissions;
• transparency of the funding to be granted for implementation of mitigation and adaptation measures.

Responsibility for failure is mainly due to the national selfishness of the most industrialised countries, which, although they claim to want to move forward regardless of Trump’s positions, have distinguished themselves by their absence or “vague” declarations. Take German Chancellor Merkel, for example, who first said that “climate change is an issue determining our destiny as mankind – it will determine the wellbeing of all of us”, before carefully changing tack: “it is not easy” to meet the commitments to end coal-fired power stations due to “social and job issues”, de facto postponing the decarbonisation of energy in her country to an unspecified date.
According to Merkel, doing so now would lead to an increase in the cost of energy.
The failure of the work of the climate conference is summarised in the concluding document, which explicitly calls on UN Secretary-General António Guterres to take care that Member States actually put in practice what has been decided.

The present state of the atmosphere

While the ritual comedy of wait-and-see and inconsistency took to the stage in Germany, reports on the subject published by various research institutes were photographing an alarming evolution of both the chemical composition of the atmosphere and global weather and climate conditions.
According to the climate report issued at the beginning of November by the World Meteorological Organization (WMO), the concentration of CO2 (the main greenhouse gas) in the atmosphere has now stabilised at well over four hundred parts per million – rising, in fact, from the 400 recorded in 2015 to 403.3 at the end of the following year.
This represents a structural overrun of the safety threshold set at 350, beyond which the possibilities of reduction become extremely complex.
Indeed, even if we were able to completely eliminate pollutant emissions today, the concentration of CO2 in the atmosphere would continue to increase for a few decades – because of the inertia of the phenomenon –, making it difficult to return to under this threshold.
This particularity, typical of complex systems, has been confirmed by the annual report of the Netherlands Environmental Assessment Agency (NEAA), which shows that in 2016 – for the third consecutive year – global CO2 emissions remained unchanged, but this has not, however, served to contain the increase of concentration in the atmosphere.

UNA CONFERENZA SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI ALL’INSEGNA DELL’IMMOBILISMO, di Andrea Vento (Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

© World Meteorological Organization
Le grandi speranze in un’intesa storica per il contenimento del riscaldamento globale, suscitate dai proclami dei leader mondiali precedenti la recente Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sono evaporate.
Il ‘clima’ di fiducia che circondava la conferenza - tenutasi a Bonn dal 6 al 17 novembre, ufficialmente nota come 23a sessione della Conferenza delle Parti (COP23) e presieduta dalle isole Figi - è subito scomparso nel nulla nel momento in cui gli esperti ambientali hanno analizzato quanto era stato realizzato.
Le critiche si sono concentrate sulla mancata istituzione di un «comitato di controllo per il rispetto delle disposizioni» e di un «meccanismo sanzionatorio» per i Paesi che non rispettano gli impegni sottoscritti.
In pratica si tratta di accordi giuridicamente non vincolanti, la cui messa in atto è legata soltanto alla sensibilità ambientale e alla determinazione politica dei vari governi, che però molto spesso sono condizionati da enormi interessi economici, in primis quelli delle multinazionali del settore energetico e automobilistico.
La Conferenza di Bonn, che in molti credevano avrebbe dovuto accelerare l’azione e fissare regole più stringenti sulle misure per combattere i cambiamenti climatici, si è conclusa senza alcuna decisione di rilievo, tant’è che al vertice di Parigi di dicembre si terrà una sorta di “sessione suppletiva”.
Un fallimento in parte annunciato che è stato confermato dall’assenza dei più importanti leader mondiali (ad eccezione di Angela Merkel ed Emmanuel Macron) e del grande circo mediatico internazionale, che ha in buona parte disertato l’evento.
Tuttavia, nonostante il loro basso profilo, quattro sono state le decisioni degne di nota:

• approvazione di un Gender Action Plan (sicuramente apprezzabile, ma che non ha un’importanza significativa per i problemi climatici);
• riconoscimento del ruolo dei «popoli indigeni» (considerati ufficialmente una risorsa, non più un ostacolo) nella lotta ai cambiamenti climatici, nella conservazione della biodiversità e nella salvaguardia dell’ambiente;
• attivazione del Gruppo di lavoro tematico - TWG - sull’agricoltura, la sicurezza alimentare e l’uso del suolo (dopo sei anni di trattative evanescenti, alla COP23 è stato riconosciuto che i cambiamenti climatici aggravano l’insicurezza alimentare delle popolazioni più fragili e che, contemporaneamente, le odierne pratiche agricole “agro-industriali” incidono sulle emissioni di gas serra all’incirca per il 21% del totale, imponendo un radicale ripensamento del settore dell’industria agroalimentare);
• sanzione del “sorpasso” delle realtà locali - regioni, città, comuni, comunità indigene ecc. - sulle rappresentanze ufficiali degli Stati (il caso della California è emblematico: nonostante Trump abbia disconosciuto l’accordo di Parigi, a Bonn il suo governatore Jerry Brown ha annunciato che manterrà le promesse fatte).

Per tutto il resto ci troviamo in un’impasse totale.
Nella pratica non sono state prese decisioni significative in merito a quanto segue:

• un meccanismo di risarcimento dei danni e delle perdite;
• finanziamento delle misure di compensazione finalizzate ad indurre i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni;
• trasparenza dei finanziamenti da concedere per la realizzazione delle misure di mitigazione e adattamento.

