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mercoledì 31 ottobre 2012

«BALCANIZZAZIONE» DEL VICINO ORIENTE?, di Pier Francesco Zarcone

PREMESSA

Dopo la fine della Guerra Fredda, gli addetti alla strategia internazionale di Washington (e non solo) non possono non essersi posti il problema delle difficoltà politiche derivanti dal delirante assetto dato all'area vicino-orientale da Gran Bretagna e Francia dopo la Prima guerra mondiale. Per chi minimamente conosca le realtà storiche, economiche, etniche e religiose di questa regione - per secoli appartenuta al defunto Impero ottomano - è sufficiente un'occhiata alla carta geografica per capire che si è trattato di un assetto tracciato su di essa con righello e matita, senza nessuna conoscenza e/o considerazione per gli ambienti umani su cui andava ad incidere. Il risultato di questa mera volontà di potenza, esercitata alla luce di un cinico divide et impera, si è da tempo dimostrato inadeguato e fonte di nuovi conflitti, esterni e interni, mai sanati e addirittura incancrenitisi. Che qualcuno ci stia pensando per metterci mano non desta sorpresa; semmai può preoccupare il "come", giacché le logiche delle grandi potenze rispondono a criteri del tutto particolari.
Ultimamente sta riemergendo una certa attenzione - ma non da parte dei grandi mass media - per vecchi piani statunitensi e israeliani volti a sovvertire l'attuale sistemazione politica del Vicino Oriente (Egitto incluso) in termini di "balcanizzazione". Situazione senz'altro scomoda per chi la subisce, ma senza dubbio comoda per le grandi potenze ai fini dell'esercizio del loro controllo e della possibilità di effettuare gli usuali "giochi" di potere. L'esistenza cartacea di questi piani è fuori discussione, ma non è questo il punto. La questione è se sia plausibile la lettura dei recenti avvenimenti del mondo arabo in base ai piani in questione. La mancanza delle più importanti centrali di notizie controllate dal Capitale significa ben poco: così come è accaduto per esempio alla recentissima denuncia del governo del Sudan circa un bombardamento israeliano su una fabbrica sudanese, rimasta pressoché ignorata.

DI COSA STIAMO TRATTANDO

Quando parliamo di progetti/proposta per il riassetto dell'area vicino-orientale viene subito da citare quello redatto nel 1982 da Oded Yinon, consigliere del ministero degli Esteri israeliano, dotato di buone entrature alla Casa Bianca di Washington. Esso prevedeva la divisione secondo linee confessionali e/o etniche di una rilevante serie di Stati attuali. Turchia, Siria, Libano, Iraq, Pakistan, Afghanistan - a cui si aggiunge l'Africa islamica a cominciare da Egitto, Sudan, Libia ecc.

martedì 30 ottobre 2012

EDUCARE ALLA LIBERTÀ (V), di Alessandro Gigli


Considerazioni ed esperienze dall’interno della scuola

“Se i governi privilegiano l’allevamento intensivo di studenti consumabili sul mercato, allora i princìpi di una sana gestione prescrivono di stivare nello spazio scolastico più ridotto la quantità massima di teste modellabili dal numero minimo di personale possibile. Noi non vogliamo più una scuola in cui si impara a sopravvivere disimparando a vivere”
(Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti,  Piano B Edizioni)

