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mercoledì 15 novembre 2017

CRISI POLITICA IN ARABIA SAUDITA E LIBANO, di Pier Francesco Zarcone

Saad Hariri, 24 ottobre 2017 © Mohamed Azakir
Non stupisce che si tratti dell’argomento del momento per i media di mezzo mondo, giacché siamo in presenza di crisi di notevole portata che potrebbero squilibrare ancor di più il già squilibrato Vicino Oriente. E si tratta di due fatti fra loro probabilmente collegati.

LA CRISI SAUDITA

In Arabia Saudita il nuovo principe ereditario Muhammad bin Salman (nuovo perché il precedente, suo cugino Muhammad bin Nayef, è stato silurato dal medesimo padre e monarca che l’aveva designato - e non si sa quanto tutto ciò sia stato spontaneo) ha scatenato una vasta epurazione colpendo “intoccabili” che tali in fondo non erano, con l’evidente proposito di mettere in sicurezza il potere che al momento in buona parte già possiede e che domani sarà suo anche formalmente.
Gli eventi si sono svolti con tale rapidità da rivelare che il piano era già stato preparato da un certo tempo. Il 4 novembre vi sono stati due decreti di re Salman: uno destituiva il capo di Stato maggiore della Marina, licenziava il ministro dell’Economia e il capo della Guardia nazionale - vale a dire il principe Mutaib, figlio del defunto re Abd Allah e fino a poco prima figura potentissima; l’altro istituiva una Commissione anticorruzione sotto la presidenza dello stesso Muhammad bin Salman. È anche entrata in vigore una nuova e pesante legge antiterrorismo, che fra l’altro comminerà dai 5 ai 10 anni di carcere per insulto pubblico al re e/o all’erede al trono.
Nel giro di poche ore tale Commissione accusava di appropriazione indebita undici principi, quattro ministri in carica e trentotto ex ministri - al cui immediato arresto provvedeva il nuovo comandante della Guardia nazionale - alcuni di essi indagati anche ai sensi della neonata legge antiterrorismo. Nello stesso giorno si dava notizia del sequestro di beni e conti bancari degli inquisiti, proprietà e denaro che in caso di una loro condanna andranno al Tesoro nazionale.
Dal punto di vista della pura cronaca l’accusa di corruzione assomiglia allo scandalo hollywoodiano delle molestie sessuali: è infatti più che risaputo che in Arabia Saudita ciò riguarda in particolare i membri di quella vera e propria legione che è la famiglia reale; ma oggi è invece presentata come fonte di inaudito scandalo. I nomi “illustri” colpiti da re Salman portano a ritenere che si tratti di un’epurazione per la sicurezza del nuovo erede, piuttosto che rivolta a moralizzare la vita pubblica del Paese. Non pare azzardato dire che bin Salman stia sostituendo la “propria” autocrazia alla tradizionale oligarchia degli affari.
Se è vero (ma è tutto da vedere) che egli abbia neutralizzato avversari e nemici, ci sono segnali tali da far pensare a sue manovre per ottenere consenso popolare in un Paese in cui i giovani sotto i trent’anni sono il 70% della popolazione, composta al 51% da donne; a meno che non intenda avvalersi - pericolosamente - del solo esercizio del potere regio. Dovrebbero far parte della prima ipotesi i recenti provvedimenti di “modernizzazione”: bin Salman ha consentito l’apertura di cinema e l’organizzazione di concerti (prima vietati), e alle donne di guidare l’auto da sole a partire dal 2018; pare poi che abolirà la temibile polizia religiosa e il “tutorato” maschile sulle donne, e ha inoltre annunciato di voler trasformare l’Islam wahhabita del suo Paese per normalizzare i rapporti col resto del mondo sunnita. Nel frattempo ha fatto arrestare più di mille imām e teologi wahhabiti. Tra i suoi propositi di riforma religiosa c’è anche quello di rivedere criticamente i detti del Profeta (che costituiscono la Sunna, la «tradizione» sunnita), così da eliminarne quelli violenti o contraddittori. Nel mondo musulmano sunnita sarebbe qualcosa di sconvolgente. Staremo a vedere.
Con tutta probabilità - se bin Salman resterà in sella - l’Arabia Saudita passerebbe da una tirannide oscurantista ad una di tipo più o meno “illuminato”. Quali possibilità di manovra si aprano per i vari attori regionali nel Vicino Oriente è presto per dirlo, ma ne analizzeremo fra breve i maggiori sommovimenti.
Muhammad bin Salman è un personaggio che usa la forza senza problemi, non solo in politica interna: sua è infatti la responsabilità dell’aggressione allo Yemen in funzione anti-iraniana. Non si tratta di un’operazione brillante, dato che le truppe saudite le stanno “prendendo alla grande” dai ribelli sciiti Houthi e dagli Yemeniti che vogliono in ogni caso respingere questa nuova e sanguinosa avventura del tradizionale nemico saudita.
E forse la crisi governativa libanese va letta anche in rapporto agli eventi yemeniti. Nella storia non sarebbe la prima volta che un regime incapace di vincere su un fronte bellico già esistente cerchi di uscire dall’impasse aprendone un altro - nel nostro caso, in Libano. E se così fosse, non vi è dubbio che bin Salman starebbe giocando una carta pericolosa, capace di ritorcerglisi contro. Infatti, nell’ipotesi dell’aggravarsi della crisi con un più diretto coinvolgimento dell’Iran, si dovrà vedere in quale modo l’erede al trono riuscirà a compattare sotto di lui la società saudita (pur sempre fatta tradizionalmente da sudditi e tutt’altro che unita) mentre ne sconquassa i vertici operativi: corrotti sì, ma pur sempre con una certa esperienza.