Le responsabilità del fallimento sono riconducibili principalmente agli egoismi nazionali dei Paesi più industrializzati, che, benché proclamino di voler andare avanti a prescindere dalle posizioni di Trump, si sono distinti per la propria assenza oppure per dichiarazioni “fumose”. Ne è un esempio la cancelliera tedesca Merkel, che inizialmente ha affermato che «il cambiamento climatico è una questione che definisce il nostro destino in quanto genere umano - essa determinerà il benessere di tutti noi», salvo poi correggere prudentemente il tiro: «non è facile» onorare l’impegno assunto di chiudere le centrali a carbone a causa di «problemi sociali e legati all’occupazione», rinviando di fatto a tempi imprecisati la decarbonizzazione energetica nel suo Paese.
Secondo Merkel, al momento ciò comporterebbe un aumento del costo dell’energia.
Il fallimento dei lavori della conferenza sul clima si trova riassunto nel documento conclusivo, in cui si richiede in modo esplicito al segretario generale dell’Onu António Guterres di preoccuparsi che gli Stati membri mettano effettivamente in pratica quanto è stato deciso.

Lo stato attuale dell’atmosfera

Mentre in Germania andava in scena la rituale commedia delle parti fatta di attendismo e inconsistenza, i rapporti in materia pubblicati da vari istituti di ricerca fotografavano un’allarmante evoluzione sia della composizione chimica dell’atmosfera che delle condizioni meteo-climatiche globali.
Secondo il report sul clima diffuso ad inizio novembre dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), la concentrazione di CO2 (principale gas serra) in atmosfera si è ormai stabilizzata ben oltre le quattrocento parti per milione - passando infatti dalle 400 rilevate nel 2015 alle 403,3 della fine dell’anno successivo.
Ciò rappresenta uno sforamento strutturale della soglia di sicurezza fissata a quota 350, oltre la quale le possibilità di riduzione diventano estremamente complesse.
Per l’appunto, anche se oggi riuscissimo ad eliminare del tutto le emissioni inquinanti, la concentrazione di CO2 in atmosfera continuerebbe ad aumentare per alcuni decenni - a causa dell’inerzia del fenomeno - rendendo problematico il rientro sotto tale soglia.
Questa particolarità, tipica dei sistemi complessi, è confermata dal rapporto annuale dell’Agenzia olandese di valutazione ambientale (NEAA), da cui risulta che nel 2016 - per il terzo anno consecutivo - le emissioni globali di CO2 sono rimaste invariate, ma ciò non è servito, tuttavia, a contenerne l’aumento della concentrazione in atmosfera.

martedì 21 novembre 2017

CHILE EN CUATRO CHISPAZOS, por Tito Alvarado

Dónde están, 2015 © Serye / Sergio Alejandro Fierro Pacheco
1) Violencia en despoblado
El senador Fulvio Rossi fue apuñalado en Iquique, sufrió lesiones en el rostro y un corte en el abdomen (El Mostrador, 15 de noviembre 2017). Al momento de terminar esta nota ya no es senador, pues en las elecciones del 19 de noviembre no fue electo.
Dice la nota periodística: El senador, quien fue encontrado tendido en el suelo por uno de sus brigadistas, fue trasladado hasta el hospital regional Ernesto Torres Galdame, donde se constató que presentaba lesiones leves. El gobierno, a través de la ministra vocera, Paula Narváez, condenó el hecho, anunció que estudia querellarse contra los autores del hecho y expresó que “no puede ser que en ningún contexto, ni en el contexto de una campaña política, ni en el contexto de la vida cotidiana de las personas, ni en el desempeño habitual de las instituciones, la violencia puede tener un lugar en nuestras relaciones como sociedad”.
Dos cosas se pueden decir al respecto.
La primera es que los tales asaltantes tienen más de tongo que de asaltantes con motivaciones políticas. El ahora ex senador se había enfrascado en una campaña contra los inmigrantes. Si esta es la motivación, los asaltantes eran personas poco duchas en estos asuntos, las lesiones fueron leves, casi como rasguños. Justo lo preciso para hacer noticia.
La segunda es que la señora ministra vocera parece que no vive en el mundo real del Chile actual. La inseguridad es tal que en todas partes la gente vive con miedo, enrejadas sus ventanas y puertas. Los crímenes tienen una alta cuota de violencia y efectividad, así lo demuestran los llamados “portonazos”: en pocos segundos le quitan a alguien su auto cuando abre el portón y lo golpean para dejarlo inconsciente. También hay una violencia que pudiéramos llamar pasiva: las noticias de corrupciones, la doble moral en la aplicación de la justicia, la desigualdad social, la estafa permanente de las AFP (empresas de gerencia privada de las jubilaciones), el alto costo del agua y de la luz, el peaje en las carreteras, etc. Un examen más detallado de lo expresado por la señora Narváez nos permite asegurar que ella tiene razón, es decir, la violencia no debería estar presente en la vida de la gente, pero la cruda realidad demuestra que sí está. Y es aquí donde ella no quiere entender cual es su responsabilidad, la del gobierno, las instituciones y las políticas implementadas. Cuando en un servicio administrado por el gobierno se mueren niños y luego se comprueban los malos tratos recibidos por quienes se supone están en la misión de cuidarles, es que algo grande anda mal en la forma en que se ve al resto y en la forma en que se le encasilla a la gente.
El asunto no se resuelve con una declaración, se resuelve con capacidad de ver la realidad y voluntad de cambio, ambas cosas que no están en el horizonte de estos gobernantes.
Un personaje de funesta trayectoria para Chile en su tiempo pasado –fue enemigo jurado del Gobierno popular y propició el golpe– ahora goza de un puesto de virrey, es senador (no se sabe por que lugar), aunque por fortuna ha dejado de ser: fue derrotado en su circunscripción.
En entrevista con T13, el (entonces) presidente del Senado, Andrés Zaldívar, condenó el ataque contra el (ex) senador Fulvio Rossi, manifestando que “inmediatamente” la Cámara Baja “tendrá que tomar acciones”.
“Con el desprestigio de la política y lo que está sucediendo, cualquier persona se siente como un justiciero y como que puede hacer acciones dementes. Hay que tomar nota, espero que el país tome nota”, declaró.
Este señor tiene mucha lengua, mala memoria y pasado tórrido. Siempre ha estado del lado opuesto del bien común. En su momento creó una ola de pánico asegurando que el Gobierno popular sería el descalabro total de la economía –en realidad era una forma velada de proponer un plan de sabotaje al gobierno del presidente Allende–, fue consumado golpista y mientras la dictadura ejercía sin tabas la represión más brutal, este señor escribió un libelo diciendo que la Democracia Cristiana no debía inmiscuirse en los avatares de la izquierda, es decir, proponía mirar para otro lado cuando la demencial DINA ejerciera su trabajo de allanar, torturar, asesinar, hacer desaparecer personas. Ya bajo el alero de la “democracia” de pacotilla que hay en Chile, este señor, en una acción demente, promovió una ley de pesca que fija dueños del mar, por supuesto a grandes compañías. Ahora el se preocupa de la violencia, como si cada uno de sus actos no significaran violencia para los de abajo. Buen fin ha tenido este pequeño señor, despreciado por sus potenciales votantes.