Basterebbe questo concetto del libero pensatore anarco-situazionista Vaneigem, per far capire quale scuola di pensiero (aziendalista e neoliberista) costruisce la struttura scolastica contemporanea, con gli pseudopedagogisti di regime, sincronizzati sull’orologio del potere dominante, a dettare la legge imposta dai voleri del capitale.
Ci dice ancora Vaneigem: “Nel dicembre del 1991, la Commissione Europea ha pubblicato un memorandum sull’insegnamento superiore. Vi si raccomandava alle Università di comportarsi come imprese sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso documento esprimeva l’auspicio che gli studenti fossero trattati come clienti, incitati non ad apprendere ma a consumare. I corsi diventavano così dei prodotti, mentre i termini “studenti” o “studi” lasciavano il posto a espressioni più appropriate al nuovo orientamento, come “capitale umano” e “mercato del lavoro”.
Nel settembre del 1993, la stessa commissione insisteva con un Libro verde sulla dimensione europea dell’educazione. Vi si affermava che sin dalla scuola materna bisogna formare delle “risorse umane per i bisogni esclusivi dell’industria” e favorire “una maggiore adattabilità di comportamento in maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera”.
Ecco una presentazione sintetica della scuola contemporanea, sottoposta alle leggi della domanda e dell’offerta dove ognuno viene formato per potersi incasellare in un ingranaggio costruito da altri, cioè da quel potere che ci vuole a sua immagine e somiglianza: docili, mansueti, privi di senso critico, abituati ad obbedire, a consumare e soprattutto a non pensare.
Bisognerebbe invece insegnare l’autonomia e non la dipendenza, la responsabilità e non la cieca obbedienza, l’autogestione responsabile e condivisa, la solidarietà tra pari e non la competitività e la paura dell’altro.
Purtroppo, obbedendo alle leggi di mercato e a un darwinismo sociale becero e distruttivo, anche il sovraffollamento (voluto per legge) delle classi non aiuta.

Tale “intasamento” delle classi non è solo causa di comportamenti barbari, di vandalismo, di delinquenza, di noia, di disperazione, ma perpetua anche l’ignobile criterio della competizione tra umani, la lotta concorrenziale che elimina chiunque non si conformi alle esigenze del mercato. Il bruto arrivista prevale sull’essere sensibile e generoso: ecco ciò che gli imbroglioni al potere definiscono anch’essi, come i brillanti pensatori di un tempo, una “selezione naturale”.
La scuola non può essere considerata avviamento al lavoro. Una scuola vera, libera e democratica deve insegnare a vivere e a ognuno deve dare gli strumenti per diventare se stesso, potendo tirar fuori (educare = ex ducere) il meglio della propria personalità e delle proprie inclinazioni, imparando ad autoeducarsi nel confronto costruttivo con la sua comunità, classe, gruppo…, sapendosi autogestire con regole decise collettivamente e non calate dall’alto da chi lo vorrebbe uguale a tutti gli altri.

L’educazione non-coercitiva, libertaria e antiautoritaria, dovrebbe essere almeno uno strumento conosciuto, analizzato e criticato intelligentemente e razionalmente da tutti i miei colleghi. Invece non è conosciuto affatto e di argomenti di questo tipo non si parla mai né tra colleghi, né tantomeno nelle noiose e inique riunioni pomeridiane (collegi, consigli) dove la burocrazia e le costrizioni economiche  costringono a eludere argomenti interessanti che potrebbero favorire il nostro modo di essere veri educatori.
“Nessun ragazzo varca la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di perdersi: voglio dire di perdere questa vita esuberante avida di conoscenze e di stupori, che sarebbe davvero esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e spingerla alla disperazione, sottomessa al noioso lavoro del sapere astratto. Quale terribile riprova quegli sguardi così brillanti, spenti di colpo! Il consenso generale stabilisce che, con ipocriti riguardi, saremo imprigionati entro quattro mura, oppressi, colpevolizzati, giudicati, onorati, puniti, umiliati, etichettati, manipolati, coccolati, violentati, consolati, trattati come aborti che implorano aiuto e assistenza” (Raoul Vaneigem)
Basta con una scuola così disumana! Basta con una scuola che serve solo alla certezza di un salario! Basta con la noia , la paura e il soffocamento dei desideri!
Dopo la mia esperienza personale di due anni in una scuola della provincia di Ancona, che dista circa 20 km dalla mia città, ho avuto ampie conferme dell’idea per la quale mi batto da tempo e che ho cercato di esporre nei precedenti articoli apparsi sul blog di Utopia rossa: e cioè che la pedagogia democratica  e antiautoritaria sia il miglior modo per insegnare a vivere la propria vita con autostima, responsabilità, autonomia e coscienza collettiva.
Il rapporto con i miei alunni, infatti, è basato sulla condivisione delle regole, sulla disponibilità verso gli altri e sulla soddisfazione dei propri desideri, soprattutto quelli motori perché insegno educazione fisica. Chiedo periodicamente il loro parere e il loro giudizio sul mio modo di rapportarmi con loro e di essere educatore motorio, e ho con il tempo modificato il mio agire in funzione di un miglior svolgimento delle lezioni, di un rapporto più profondo e democratico con loro, di un migliore sfruttamento del tempo e dello spazio concessomi dalla scuola.
Ebbene, posso dire che la libertà funziona! Vivendo situazioni di gioco e di attività libere e autodecise (con l’insegnante facilitatore) le lezioni sono prive di paure, stress, inquietudini e complessi di colpa. I ragazzi e le ragazze gestiscono la propria vita motoria potendo esaudire le loro aspirazioni e i loro desideri, compreso il non far nulla o svolgere il ruolo di tutor di un determinato gruppo di compagni, in quanto conoscitori più degli altri dello sport specifico in questione.
L’integrazione libera e autodeterminata con gli alunni diversamente abili, anche gravi, dà risultati stupefacenti: senza l’obbligo esterno a “dover” fare, questi studenti da soli funzionano meglio che nel rapporto con gli insegnanti di sostegno. Un alunno mi ha detto: ”quando tu entri in classe a noi viene il sorriso sulle labbra, siamo felici e ci dimentichiamo di tutte le ansie e le paure che abbiamo! Sappiamo che passeremo l’ora più bella di tutta la mattinata.”
Se amare e voler bene significa qualcosa, questo qualcosa è riassunto nei concetti di libertà e felicità.
La realizzazione dei propri desideri è qualcosa che migliora la vita e il benessere psicofisico: è ora che anche i colleghi smettano di fare i carcerieri  e diventino veramente educatori alla gioia di vivere e di imparare.


