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giovedì 23 novembre 2017

UNA CONFERENZA SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI ALL’INSEGNA DELL’IMMOBILISMO, di Andrea Vento (Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

© World Meteorological Organization
Le grandi speranze in un’intesa storica per il contenimento del riscaldamento globale, suscitate dai proclami dei leader mondiali precedenti la recente Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sono evaporate.
Il ‘clima’ di fiducia che circondava la conferenza - tenutasi a Bonn dal 6 al 17 novembre, ufficialmente nota come 23a sessione della Conferenza delle Parti (COP23) e presieduta dalle isole Figi - è subito scomparso nel nulla nel momento in cui gli esperti ambientali hanno analizzato quanto era stato realizzato.
Le critiche si sono concentrate sulla mancata istituzione di un «comitato di controllo per il rispetto delle disposizioni» e di un «meccanismo sanzionatorio» per i Paesi che non rispettano gli impegni sottoscritti.
In pratica si tratta di accordi giuridicamente non vincolanti, la cui messa in atto è legata soltanto alla sensibilità ambientale e alla determinazione politica dei vari governi, che però molto spesso sono condizionati da enormi interessi economici, in primis quelli delle multinazionali del settore energetico e automobilistico.
La Conferenza di Bonn, che in molti credevano avrebbe dovuto accelerare l’azione e fissare regole più stringenti sulle misure per combattere i cambiamenti climatici, si è conclusa senza alcuna decisione di rilievo, tant’è che al vertice di Parigi di dicembre si terrà una sorta di “sessione suppletiva”.
Un fallimento in parte annunciato che è stato confermato dall’assenza dei più importanti leader mondiali (ad eccezione di Angela Merkel ed Emmanuel Macron) e del grande circo mediatico internazionale, che ha in buona parte disertato l’evento.
Tuttavia, nonostante il loro basso profilo, quattro sono state le decisioni degne di nota:

• approvazione di un Gender Action Plan (sicuramente apprezzabile, ma che non ha un’importanza significativa per i problemi climatici);
• riconoscimento del ruolo dei «popoli indigeni» (considerati ufficialmente una risorsa, non più un ostacolo) nella lotta ai cambiamenti climatici, nella conservazione della biodiversità e nella salvaguardia dell’ambiente;
• attivazione del Gruppo di lavoro tematico - TWG - sull’agricoltura, la sicurezza alimentare e l’uso del suolo (dopo sei anni di trattative evanescenti, alla COP23 è stato riconosciuto che i cambiamenti climatici aggravano l’insicurezza alimentare delle popolazioni più fragili e che, contemporaneamente, le odierne pratiche agricole “agro-industriali” incidono sulle emissioni di gas serra all’incirca per il 21% del totale, imponendo un radicale ripensamento del settore dell’industria agroalimentare);
• sanzione del “sorpasso” delle realtà locali - regioni, città, comuni, comunità indigene ecc. - sulle rappresentanze ufficiali degli Stati (il caso della California è emblematico: nonostante Trump abbia disconosciuto l’accordo di Parigi, a Bonn il suo governatore Jerry Brown ha annunciato che manterrà le promesse fatte).

Per tutto il resto ci troviamo in un’impasse totale.
Nella pratica non sono state prese decisioni significative in merito a quanto segue:

• un meccanismo di risarcimento dei danni e delle perdite;
• finanziamento delle misure di compensazione finalizzate ad indurre i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni;
• trasparenza dei finanziamenti da concedere per la realizzazione delle misure di mitigazione e adattamento.

Le responsabilità del fallimento sono riconducibili principalmente agli egoismi nazionali dei Paesi più industrializzati, che, benché proclamino di voler andare avanti a prescindere dalle posizioni di Trump, si sono distinti per la propria assenza oppure per dichiarazioni “fumose”. Ne è un esempio la cancelliera tedesca Merkel, che inizialmente ha affermato che «il cambiamento climatico è una questione che definisce il nostro destino in quanto genere umano - essa determinerà il benessere di tutti noi», salvo poi correggere prudentemente il tiro: «non è facile» onorare l’impegno assunto di chiudere le centrali a carbone a causa di «problemi sociali e legati all’occupazione», rinviando di fatto a tempi imprecisati la decarbonizzazione energetica nel suo Paese.
Secondo Merkel, al momento ciò comporterebbe un aumento del costo dell’energia.
Il fallimento dei lavori della conferenza sul clima si trova riassunto nel documento conclusivo, in cui si richiede in modo esplicito al segretario generale dell’Onu António Guterres di preoccuparsi che gli Stati membri mettano effettivamente in pratica quanto è stato deciso.