2) La cruda verdad de esconder la mano militar
El periódico digital El Mostrador titula una de sus notas de la siguiente forma: “Londres 38 desacredita informe de comandante en jefe del Ejército sobre archivos de la CNI incinerados” (17 de noviembre 2017). En Londres 38 funcionó un centro de torturas de la dictadura que ahora es un centro de defensa de los derechos humanos. El título contiene dos afirmaciones malintencionadas: con la palabra desacredita está predisponiendo al lector a estar en contra de lo que dice Londres 38; la palabra incinerados, puesta en este contexto, pasa de ser una verdad a ser una afirmación de verdad, inmaculada, cuando lo que asegura la organización Londres 38 es que no es creíble esa versión.
La nota dice: A raíz del nombramiento de Ricardo Martínez Menanteau como nuevo comandante en jefe del Ejército y su firma en un documento sobre la investigación que realizó la institución sobre la quema de archivos en microfilm de la Central Nacional de Información (CNI), y que “confirma y acredita con certeza la inexistencia de información de inteligencia y contrainteligencia archivada entre los años 1980 y 1982”, el centro de memoria Londres 38 manifestó que dicho informe “no puede considerarse una fuente fiable para acreditar la inexistencia de estos archivos”.

domenica 19 novembre 2017

‘TIMOCHENKO’ PRESIDENT OF COLOMBIA?, by Marcelo Colussi

IN DUE LINGUE (Inglese, Spagnolo)
IN TWO LANGUAGES (English, Spanish)