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

sabato 27 ottobre 2012

GLAUBER ROCHA O L'ANGELO DELL'ANARCHIA, di Pino Bertelli

“L'opera d'arte ormai appartiene al passato.
I grandi cambiamenti si realizzeranno soltanto quando larghi strati della popolazione
 li vorranno veramente e faranno pressione per ottenerli.
L'unico antidoto al sistema è l'anarchia,
l'anarchia intesa non come assenza di governo, ma come assenza di dominio...

Il cinema è una cultura della sovrastruttura capitalista.
L'autore è nemico di questa cultura, egli predica la sua distruzione,
se è un anarchico come Buñuel, o la distrugge se è un anarchico come Godard”.
Glauber Rocha


Glauber Rocha
o del cinema di guerriglia


“Ogni resistenza è qualificata dalla coscienza pratica che la anima”.
Raoul Vaneigem

“Tutte le rivoluzioni della storia sono cominciate senza capi,
e, quando ne hanno avuti, sono finite”.
Censor

“Là soltanto dove gli individui sono «direttamente legati alla storia universale»;
là soltanto dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni”.
Guy E. Debord



I. Del Cinema Nôvo brasiliano

La fioritura del Cinema Lixo (spazzatura) brasiliano degli anni '60,[1] ha sfondato l'estetica dell'oggettività e della violenza della cultura di regime, al quale ha contrapposto l'estetica della fame e dell’utopia che at/traversa l'intero continente Latinoamericano. Un cinema povero, a tratti grezzo e imperfetto, che si è buttato contro a tutta la casistica del dolore in technicolor, assolto e celebrato dalla macchina/cinema[2] hollywoodiana. Là dove le oche domestiche volano, tutto è merce e l’arte è sistemata nel sottoscala della noia. Nel cinema mercantile (non solo americano) si respira quell’odore irrespirabile di carogna, proprio alla burocrazia dell’impero occidentale che insieme alla frusta, alla Bibbia, alle bombe, dispensa (a “basso costo”) biglietti del cinema, televisori e la dittatura telematica/massmediale (computer, telefonia, cinefotografia digitale, Internet, anche ecc.).
La tempesta sovversiva che il Cinema Nôvo ha disseminato sugli schermi del mondo (e oltre la cornice filmica...) ha prodotto smagliature, diserzioni, insorgenze di pezzi di popolo, momenti culturali abrasivi che alla Lingua del fittizio e della forca  hanno risposto con la ribellione e il fucile. "L'uomo in rivolta si riconosce nelle situazioni che produce, chi non si sporca le mani è un vigliacco o un complice: l'ordine senza giudici dell'avvenire comincia nella realtà autenticata della sua rivolta".[3] Quelli che fanno l’avanguardia (di ogni forma creativa) a metà, non fanno altro che scavarsi la fossa nella stupidità celebrata, premiata, mitologizzata. Noi crediamo che l’esercizio più importante della libertà sia la radicalità delle idee, specie quando si nobilita nella distruzione degli idoli.