LA CRISI LIBANESE

L’inizio di tale crisi va contestualizzato. Non solo per l’Arabia Saudita la guerra va malissimo nello Yemen, ma in Iraq e Siria l’Isis e i jihadisti da essa foraggiati sono stati ormai sconfitti sul campo, e non certo grazie alla fantasmatica “coalizione a guida Usa”, ma essenzialmente per la discesa in campo della Russia, dell’Hezbollāh libanese, di varie milizie popolari sciite e di “consiglieri” iraniani. È una sconfitta per l’Arabia Saudita, tanto più che può dirmi ormai aperto il cosiddetto “corridoio sciita” - da Teheran passando per Baghdad, e arrivando a Damasco e Beirut. A questo si aggiunga che il Qatar (anch’esso con governo wahhabita, ma nei giochi di potere le comunanze religiose non valgono nulla), grazie ai rifornimenti iraniani, non è stato messo in ginocchio dal blocco saudita, e che quindi Teheran - con un governo del Bahrein non molto stabile per l’agitazione della maggioranza sciita, con quella bomba ad orologeria che è la presenza sciita in zone petrolifere dell’Arabia Saudita e con gli Emirati Arabi Uniti che giustamente tentennano - ha virtualmente i numeri per estendere la sua influenza sul Golfo Persico e sugli stessi Emirati. Un pericolo mortale per Riyad.
Nel complesso siamo in presenza di una fase estremamente fluida che favorisce le iniziative di Iran, Turchia, Russia, Stati Uniti e Israele.
Il punto apparentemente più debole del corridoio sciita è il Libano, con un traballante sistema politico frutto del colonialismo francese, travagliato da una lunga e sanguinosa guerra civile, vittima di frequenti e devastanti aggressioni israeliane. Qui il capo dello Stato maronita Michel Aoun ha faticosamente formato una coalizione governativa in cui è presente anche Hezbollāh. Le misteriose dimissioni da Primo ministro libanese di Saad Hariri durante un visita in Arabia Saudita, la sua ancor più misteriosa sorte in quel Paese (è prigioniero oppure no?) e le minacciose richieste saudite per ottenere la cacciata di Hezbollāh dal governo di Beirut rischiano di avere ripercussioni destabilizzanti sul quadro politico libanese. Due obiettivi appaiono certi: l’allontanamento di Hezbollāh dall’esecutivo e possibilmente il riaccendersi di una guerra civile contro gli Sciiti libanesi - che in tale ipotesi, con tutta probabilità sarebbero costretti a ridurre di molto l’impegno in Siria.
Il 4 novembre Hariri annunciava le sue dimissioni, a Riyad, attraverso l’emittente televisiva Al Arabiya - in presenza proprio di Muhammad bin Salman - attaccando con virulenza l’Iran e palesando un contrapposizione non solo di stampo religioso, ma anche di natura etnica: «Glorioso Popolo libanese, … [l’Iran] semina divisione, distruzione e rovine ovunque sia presente, com’è dimostrato dall'interferenza nei Paesi arabi, in Libano, Siria, Iraq, Bahrein e Yemen. Ciò che lo guida è un profondo odio verso la nazione araba e un irrefrenabile desiderio di distruggerla e controllarla. Purtroppo ha trovato tra i figli di questi paesi persone che si sono sottomesse e dichiarano apertamente la loro fedeltà verso di esso. Questa gente afferma di voler eliminare il Libano, con gli ideali e i valori che rappresenta, dal suo ambito arabo e internazionale. Mi riferisco a Hezbollāh, il braccio iraniano, che non opera soltanto in Libano, ma anche in altri Paesi arabi. Sfortunatamente, negli ultimi decenni Hezbollāh è riuscito ad imporre in Libano una situazione