Signing of the peace agreement between Juan Manuel Santos and commander
Timochenko. Cartagena de Indias, September 26, 2016 © Presidency El Salvador
Rodrigo Londoño Echeverri, better known by his nom de guerre ‘Timochenko’, leader of the Revolutionary Armed Forces of Colombia (FARC), intends to run for the presidency of his country. It is difficult to predict what will happen in the next presidential elections in May 2018 but, if won by Timochenko, what might happen?
First of all, two considerations: 1) deepest respect for the struggle of an armed revolutionary movement such as FARC, and 2) this is no whimsical exercise in futurology.
This is to make it clear that in no way can the participation be called into question of a leftist force – until recently up in arms – in an electoral contest within the framework of the monitored and “drop by drop” democracies that the capitalist system can permit. In any case, this participation is a political manoeuvre, perhaps useful at this time (perhaps, even the only possible in the current circumstances), and it can in no way be judged. Political struggle, of course, allows for many variants.
At the same time, as another indispensable consideration for completing the above, in no way is continuation of revolutionary armed struggle being called for. It is patently obvious that, at this point in time, there is no political space for this to grow, differently from what happened in the Latin American context five decades ago.
Even more: there is not even the slightest space for it to come to life, but this is only valid at this precise moment, now that we are at the height of neoliberalism and demobilisation of the popular camp.
How will revolutionary struggle for social change continue in the future? We don’t know. Guerrillas are likely to rearm, why not? But today, there are definitely no possibilities for that to happen. Will hackers be an option, or electoral victory in local administrations, like city halls? It’s not clear. It will have to be invented.
What would happen if Timochenko won the elections?
This does not pretend to be an analysis of the personal figure of this Colombian guerrilla; it is, however, an attempt to interpret a complex reality, where the FARC’commander who becomes a politician within the framework of the current institutional system has limited – perhaps very limited – space for manoeuvre.
For now, the bulk of the commercial press is criminalising him. He is already being accompanied by a chorus of clichés about Castro-communism and the failure of Chavism.
However, what is important is looking at the limited space available to Timochenko. What can be modified within the capitalist institutional system? Is it possible to modify something? Is it worth attempting? Why enter the electoral contest as a political party more than the ruling class?
All these questions deserve long and complex analysis. Here the aim is not to be exhaustive, but to give some indications.
How far can something substantial be changed within the system of bourgeois political parties? Experience shows that there are insurmountable limits. Social democracy (capitalism with a human face, Keynesian policies, “humanist” regulations within the ruthless logic of the market) has achieved fairly balanced societies, but only in very few countries.
In fact, this presupposes an international division of labour where capitalist profit reaches a few places that can afford such “luxuries”.
Why are there no social democratic proposals in most nations of the so-called Third World? Because the exploitation and extraction of surplus value does not allow the product of social work (the wealth generated by work) to be distributed with equity, since that difference is the precondition for the offensive wealth of the ruling class.
Even if the wealth cake were to be shared by all, the system does not allow its equitable distribution, because it contains in itself that insurmountable negation: the rich are rich since there are poor, period.
If it was a matter of equitably distributing this wealth by achieving true social justice, the capitalist system cannot allow it, even if it wanted (and it does not want to!). The most it can aspire to is a scheme where the state plays a regulatory role, facilitating social policies that moderately benefit the majority. But it cannot go beyond that.
So the game of the political parties of the right cannot go beyond a relative regulation of the income generated by the working class. Really equating living conditions by empowering workers is absolutely impossible. This is socialism!
Put another way: bourgeois political parties are there to administer the system, not to change it. The FARC, like any revolutionary group that took up arms, tried to change the system, not to administer it with neat and measured correction, not with jacket and tie and being “well-dressed”, following the dominant logic. If Timochenko were to become president, could he change basic structures? Or … will he have to put on his jacket and tie?
History shows – unfortunately with much blood and pain in between – that real changes via ballot boxes are not possible. Every time an administration that emerged from a popular election within the framework of capitalism wanted to go beyond what the system allows – like Salvador Allende in Chile or Jacobo Árbenz in Guatemala – it was hit hard. In any case, the system allows cosmetic changes, nothing more. Could Rodrigo Londoño ‘Timochenko’ change that?

¿‘TIMOCHENKO’ PRESIDENTE DE COLOMBIA?, por Marcelo Colussi

IN DUE LINGUE (Spagnolo, Inglese)
EN DOS IDIOMAS (Español, Inglés)