Il cinema del sottosviluppo riconosce le proprie albe sovversive in opere disuguali, frammentarie, grezze... comunque tutte legate insieme da un'etica antagonista e dal desiderio di rivoluzione dello stato di cose esistenti. La hora de los hornos (L’ora dei forni, 1966/1968) di Octavio Getino e Fernando Solanas, El camino hacia la muerte del viejo Reales (Il cammino verso la morte del vecchio Reales, 1971) di Gerardo Vellejo, Revolucion (1965) di Jorge Sanjinés, Ricardo Rada e Oscar Soria, Yawar Mallku (Il sangue del condor, 1969) di Jorge Sanjinés, La tierra promedita (La terra promessa, 1973) di Miguel Littin, Ya no basta con rezar (Non basta più pregare, 1971) di Aldo Francia, Os fuzis (I fucili, 1963) di Ruy Guerra, Vidas secas (Vite secche, 1963) di Nelson Pereira dos Santos, Ganga Zumba (1963) di Carlos Diegues, Deus e o Diabo na terra do sol (1964) di Glauber Rocha… aprono il cammino al cinema tropicalista, tricontinentale, dove "l'atto rivoluzionario è il prodotto di un'azione che diverrà riflessione nel corso della lotta... Tricontinentale [è] il cinema d'autore, il cinema politico, il cinema contro, è un cinema di guerriglia".[4] Il linguaggio di questo cinema della miseria si rovescia contro la miseria del cinema colonialista nordamericano e mortifica l'incomunicabilità artistica di molto cinema europeo.
Le spiagge dell'utopia cercate dal Cinema Nôvo o Tricontinentale crescono secondo un'angolazione libertaria del Terzo Mondo e la macchina da presa non è soltanto uno strumento espressivo di alcuni eletti dalla sorte (= eredità borghese) o dalla caparbietà di emergere dal branco ma uno mezzo di conoscenza e di educazione alla verità. “Tricontinentale, la scelta politica del cineasta nasce nel momento in cui la luce ferisce la sua pellicola. Questo, perché egli ha scelto la luce: macchina da presa sul terzo Mondo aperto, terra occupata, per la strada o nel deserto, nelle foreste o nelle città, la scelta è obbligata… Insisto su un cinema di guerriglia come unica forma di combattere la dittatura estetica ed economica del cinema imperialista occidentale o del cinema demagogico socialista” (Glauber Rocha).[5] Siamo fatti dell’utopia di cui sono fatti i nostri sogni. L’impero della servitù è lì, in mezzo al fango sulle stelle, dove tutto è permesso perché niente è vero.

giovedì 25 ottobre 2012

LOS PODEROSOS EUROPEOS SE PREPARAN PARA EL FUTURO, DEMASIADA IZQUIERDA NO, por Rómulo Pardo Silva

Una práctica de izquierda es ingenua levantando peticiones sociales insostenibles creyendo que el orden productivo actual va a permanecer.
La Red ‘Planet One Economy: Europe’ (OPEN) está diseñada para pensar y proponer formas de transformar la Unión Europea para que el 2050 sea una Economía Planet One, es decir ‘que respeta todos los límites ambientales, que es social y económicamente sostenible, permitiendo a las personas y a la naturaleza prosperar’. Lo políticamente significativo es que la Comisión Europea financia sus estudios con el objetivo previsor de proporcionar a los responsables políticos directrices que permitan la ejecución del ‘plan general de la UE para un crecimiento inteligente, sostenible e integrador en el próximas décadas’. Una prueba de que el megaempresariado está consciente que habrá una ruptura en el futuro para la que se debe iniciar transformaciones estructurales.  
El informe llamado Escenarios para una economía One Planet en Europa (1) presenta cuatro visiones de cómo podría ser la vida el año 2050 en Europa.  
Algunas afirmaciones discutidas y contenidas en el documento del taller prospectivo OPEN realizado en septiembre de 2011 son:

Feroz competencia en los mercados mundiales de materias primas cada vez más escasas,  sin una revolución tecnológica verde y una fuerte voluntad política Europa tendría un elevado riesgo de inestabilidad social y económica en nivel mundial y regional, limitaciones del avance en la eficiencia de los recursos a través de soluciones tecnológicas ponen el énfasis en el cambio de hábitos de consumo,  economía europea reflejo de valores ambientales, sustitución de la obsolescencia planificada de la tecnología por la de durabilidad y reutilización, mejora de la eficiencia para limitar el consumo total de recursos, tecnologías que maximicen los recursos y la eficiencia en el uso de energía, economía mundial  bajo un sistema de zonificación de la producción, economía insular, baja demanda de bienes importados debido a la autosuficiencia y a las barreras comerciales elevadas o tarifas para productos y servicios con alto daño ambiental y social, cambio a una renovada economía de mano de obra intensiva, promedio de horas de trabajo reducido a la mitad de que lo fueron en 2011, cooperación y no competencia en los negocios limitan la cantidad de innovación y crecimiento, reducción a gran escala en la dependencia del transporte de los combustibles fósiles, descarbonización casi total del sector energía, precios de los bienes de alto impacto y servicios en niveles muy altos e inaccesibles para muchas personas, eventual imposición de reducción de los niveles de consumo y de políticas severas para cumplir con el objetivo Planet One Economy 2050.
Estilos de vida sostenibles para el funcionamiento  continuado de los ecosistemas del mundo y los medios de subsistencia de las generaciones futuras, mayoría de europeos abrazan la frugalidad, la sencillez y la sostenibilidad como el estilo de vida básico, vivienda situada en las proximidades del trabajo y los servicios comunitarios, caminata, bicicleta o transporte público en vez de vehículos particulares de carretera, innovación social crecida a nivel barrio, ciudad y región debido a la fuerte participación, la gobernanza y la disponibilidad de tiempo suficiente para actividades personales, sociedad fuertemente dividida entre los que pueden y los que no pueden permitirse un estilo de vida fluido, mayor propensión a los conflictos, crisis políticas.
Los think tanks, grupos de reflexión, de los capitalistas analizan sin temor situaciones complejas, develan con inteligencia amenazas y soluciones que rompen con el sentir masivo. Si bien se equivocan intencionalmente al considerar posible la continuidad del crecimiento y el capitalismo en esa finita realidad ambiental van mucho más allá que una izquierda temerosa de contradecir el deseo de consumismo.
Las agrupaciones de izquierda deben difundir, explicar, las características que tendrán la naturaleza y la sociedad en los decenios siguientes. Tienen que proponer medidas concretas que preparen ese momento y rechazar todo lo que lo agrava y acerca. Deben proyectarse excluyendo de sus programas el productivismo-consumismo.     
Esas advertencias y proposiciones están en los textos ecologistas pero deben ser parte también del debate de ideas socialista.