Lo stato attuale dell’atmosfera

Mentre in Germania andava in scena la rituale commedia delle parti fatta di attendismo e inconsistenza, i rapporti in materia pubblicati da vari istituti di ricerca fotografavano un’allarmante evoluzione sia della composizione chimica dell’atmosfera che delle condizioni meteo-climatiche globali.
Secondo il report sul clima diffuso ad inizio novembre dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), la concentrazione di CO2 (principale gas serra) in atmosfera si è ormai stabilizzata ben oltre le quattrocento parti per milione - passando infatti dalle 400 rilevate nel 2015 alle 403,3 della fine dell’anno successivo.
Ciò rappresenta uno sforamento strutturale della soglia di sicurezza fissata a quota 350, oltre la quale le possibilità di riduzione diventano estremamente complesse.
Per l’appunto, anche se oggi riuscissimo ad eliminare del tutto le emissioni inquinanti, la concentrazione di CO2 in atmosfera continuerebbe ad aumentare per alcuni decenni - a causa dell’inerzia del fenomeno - rendendo problematico il rientro sotto tale soglia.
Questa particolarità, tipica dei sistemi complessi, è confermata dal rapporto annuale dell’Agenzia olandese di valutazione ambientale (NEAA), da cui risulta che nel 2016 - per il terzo anno consecutivo - le emissioni globali di CO2 sono rimaste invariate, ma ciò non è servito, tuttavia, a contenerne l’aumento della concentrazione in atmosfera.
Ad oggi la presenza di CO2 in atmosfera ha subìto un incremento del 145% rispetto all’era preindustriale (1750), con una brusca impennata nell’ultimo mezzo secolo, durante il quale è salita di un ottantina di parti per milione, passando da circa trecentoventi alle attuali 403,3 ppm.
Una crescita inarrestabile che, se non affrontata in misura radicale, rischia di vanificare gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi: limitare l’aumento della temperatura media terrestre - sempre in rapporto al 1750 - entro 2 °C (possibilmente 1,5) da qui alla fine del secolo.
Se consideriamo le peculiarità del sistema Terra rispetto al ciclo di assorbimento della CO2 e che, secondo il rapporto del WMO, la temperatura media degli oceani e dell’atmosfera è aumentata di 1,1 °C rispetto al periodo preindustriale, il quadro generale diviene drammatico.
In assenza di misure concrete finalizzate alla riduzione delle emissioni globali, in base alle previsioni degli scienziati saremo proiettati verso una crescita della temperatura media terrestre tra 3 e 5 °C, con conseguenze catastrofiche sull’agricoltura e sulla vita stessa delle persone.

Riscaldamento globale e cambiamenti climatici

Allarmanti conferme in merito alle previsioni giungono dal fronte dei valori climatici.
Il report redatto dal WMO alla vigilia della COP23 afferma che «è molto probabile che il 2017 sarà uno dei tre anni più caldi della storia», confermando in questo modo l’inesorabile trend del riscaldamento già stabilito dalle statistiche: dall’inizio delle rilevazioni meteorologiche (1880), 16 dei 17 anni più caldi - ad esclusione del 1983 - sono stati quelli dal 2001 in poi.
Naturalmente i dati diffusi dagli istituti di ricerca si riferiscono alla Terra nel suo complesso, senza prendere in considerazione le implicazioni locali dei fenomeni in atto, che purtroppo talvolta si palesano attraverso drammatiche anomalie meteorologiche (con conseguenti effetti devastanti sull’ambiente e le persone).
Negli ultimi anni, in numerose regioni terrestri c’è stato un incremento significativo di eventi climatici estremi quali uragani e inondazioni catastrofiche, bombe d’acqua e piogge torrentizie, ondate di calore e siccità da record, scioglimento delle calotte polari e innalzamento del livello degli oceani.
Secondo i dati del WMO, l’intervallo gennaio-settembre 2017 è stato caratterizzato da una temperatura media globale di circa 1,1 °C al di sopra del livello preindustriale.
Varie zone di Europa meridionale, Nord Africa, Africa orientale e meridionale, Russia asiatica e Cina hanno raggiunto temperature massime senza precedenti.
Gli Stati Uniti nordoccidentali e il Canada occidentale, al contrario, hanno registrato temperature più basse rispetto alla media del periodo 1981-2010.

Come invertire la rotta?

Il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici - accompagnati da un preoccupante aumento degli eventi meteorologici estremi - non sono una mera questione accademica, ma costituiscono fenomeni di tale gravità da danneggiare la vita dei comuni cittadini - ad esempio impattando sulla produzione agricola, con conseguenze nefaste sulla vita dei contadini del Sud del mondo, che in misura sempre maggiore sono costretti ad abbandonare le loro terre ormai inaridite per cercare altrove una speranza di sopravvivenza.
Le migrazioni per cause climatico-ambientali sono in drammatica ascesa, tant’è che nel 2016 sono arrivate a coinvolgere 23,5 milioni di persone. Nel fronteggiare questa marea umana l’Onu e le convenzioni internazionali, in particolare quella di Ginevra, dovrebbero finalmente riconoscere lo status di «profughi climatici», garantendo la possibilità di chiedere asilo politico a quanti trovino rifugio all’estero.
La situazione si va facendo via via più drammatica e i tempi di intervento sono sempre più ristretti, per cui il continuo tergiversare dei leader mondiali non ha alcuna giustificazione.
Occorre intervenire in fretta e con azioni incisive tese a superare il modello di sviluppo attuale - basato sul perseguimento infinito della crescita e la dipendenza dalle fonti fossili - introducendo nuove forme produttive basate sull’economia circolare, l’agroecologia, la decarbonizzazione e le fonti energetiche rinnovabili, nella prospettiva di una transizione verso una società ecosocialista, l’unica in grado di garantire i diritti dei lavoratori e dell’ambiente, legati in modo indissolubile dalla resistenza al capitalismo: la giustizia climatica è anche giustizia sociale.
È necessario agire ora senza esitazioni prima che sia troppo tardi e l’alterazione del sistema Terra diventi irreversibile: non sono in gioco soltanto le sorti dell’ambiente e del pianeta, bensì quelle dell’umanità intera.

19 novembre 2017

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