Firma del acuerdo de paz entre Juan Manuel Santos y el comandante Timochenko.
Cartagena de Indias, 26 de septiembre de 2016 © Presidencia El Salvador
Rodrigo Londoño Echeverri, mejor conocido por su nombre de guerra ‘Timochenko’, líder de las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), aspira a la presidencia de su país. Es difícil predecir qué sucederá en las próximas elecciones presidenciales en mayo de 2018, pero de ganarlas Timochenko, ¿qué podría pasar?
Ante todo, dos consideraciones: 1) el más profundo respeto por la lucha de un movimiento revolucionario armado como las FARC, y 2) esto no es un caprichoso ejercicio de futurología.
Decimos esto para que quede claro que en modo alguno se está cuestionando la participación de una fuerza de izquierda –hasta hace poco alzada en armas– en una justa electoral dentro de los marcos de las democracias vigiladas y “a cuentagotas” que puede permitir el sistema capitalista. En todo caso, esa participación es una maniobra política, quizá útil en este momento (quizá, incluso lo único posible en las actuales circunstancias), y de ningún modo podríamos enjuiciarla. La lucha política, por supuesto, admite muchas variantes.
Al mismo tiempo, como otra consideración indispensable para completar lo anterior, de ningún modo se está llamando a continuar la lucha revolucionaria por vía armada. Eso, lo vemos en forma descarnada, en este momento no tiene espacio político para crecer, distintamente a lo que ocurrió en el contexto latinoamericano cinco décadas atrás.
Más aún: no tiene el más mínimo espacio siquiera para nacer, pero eso es válido sólo en este momento puntual, ahora que estamos en el auge del neoliberalismo y la desmovilización del campo popular.
¿Cómo seguirá la lucha revolucionaria por un cambio social en el futuro? No lo sabemos. Es probable que se rearmen guerrillas, ¿por qué no? Pero hoy por hoy, definitivamente no hay posibilidades. ¿Los hackers serán una opción, o la victoria electoral en poderes locales, como alcaldías? No está claro. Habrá que inventarlo.
¿Qué pasaría si Timochenko ganara las elecciones?
El presente no pretende ser un análisis de la figura personal de este guerrillero colombiano; es, en todo caso, una tentativa de interpretar una realidad compleja, donde el comandante de las FARC devenido político en los marcos de la actual institucionalidad tiene un limitado –quizá muy limitado– margen de acción.
Por lo pronto, el grueso de la prensa comercial lo criminaliza. El latiguillo del castro-comunismo y el fracaso del chavismo es el coro que le acompaña ya desde ahora.
Sin embargo, lo que es importante es llamar la atención sobre el limitado margen que Timochenko tiene. ¿Qué es posible modificar dentro de la institucionalidad capitalista? ¿Es posible modificar algo? ¿Vale la pena intentarlo? ¿Para qué entrar en la contienda electoral como un partido político más de la clase dominante?
Todas estas preguntas merecen largos y complejos desarrollos. Un pequeño texto como el actual no pretende agotarlas, pero sí dejarlas indicadas.
¿Hasta dónde se puede cambiar algo sustancial dentro del sistema de partidos políticos burgueses? La experiencia muestra que hay límites infranqueables. La socialdemocracia (capitalismo con rostro humano, políticas keynesianas, regulaciones “humanistas” dentro de la lógica despiadada del mercado) ha logrado sociedades medianamente equilibradas, pero solo en muy contados países.
De hecho, eso presupone una división internacional del trabajo donde la renta capitalista llega a unos pocos lugares que se pueden permitir esos “lujos”.
¿Por qué no resultan los planteos socialdemócratas en la mayoría de naciones del llamado Tercer Mundo? Porque la explotación y extracción de plusvalía no permite repartir con equidad el producto del trabajo social (la riqueza generada por el trabajo), pues esa diferencia es la condición previa de la insultante riqueza de la clase dominante.
Aunque el pastel de riqueza da para todos, el sistema no permite su repartición equitativa, porque contiene en sí mismo esa negación insalvable: los ricos son ricos porque hay pobres, y punto.
Si se trata de repartir equitativamente esa riqueza logrando una auténtica justicia social, el sistema capitalista no lo puede permitir, aunque quisiera (¡y no quiere!). Lo más a que puede aspirar es a un esquema donde el Estado juega un papel regulador, facilitando políticas sociales que beneficien medianamente a las mayorías. Pero no puede ir más allá.
Entonces el juego de los partidos políticos de la derecha no puede ir más allá de una relativa regulación de la renta generada por la clase trabajadora. Igualar realmente las condiciones de vida confiriendo poder a los trabajadores está absolutamente imposibilitado. ¡Eso es socialismo!
Dicho de otro modo: los partidos políticos burgueses están para administrar el sistema, no para cambiarlo. Las FARC, como cualquier grupo revolucionario que se alzó en armas, intentaron cambiar el sistema, no administrarlo con prolijidad y mesurada corrección, no con saco y corbata y “bien portados”, según la lógica dominante. Si Timochenko llegara a ser presidente, ¿podría cambiar estructuras de base? O… ¿tendrá que ponerse el saco y la corbata?
La historia demuestra –lamentablemente con mucha sangre y dolor de por medio– que esos cambios reales vía urnas no son posibles. Toda vez que una administración surgida de una elección popular en los marcos del capitalismo quiso ir más allá de lo que el sistema permite –como Salvador Allende en Chile o Jacobo Árbenz en Guatemala– fue duramente golpeada. En todo caso, el sistema se permite cambios cosméticos, no más. ¿Podría Rodrigo Londoño ‘Timochenko’ cambiar eso?