Referencia

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martedì 23 ottobre 2012

A NOAM CHOMSKY - DELL'ANARCHIA NEL CUORE, di Pino Bertelli


Dedicatoria
Scritta a margine di un libro storico sulla pirateria nel suo rifugio al MIT di Boston:"Quando in un paese esistono i partiti - Simone Weil, diceva -, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco" delle mafie finanziarie (chiese monoteiste incluse)... lavorare alla soppressione dei partiti non è solo auspicabile, è una necessità etica, morale, perfino poetica... e passare dalla tristezza/bruttezza dei politici della corruzione e del crimine costituito, alla conquista di una società di liberi e di eguali (che qualcuno chiama dolce anarchia)... dove ciascuno è re perché nessuno è servo! La bellezza (della democrazia diretta, consiliare o partecipata) vi seppellirà e sputeremo sulle vostre tombe fino alla fine dei secoli [Pino Bertelli].
Noam Chomsky e Pino Bertelli al MIT di Boston
L’ho conosciuto sì, l’ho conosciuto Noam Chomsky... capitano di vascelli corsari in rotta per la terra senza frontiere di utopia... ci siamo incontrati nella sua tana, al MIT di Boston, ero insieme agli amici Luca, Fulvio, Matilde e Paola, mia moglie... dovevamo fotografarlo e intervistarlo per il reading movie di Restiamo Umani [restiamoumani.com], che tratta delle possibilità di pace tra Palestina e Israele, anche. Il maestro ci ha ricevuti nel suo ufficio, una piccola stanza di pochi metri, illuminata in uno strano disordine di fotografie, libri, ricordi di una vita spesa a fianco degli sfruttati e degli indifesi. Era sorridente, gentile, sereno Chomsky, come  solo sanno esserlo gli uomini (grandi) che hanno il coraggio di esprimere le proprie idee di fronte a qualsiasi forma di potere. Teneva una tazza di tè nelle mani... aveva lo sguardo disteso verso la realtà o il sogno, di quelli che ti bucano l’anima in volo e ti lasciano addosso la voglia di cambiare il mondo. Con tutti i mezzi necessari, certo.
Siamo stati con lui poco più di un’ora... non ha mai cessato di esprimere la sua cortesia e malinconica tenerezza... mi passavano negli occhi le parole dei suoi libri che per anni ho letto avidamente, studiato, saccheggiato... lui era lì, con la bellezza dei giusti e l’anarchia nel cuore. Parlava piano, sicuro, calmo... la sua belligerante intelligenza si disperdeva in quella stanza tra la finestra e il cielo. Ricordai una sua frase: “L’anarchia non è un sistema sociale fisso, ma una chiara tendenza dello sviluppo storico dell’umanità che (…) aspira a che ogni forza sociale e individuale si sviluppi liberamente nella vita”. Tutto vero. Lo guardavo commosso che leggeva il capitolo del libro di Vittorio Arrigoni (Gaza. Restiamo umani) con la semplicità poetica dei vecchi cacciatori di sogni che (in ogni epoca) non vogliono governare né essere governati in questo modo e a questo prezzo.
Annusavo il profumo “aristocratico” del pensiero libertario che usciva dal suo parlare... avevo nel mio zaino il suo libro a favore di Occupy [Siamo il 99%]... dove sosteneva le battaglie sociali degli indignados di Wall Street... una marea montante di persone che attraverso la disobbedienza civile chiedono il blocco delle strade, lo sciopero nelle università, l’occupazione dei luoghi di lavoro e indicano forme di lotta organizzate (fino al sabotaggio delle tasse governative)  attraverso l’azione diretta e il valore d’uso dei network. Questa generazione d’insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali, denunciano la disuguaglianza sociale che un minoranza di arricchiti (gli strati più “alti” della finanza e della politica) continua a perpetuare contro i popoli impoveriti e si scagliano, a ragione, contro la pratica saprofita delle case farmaceutiche, compagnie delle assicurazioni, speculatori immobiliari, mercanti di armi... identificano in Wall Street il cuore finanziario del capitalismo parassitario con il nemico da combattere, prima di ogni cosa. Si tratta dunque di godere della gioia e della vita piena e dove c’è amore dell’uomo per l’uomo, lì c’è la libertà. Occupy, ricordiamolo, è un grido profondo gettato, a faccia scoperta, contro il tramonto degli oracoli e i franamenti di un sistema economico inumano che ha fatto della violenza il proprio credo, sono il fondamento per il raggiungimento di una economia etica, di una democrazia dei cittadini. Occupy  non è solo la fotografia del disagio di un’epoca del dolore planetario, è soprattutto il canto generazionale di uomini, donne in rivolta contro l’immaginario istituito che chiedono un’esistenza più giusta e più umana.
Quando il nostro incontro è terminato... una signora, gentile come il ritorno delle lucciole a maggio, ci ha ha accompagnato verso l’uscita del dipartimento... dopo pochi passi sono tornato indietro, Chomsky era seduto vicino a uno schedario... alzo ancora la fotocamera verso di lui... gli dico — “grazie a te” —... lui sorride e dice — “It's Good” — (“forse, dico”)... Chomsky, la   signora di bianco vestita e un ragazzo smilzo che somigliava a Henry Fonda in un film western di John Ford, si mettono a ridere. Chomsky si alza e mi abbraccia, forte. Lo abbraccio anche io. Tremante di gioia. Ci lasciamo così, davanti alla  fotografia di Bertrand Russell, in un giorno di pioggia e vento a Boston. La città dove è approdata la nave dei padri pellegrini, Mayflower (Fiore di maggio) ed è nata la nata la prima comunità euroamericana. Là dove le nostre mani si sfiorano, i nostri cuori si danno del tu!