di fatto con la forza delle sue armi […]. Tutti noi abbiamo letto ciò di cui parlava il capo del regime iraniano, che l’Iran controlla il destino dei paesi della regione […]. Voglio dire all’Iran e ai suoi accoliti che falliranno intromettendosi negli affari della nazione araba. La nostra nazione risorgerà esattamente come avvenuto in passato e le mani che vogliono danneggiarla saranno troncate. […] e il male sarà restituito a coloro che l’hanno inviato». L’ingenua autocritica di Hariri fa pensare alle confessioni di taluni imputati nei processi staliniani. Si tratta di una vera e improvvisa svolta politica, dato che in precedenza la posizione di Hariri era abbastanza amichevole sia nei confronti di Hezbollāh che verso l’Iran.
Solo dopo questa esibizione televisiva Hariri ha telefonato al suo presidente della Repubblica per comunicargli le dimissioni. In questa crisi si possono vedere innanzitutto le mire anti-iraniane di bin Salman, ma non solo: la sua neutralizzazione alla guida del governo libanese potrebbe pure avere a che fare con la situazione saudita, e al riguardo bisogna rifarsi all’ascesa politica di bin Salman, disseminata di macerie per nemici e avversari. Alla morte di re Abd Allah il principe ereditario era Muqrin, e la famiglia reale si trovava divisa in tre clan: quello di Mutaib, altro figlio di Abd Allah, quello del figlio del ministro degli Interni Muhammad bin Nayef, e quello di Muhammad, figlio di re Salman. Nell’aprile 2015 l’erede al trono Muqrin perse quel titolo, sostituito da bin Nayef, di cui bin Salman fu fatto vice (per poco tempo). Nel giugno di due anni dopo Muhammad bin Salman ottenne la rimozione di bin Nayef, che fu messo agli arresti domiciliari. A questo punto si trattava di “far fuori” il clan di Mutaib bin Abd Allah, che comandava la Guardia nazionale. Restava pericoloso Mansur, figlio del defenestrato principe ereditario Muqrin, ma il “destino” ha voluto che di recente morisse per la caduta dell’elicottero su cui viaggiava.
Una volta raggiunti questi obiettivi sorge spontaneo chiedersi cosa c’entrerebbe l’eliminazione di Hariri dal premierato libanese. Forse c’entra: in Arabia Saudita rappresenta il classico segreto di Pulcinella il fatto che suo padre non sia quello anagrafico, bensì un principe saudita parte del clan di Mutaib bin Abd Allah; e come primo ministro del Libano Hariri avrebbe potuto fornire aiuti e appoggi ai membri del clan del suo vero genitore contro le mire di bin Salman. Può sembrare romanzesco, ma siamo pur sempre nel mondo arabo.
Adesso Hariri annuncia il suo prossimo ritorno in Libano; se così sarà dovranno essere seguite con attenzione le sue mosse contro Hezbollāh e l’Iran: sarà allora chiaro se si tratta o no di un ritorno su commissione di Riyad, vale a dire se bin Salman sia riuscito a condizionarlo. Intanto si registra un indizio in favore della tesi secondo cui l’ex premier libanese sarebbe eterodiretto. Durante le riprese televisive del suo annuncio di voler rientrare quanto prima in Libano - oltre all’anomala frequenza e avidità con cui beve acqua, cosa che può far pensare all’assunzione di sedativi o di qualche “sostanza condizionante” - è stato captato un fuorionda in cui l’intervistatrice chiede al guardiano saudita di Hariri quanto segue: «Visto che il [suo] cellulare non ha l’accesso a Internet, perché non glielo date?». Risposta della guardia: «Non gli daremo un cellulare!».