venerdì 17 novembre 2017

FINO A BONN IN BICICLETTA PER LA COP23 SUL CLIMA: INTERVISTA AD ANTONIO MARCHI, di Donatello Baldo

Il sindaco di Bonn riceve Antonio Marchi e gli altri «reduci», 10 novembre 2017
È tornato oggi [il 12 novembre (n.d.r.)], il ritorno l’ha fatto con FlixBus, ma l’andata Venezia-Bonn se l’è pedalata tutta: dieci tappe, 1.200 chilometri oltrepassando il passo del Brennero (fortunatamente senza neve). Sono partiti in cento, fino a Borgo Valsugana erano in settanta, a Monaco di Baviera ventisei e all’arrivo sono rimasti in quattordici.
«Alcuni ci hanno voluto accompagnare per qualche centinaio di chilometri, in maniera simbolica - racconta Antonio Marchi - fino a Bassano del Grappa c’era anche Moreno Argentin». Sono andati a Bonn in occasione della COP23, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che affronta anche il tema del riscaldamento globale.
«Siamo stati accolti dal sindaco con tanto di fascia tricolore - continua - i soliti ricevimenti, che però oltre la formalità fanno trasparire anche tanta umanità. Il nostro intento era quello di dare un segnale, di partecipare, di prender parte su un tema enorme che avrà a che fare con la vita delle future generazioni».
«La questione è una - chiarisce - curare il clima finché siamo in tempo. Ma tutti parlano e nessuno fa mai niente. Poi arriva il Trump di turno e quel poco che si sta facendo rischia di andare a rotoli. Ma anche gli Americani si accorgeranno che così non si può andare avanti, la questione è anche economica: l’economia è alla base di tutto».
«L’idea è partita dal Pedale Veneziano, non nuovo a imprese del genere. Questo gruppo di ciclisti è andato anche Parigi - aggiunge - sempre per la Conferenza sul clima [del 2015 (n.d.r.)], ma negli anni scorsi è arrivato fino a Pechino: 12 mila chilometri». Marchi era l’unico trentino del plotone, «anche se a dire il vero sono trentino solo di adozione; io sono trevigiano, di Villorba».
Appassionato di bici ma anche di politica, non è uno che pedala per fare le gite fuori porta. «Scherzi? Io sulla bicicletta ci sono nato e cresciuto, per tre anni ho svolto un percorso da professionista, prima fra gli Esordienti e poi fra gli Allievi. Senza enfasi - dice modestamente - ma ero una speranza del ciclismo trevigiano: i risultati c’erano, la passione anche».
Quelli che al tempo gareggiavano con lui hanno fatto carriera. «Giovanni Battaglin, Claudio Bortolotto - cita alcuni nomi - ma anche Francesco Moser, che ha la mia stessa età. Ma poi c’è stato l’incidente: nel 1969 ad Asolo, mentre correvo, in seguito a uno scontro con un’auto ho avuto la paralisi del braccio sinistro».
«Grazie a un gruppo di amici, di compagni - sottolinea - sono uscito dalla disperazione che ne è seguita ed è partita la mia battaglia politica». Con loro fondò un Centro di cultura proletaria, che diverrà poi l’embrione dell’esperienza politica che più lo ha segnato, quella di Lotta Continua.
Aveva anche ripreso la bicicletta. «Il fisico c’era (anche senza un braccio), ma mi era passata l’ossessione per il risultato». La politica prevaleva sull’agonismo. «Con Lc siamo andati avanti fino agli anni ‘80 - spiega - ben oltre lo scioglimento del 1976. Ma con la strage di Bologna abbiamo chiuso i battenti: avevamo capito che in Italia sarebbe stato impossibile fare la rivoluzione».
Tuttavia la determinazione del combattente non l’ha mai persa, anche di fronte alle sconfitte politiche. Da cane sciolto (si sarebbe detto un tempo) ha partecipato a mille iniziative: per la pace, per la difesa dei beni comuni, per i diritti; aggregandosi a chi organizzava le piazze della protesta o partendo in solitaria, in sella alla sua bici.
Epico, da inserire tra i guinness dell’impegno politico, il viaggio attraverso l’Italia di qualche anno fa. «Ho fatto 3.950 chilometri per ricordare i miei amici e compagni caduti, Alex Langer e Mauro Rostagno. Tutti e due avevano frequentato sociologia [a Trento (n.d.r.)], tutti e due di Lotta Continua».
Antonio Marchi ha collegato i due cimiteri: quello di Vipiteno, dove riposa Langer, e quello siciliano di Ragosia, dov’è sepolto Rostagno. «Il ritorno l’ho fatto sul litorale adriatico, mentre l’andata su quello tirrenico. A Pisa mi sono fermato per incontrare Adriano Sofri, che era stato da poco incarcerato perché ritenuto implicato nella morte del commissario Calabresi».
Ma torniamo all’oggi, all’ultima impresa. «In fondo tutto è collegato - rimarca - da anni lottiamo per un mondo migliore, da anni manifestiamo contro le guerre, e questa è un’altra guerra, perché tra le conseguenze dei cambiamenti climatici c’è la mancanza d’acqua, che genera scontri già ora: guarda quanto succede fra Israele e Palestina».
«La nostra generazione passerà il guado, ma la prossima si troverà di fronte a un problema enorme che determinerà ancora una volta la divisione del mondo tra chi ha le risorse e chi invece no, di nuovo la sopraffazione del ricco sul povero». Ancora guerre, dunque. «L’obiettivo qui è la salvezza dell’umanità intera; se viene messa in pericolo si pone a rischio il bene comune: lo scontro è inevitabile».
Marchi non si considera però un pacifista. «Davanti a questa parola un po’ mi irrigidisco - chiosa - perché sono pacifista fino a quando il rapporto è basato sul dialogo, ma poi depongo la bandiera della pace e sono pronto allo scontro: si deve tener conto che se c’è chi non ragiona, allora bisogna lottare».

