Il sindaco di Bonn riceve Antonio Marchi e gli altri «reduci», 10 novembre 2017 |
È tornato oggi [il 12 novembre (n.d.r.)], il ritorno l’ha fatto con FlixBus, ma l’andata Venezia-Bonn se l’è pedalata tutta: dieci tappe, 1.200 chilometri oltrepassando il passo del Brennero (fortunatamente senza neve). Sono partiti in cento, fino a Borgo Valsugana erano in settanta, a Monaco di Baviera ventisei e all’arrivo sono rimasti in quattordici.
«Alcuni ci hanno voluto accompagnare per qualche centinaio di chilometri, in maniera simbolica - racconta Antonio Marchi - fino a Bassano del Grappa c’era anche Moreno Argentin». Sono andati a Bonn in occasione della COP23, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che affronta anche il tema del riscaldamento globale.
«Siamo stati accolti dal sindaco con tanto di fascia tricolore - continua - i soliti ricevimenti, che però oltre la formalità fanno trasparire anche tanta umanità. Il nostro intento era quello di dare un segnale, di partecipare, di prender parte su un tema enorme che avrà a che fare con la vita delle future generazioni».
«La questione è una - chiarisce - curare il clima finché siamo in tempo. Ma tutti parlano e nessuno fa mai niente. Poi arriva il Trump di turno e quel poco che si sta facendo rischia di andare a rotoli. Ma anche gli Americani si accorgeranno che così non si può andare avanti, la questione è anche economica: l’economia è alla base di tutto».
«L’idea è partita dal Pedale Veneziano, non nuovo a imprese del genere. Questo gruppo di ciclisti è andato anche Parigi - aggiunge - sempre per la Conferenza sul clima [del 2015 (n.d.r.)], ma negli anni scorsi è arrivato fino a Pechino: 12 mila chilometri». Marchi era l’unico trentino del plotone, «anche se a dire il vero sono trentino solo di adozione; io sono trevigiano, di Villorba».
Appassionato di bici ma anche di politica, non è uno che pedala per fare le gite fuori porta. «Scherzi? Io sulla bicicletta ci sono nato e cresciuto, per tre anni ho svolto un percorso da professionista, prima fra gli Esordienti e poi fra gli Allievi. Senza enfasi - dice modestamente - ma ero una speranza del ciclismo trevigiano: i risultati c’erano, la passione anche».
Quelli che al tempo gareggiavano con lui hanno fatto carriera. «Giovanni Battaglin, Claudio Bortolotto - cita alcuni nomi - ma anche Francesco Moser, che ha la mia stessa età. Ma poi c’è stato l’incidente: nel 1969 ad Asolo, mentre correvo, in seguito a uno scontro con un’auto ho avuto la paralisi del braccio sinistro».
«Grazie a un gruppo di amici, di compagni - sottolinea - sono uscito dalla disperazione che ne è seguita ed è partita la mia battaglia politica». Con loro fondò un Centro di cultura proletaria, che diverrà poi l’embrione dell’esperienza politica che più lo ha segnato, quella di Lotta Continua.
Aveva anche ripreso la bicicletta. «Il fisico c’era (anche senza un braccio), ma mi era passata l’ossessione per il risultato». La politica prevaleva sull’agonismo. «Con Lc siamo andati avanti fino agli anni ‘80 - spiega - ben oltre lo scioglimento del 1976. Ma con la strage di Bologna abbiamo chiuso i battenti: avevamo capito che in Italia sarebbe stato impossibile fare la rivoluzione».
Tuttavia la determinazione del combattente non l’ha mai persa, anche di fronte alle sconfitte politiche. Da cane sciolto (si sarebbe detto un tempo) ha partecipato a mille iniziative: per la pace, per la difesa dei beni comuni, per i diritti; aggregandosi a chi organizzava le piazze della protesta o partendo in solitaria, in sella alla sua bici.
Epico, da inserire tra i guinness dell’impegno politico, il viaggio attraverso l’Italia di qualche anno fa. «Ho fatto 3.950 chilometri per ricordare i miei amici e compagni caduti, Alex Langer e Mauro Rostagno. Tutti e due avevano frequentato sociologia [a Trento (n.d.r.)], tutti e due di Lotta Continua».
Antonio Marchi ha collegato i due cimiteri: quello di Vipiteno, dove riposa Langer, e quello siciliano di Ragosia, dov’è sepolto Rostagno. «Il ritorno l’ho fatto sul litorale adriatico, mentre l’andata su quello tirrenico. A Pisa mi sono fermato per incontrare Adriano Sofri, che era stato da poco incarcerato perché ritenuto implicato nella morte del commissario Calabresi».
Ma torniamo all’oggi, all’ultima impresa. «In fondo tutto è collegato - rimarca - da anni lottiamo per un mondo migliore, da anni manifestiamo contro le guerre, e questa è un’altra guerra, perché tra le conseguenze dei cambiamenti climatici c’è la mancanza d’acqua, che genera scontri già ora: guarda quanto succede fra Israele e Palestina».
«La nostra generazione passerà il guado, ma la prossima si troverà di fronte a un problema enorme che determinerà ancora una volta la divisione del mondo tra chi ha le risorse e chi invece no, di nuovo la sopraffazione del ricco sul povero». Ancora guerre, dunque. «L’obiettivo qui è la salvezza dell’umanità intera; se viene messa in pericolo si pone a rischio il bene comune: lo scontro è inevitabile».
Marchi non si considera però un pacifista. «Davanti a questa parola un po’ mi irrigidisco - chiosa - perché sono pacifista fino a quando il rapporto è basato sul dialogo, ma poi depongo la bandiera della pace e sono pronto allo scontro: si deve tener conto che se c’è chi non ragiona, allora bisogna lottare».
«Poi dipende dal contesto - prosegue - dove c’è lo spazio per poterlo fare devono essere usate le armi della democrazia. Ma se l’obiettivo è quello di difendere questa nostra Terra, le armi sono tante».
«Io sono anche un situazionista - afferma - nel senso che le cose si affrontano situazione per situazione. Nei limiti della nostra vita dobbiamo raggiungere un obiettivo… salvare l’umanità, migliorare la dimensione umana: a tutti i costi».
Pubblicato originariamente sul giornale online di Trento il Dolomiti, 12 novembre 2017.
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