GLI STATI UNITI E ISRAELE

Nella generale situazione di debolezza dell’Arabia Saudita - aggravata economicamente dai bassi prezzi sul mercato petrolifero, che hanno inferto duri colpi alle finanze saudite, e dalla continua rivalutazione della moneta locale (il riyāl) sul dollaro Usa - l’appoggio di Washington è più che mai fondamentale, per cui non è pensabile che le attuali mosse di bin Salman avvengano senza il consenso statunitense. Altrimenti l’essere finito nel tritacarne di bin Salman anche un personaggio del calibro di Bandar bin Sultan (ex capo del Consiglio della sicurezza nazionale, legato da forti vincoli a politici e petrolieri texani, tanto da essere soprannominato “Bandar Bush”) dovrebbe essere inteso come uno schiaffo agli Usa, e ciò sarebbe irrealistico. Di recente ci sono state consultazioni fra bin Salman e Trump; inoltre la presa di posizione di Hariri contro l’Iran fa seguito ad un analogo atteggiamento statunitense, con le promesse - a ottobre - di ricompense economiche per l’arresto di due comandanti di Hezbollāh, un piano contro le attività finanziarie dei pasdaran iraniani e cinque leggi contro lo stesso Hezbollāh, accusato - non si sa su quali basi - di terrorismo contro gli Stati Uniti. Così come Trump & C. continuano a lanciare all’Iran accuse che non stanno né in cielo né in terra, stante l’odio mortale fra Sciiti e Sunniti jihadisti: appoggiare al-Qaida e i Talebani!
La crisi libanese ha comunque confermato la solidità dei rapporti fra Israele e l’Arabia Saudita. La rete televisiva israeliana Channel 10 ha recentemente comunicato che l’esecutivo di Netanyahu ha chiesto alle proprie ambasciate di effettuare, presso i governi che le ospitano, azioni di tipo lobbistico a sostegno delle tesi saudite su Hariri, con particolare riguardo al pericolo che rappresenterebbero Iran e Hezbollāh per il Libano, dimostrazione indiretta di quanto la partecipazione di Hezbollāh al governo libanese sia necessaria alla sua stabilizzazione; a questo si aggiunge il sostegno israeliano all’Arabia Saudita per quanto riguarda la guerra nello Yemen.
Non è detto però che tutto questo sia il prodromo di un nuovo attacco israeliano a Hezbollāh, anche considerando che la forza militare di questa organizzazione è di gran lunga aumentata rispetto a quando costrinse Israele ad abbandonare il Libano meridionale, nel 2006. E poiché l’Arabia Saudita non è in grado di realizzare azioni di guerra né dirette né per procura sul suolo libanese, c’è da pensare che si auspichi invece il ritorno della guerra civile nello stesso Libano.

I PROBLEMI NEL GOLFO PERSICO PER L’ARABIA SAUDITA

Per quanto sotto l’ombrello statunitense, bin Salman - alla guida di quel nano militare che è il suo Paese - ha tutte le ragioni per guardare all’Iran con preoccupazione, e non solo per questioni interne alla Penisola arabica: anche nel Golfo Persico la presenza iraniana turba i sonni delle petromonarchie peninsulari.
Da quando nel 2014 l’āyatollāh Khamenei mise in evidenza la necessità di creare una flotta iraniana capace di egemonizzare gli stretti di Ormuz e Bab al-Mandab - e altresì di essere operativa fuori da essi - si diede inizio alla modernizzazione e ad un ampio incremento della marina iraniana. Oggi l’Iran ha in servizio almeno 38.000 marinai, 7 fregate, 32 pattugliatori veloci dotati di missili antinave S-800 Noor, una nutrita flottiglia di barchini pattugliatori, 5 posamine (evidentemente per minare gli Stretti, se del caso) e 29 sottomarini, di cui 5 d’altura. Inoltre dal marzo 2017 sono frequenti le visite della marina iraniana in Pakistan, India, Oman e Tanzania, ed è in corso il rafforzamento dei legami navali con Pakistan, Sri Lanka, Indonesia e Gibuti. D’altronde nel novembre 2016 il governo iraniano ha improvvisamente reso nota l’intenzione di stabilire basi navali in Siria e Yemen, in aggiunta alle 6 esistenti nel Golfo Persico e alle 2 poste sulle isole, come quella di Bandar Abbas. È quindi comprensibile che bin Salman non dorma sonni tranquilli a causa degli eretici sciiti dell’Iran.

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