giovedì 16 novembre 2017

“SIN MIEDO”, PELÍCULA IMPERDIBLE SOBRE LA DESAPARICIÓN FORZADA DE PERSONAS EN GUATEMALA, por Marcelo Colussi

Acaba de presentarse en Guatemala la película Sin Miedo, del realizador ítalo-español Claudio Zulian. Próximamente comenzará un amplio proceso de socialización del documental, llevándoselo a los circuitos de cine comercial, buscándose su difusión en la mayor cantidad de sectores de la sociedad guatemalteca y, al mismo tiempo, su exhibición en la mayor cantidad de espacios posibles fuera del país.
La realización es una producción de Acteon, Monstro Films y CDP, en coproducción con ARTE France, Alebrije Cine y Video y Óxido, en colaboración con el Programa Ibermedia.
La idea es que todo el mundo conozca de una verdad bastante o muy silenciada: Guatemala sufrió una terrible guerra interna de 36 años de duración entre 1960 y 1996. Producto de ello murieron 200.000 personas, y 45.000 fueron desaparecidas por el Estado. El 82% de esas víctimas fue población maya. Terminada la guerra, más allá del silencio de las armas, nada cambió en la estructura básica de la sociedad, pues continúa siendo uno de los países del mundo donde la distancia entre los más acaudalados y los más desposeídos es de las más abrumadoras. De hecho, con un 60% de su población bajo el límite de la pobreza (2 dólares diarios de ingreso, según la ONU), Guatemala, siendo territorio productor neto de alimentos, presenta una de las tasas de desnutrición más altas del globo.
Pasó la guerra y todo parece seguir igual. Y además, las heridas dejadas por más de tres décadas de conflicto armado, el Estado se niega a reconocerlas, y mucho más, a sanarlas. De ahí que nace esta película.
Según los realizadores, Sin Miedo nace de una extraordinaria intuición. Un grupo de familiares de personas secuestradas y desaparecidas por el ejército guatemalteco durante la dictadura militar pidió y consiguió que, entre otras muchas medidas de reparación, figurara la producción de un documental a cargo del Estado. Fue en el año 2012, cuando la Corte Interamericana de Derechos Humanos condenó por primera vez al Estado de Guatemala por estas desapariciones forzadas (más de 45.000 civiles) durante los años de la guerra civil (1960-1996). Hasta ahora el Estado se ha negado a acatar la sentencia –y producir el documental– pero los familiares no han querido esperar más. Están convencidos de que lo esencial de la cultura, de la historia y la memoria se juega ahora también en el campo del audiovisual. Es por esto que Sin Miedo es también una exploración de las formas actuales de nuestra memoria (individual y colectiva). El lenguaje del cine, la televisión, el material de archivo, los dibujos y performance nos llevan a través de la historia de esta lucha y somos capaces de ver todos sus aspectos humanos”.
El documental sigue las peripecias de un grupo de familiares en su búsqueda de justicia por la desaparición de sus allegados. Cuatro de ellos son los protagonistas de la película, quienes narran con un peculiar lenguaje la sangrienta historia de Guatemala: Miguel Ángel Arévalo, Paulo Estrada, Ofelia Salanic Chinguil y Salomón Mejía Estrada.
Según su director, Claudio Zulian, Sin Miedo existe gracias al deseo expreso del grupo de familiares de los desaparecidos, planteando así otra cuestión fundamental en el campo de la producción audiovisual contemporánea: ¿Quién habla? ¿Quién decide quién puede hablar? Desde este punto de vista, Sin Miedo es un extraordinario ejemplo de empoderamiento. El grupo de familiares de desaparecidos siempre ha tenido una clara conciencia de ello. Tan pronto como se emitió la sentencia comenzaron a trabajar: hablaron con directores, productores y técnicos; querían saber exactamente cómo crear un documental; y exploraron la manera en que se ha abordado la trágica historia reciente de América Latina en el campo audiovisual”.
Nos permitimos recomendarla, dado que constituye una pieza imperdible para conocer la historia no solo de Guatemala, sino del mundo. La Guerra Fría vivida décadas atrás, expresión de la lucha de clases a nivel global, terminó; pero el conflicto social de base sigue, y recuperar la memoria histórica es indispensable pare conocer dónde estamos parados y hacia dónde podemos ir.

mercoledì 15 novembre 2017

CRISI POLITICA IN ARABIA SAUDITA E LIBANO, di Pier Francesco Zarcone

Saad Hariri, 24 ottobre 2017 © Mohamed Azakir
Non stupisce che si tratti dell’argomento del momento per i media di mezzo mondo, giacché siamo in presenza di crisi di notevole portata che potrebbero squilibrare ancor di più il già squilibrato Vicino Oriente. E si tratta di due fatti fra loro probabilmente collegati.

LA CRISI SAUDITA

In Arabia Saudita il nuovo principe ereditario Muhammad bin Salman (nuovo perché il precedente, suo cugino Muhammad bin Nayef, è stato silurato dal medesimo padre e monarca che l’aveva designato - e non si sa quanto tutto ciò sia stato spontaneo) ha scatenato una vasta epurazione colpendo “intoccabili” che tali in fondo non erano, con l’evidente proposito di mettere in sicurezza il potere che al momento in buona parte già possiede e che domani sarà suo anche formalmente.
Gli eventi si sono svolti con tale rapidità da rivelare che il piano era già stato preparato da un certo tempo. Il 4 novembre vi sono stati due decreti di re Salman: uno destituiva il capo di Stato maggiore della Marina, licenziava il ministro dell’Economia e il capo della Guardia nazionale - vale a dire il principe Mutaib, figlio del defunto re Abd Allah e fino a poco prima figura potentissima; l’altro istituiva una Commissione anticorruzione sotto la presidenza dello stesso Muhammad bin Salman. È anche entrata in vigore una nuova e pesante legge antiterrorismo, che fra l’altro comminerà dai 5 ai 10 anni di carcere per insulto pubblico al re e/o all’erede al trono.
Nel giro di poche ore tale Commissione accusava di appropriazione indebita undici principi, quattro ministri in carica e trentotto ex ministri - al cui immediato arresto provvedeva il nuovo comandante della Guardia nazionale - alcuni di essi indagati anche ai sensi della neonata legge antiterrorismo. Nello stesso giorno si dava notizia del sequestro di beni e conti bancari degli inquisiti, proprietà e denaro che in caso di una loro condanna andranno al Tesoro nazionale.
Dal punto di vista della pura cronaca l’accusa di corruzione assomiglia allo scandalo hollywoodiano delle molestie sessuali: è infatti più che risaputo che in Arabia Saudita ciò riguarda in particolare i membri di quella vera e propria legione che è la famiglia reale; ma oggi è invece presentata come fonte di inaudito scandalo. I nomi “illustri” colpiti da re Salman portano a ritenere che si tratti di un’epurazione per la sicurezza del nuovo erede, piuttosto che rivolta a moralizzare la vita pubblica del Paese. Non pare azzardato dire che bin Salman stia sostituendo la “propria” autocrazia alla tradizionale oligarchia degli affari.
Se è vero (ma è tutto da vedere) che egli abbia neutralizzato avversari e nemici, ci sono segnali tali da far pensare a sue manovre per ottenere consenso popolare in un Paese in cui i giovani sotto i trent’anni sono il 70% della popolazione, composta al 51% da donne; a meno che non intenda avvalersi - pericolosamente - del solo esercizio del potere regio. Dovrebbero far parte della prima ipotesi i recenti provvedimenti di “modernizzazione”: bin Salman ha consentito l’apertura di cinema e l’organizzazione di concerti (prima vietati), e alle donne di guidare l’auto da sole a partire dal 2018; pare poi che abolirà la temibile polizia religiosa e il “tutorato” maschile sulle donne, e ha inoltre annunciato di voler trasformare l’Islam wahhabita del suo Paese per normalizzare i rapporti col resto del mondo sunnita. Nel frattempo ha fatto arrestare più di mille imām e teologi wahhabiti. Tra i suoi propositi di riforma religiosa c’è anche quello di rivedere criticamente i detti del Profeta (che costituiscono la Sunna, la «tradizione» sunnita), così da eliminarne quelli violenti o contraddittori. Nel mondo musulmano sunnita sarebbe qualcosa di sconvolgente. Staremo a vedere.
Con tutta probabilità - se bin Salman resterà in sella - l’Arabia Saudita passerebbe da una tirannide oscurantista ad una di tipo più o meno “illuminato”. Quali possibilità di manovra si aprano per i vari attori regionali nel Vicino Oriente è presto per dirlo, ma ne analizzeremo fra breve i maggiori sommovimenti.
Muhammad bin Salman è un personaggio che usa la forza senza problemi, non solo in politica interna: sua è infatti la responsabilità dell’aggressione allo Yemen in funzione anti-iraniana. Non si tratta di un’operazione brillante, dato che le truppe saudite le stanno “prendendo alla grande” dai ribelli sciiti Houthi e dagli Yemeniti che vogliono in ogni caso respingere questa nuova e sanguinosa avventura del tradizionale nemico saudita.
E forse la crisi governativa libanese va letta anche in rapporto agli eventi yemeniti. Nella storia non sarebbe la prima volta che un regime incapace di vincere su un fronte bellico già esistente cerchi di uscire dall’impasse aprendone un altro - nel nostro caso, in Libano. E se così fosse, non vi è dubbio che bin Salman starebbe giocando una carta pericolosa, capace di ritorcerglisi contro. Infatti, nell’ipotesi dell’aggravarsi della crisi con un più diretto coinvolgimento dell’Iran, si dovrà vedere in quale modo l’erede al trono riuscirà a compattare sotto di lui la società saudita (pur sempre fatta tradizionalmente da sudditi e tutt’altro che unita) mentre ne sconquassa i vertici operativi: corrotti sì, ma pur sempre con una certa esperienza.

LA CRISI LIBANESE

L’inizio di tale crisi va contestualizzato. Non solo per l’Arabia Saudita la guerra va malissimo nello Yemen, ma in Iraq e Siria l’Isis e i jihadisti da essa foraggiati sono stati ormai sconfitti sul campo, e non certo grazie alla fantasmatica “coalizione a guida Usa”, ma essenzialmente per la discesa in campo della Russia, dell’Hezbollāh libanese, di varie milizie popolari sciite e di “consiglieri” iraniani. È una sconfitta per l’Arabia Saudita, tanto più che può dirmi ormai aperto il cosiddetto “corridoio sciita” - da Teheran passando per Baghdad, e arrivando a Damasco e Beirut. A questo si aggiunga che il Qatar (anch’esso con governo wahhabita, ma nei giochi di potere le comunanze religiose non valgono nulla), grazie ai rifornimenti iraniani, non è stato messo in ginocchio dal blocco saudita, e che quindi Teheran - con un governo del Bahrein non molto stabile per l’agitazione della maggioranza sciita, con quella bomba ad orologeria che è la presenza sciita in zone petrolifere dell’Arabia Saudita e con gli Emirati Arabi Uniti che giustamente tentennano - ha virtualmente i numeri per estendere la sua influenza sul Golfo Persico e sugli stessi Emirati. Un pericolo mortale per Riyad.