Quando siamo usciti dal MIT siamo andati in una bar a mangiare e su un tavolo di legno, dopo qualche birra e Bloody Mary, con Paola, Fulvio, Matilde e Luca abbiamo scritto una canzone:

Luna di pioggia a Boston
Boston, 3 volte ottobre 2012
(In un bar, Luca, Fulvio, Matilde, Pino e Paola)

La luna si specchiava dolce
in una pozza di strada a Boston
e il Bloody Mary ci faceva cantare
canzoni del dissenso che Chomsky raccontava con gli occhi…
you never are what and where others think that you are…

e la foto di Russell in bianco e nero
ci lasciava il rispetto dei diritti umani…
conoscenza, rispetto, dignità
e amore fra gli uomini…
you never are what and where others think that you are…

la voce di chi non ha voce
ci riporta all’alba degli ultimi
e lacrime di gioia bambina
rigano le nostre facce in amore
you never are what and where others think that you are…

i nostri cuori ora si uniscono
alle nostre menti che non mentono
e quella piccola squaw che alla terza ti affoga
se non capisci e tu nuoti… Oh! Se nuoti
nel fiume magico del tempo liberato

you never are what and where others think that you are…

[Chomsky, mi è venuto da pensare poi, continua a fare con le parole, il comportamento, l’azione diretta... quello che in altri tempi i cavalieri che fecero l’impresa, hanno fatto con la spada. Che milioni di fiori possano sbocciare ai quattro venti della terra e affoghino con i loro petali gettati nel vento, le canaglie che fanno professione di governare. Come non sapere che il profumo delle rose di campo può mutare il corso delle costellazioni?]. 
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte ottobre 2012.

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domenica 21 ottobre 2012

COMUNISMO LIBERTARIO O INDIVIDUALISMO, di Pier Francesco Zarcone

La democrazia diretta fondata in termini di diritto

Anomia?

Da tempo, per varie ragioni storiche, la prospettiva della rivoluzione sociale in Europa non ha più quell’immediatezza che ancora appariva negli anni ‘30 del secolo scorso. Questo negli ambienti libertari si manifesta anche con la mancanza ormai consolidata di un ideario concreto in ordine ai problemi fisiologici inerenti all'aspetto costruttivo di una società libertaria, ovvero basata sulla democrazia popolare diretta. Taluni obiettano che tale aspetto ha scarsa rilevanza poiché la costruzione della nuova società spetta alle masse rivoluzionarie. Se così fosse in assoluto non avrebbe senso l’operare in seno a esse dei libertari, il cui ruolo consiste nello svolgere una funzione di sensibilizzazione, di chiarificazione e di indirizzo per la progressiva maturazione della coscienza di classe di tali masse medesime. In questa azione c’è un minimum ineliminabile: indicare almeno le essenziali linee di base da seguire riguardo ai problemi e alle questioni di carattere “fisiologico”; fisiologico giacché anche per una società nata da una rivoluzione sociale radicale deve fare i conti con essi, quand’anche vadano impostati in modo diverso dal passato. Naturalmente, se si vuole, tutto questo può essere tranquillamente ignorato, e ci si può chiudere in modo apodittico nella mera reiterazione dei princìpi classici dell'anarchismo, oppure ci si può inchiodare su certe dogmatiche applicazioni di essi - comunque e dovunque - a guisa di elementi cardine di un’identità testimoniale. L’opera di chiarificazione e indirizzo a cui si è accennato deve, per essere costruttiva, abbandonare l’ottimismo ingenuo avulso dalla realtà (persistente, per quanto faccia più male che bene) e optare per quel realismo rivoluzionario che animò un grande anarchico del passato – Christiaan Cornelissen – e il suo Il comunismo libertario e il regime di transizione. Infatti la mancanza di chiarezza e concretezza sull'aspetto costruttivo della nuova società ha notevoli effetti negativi, perché espone tutto il movimento libertario alle accuse (spesso fondate) di inconcretezza che gli avversari gettano a piene mani.

mercoledì 17 ottobre 2012

COLOMBIA: CONVERSACIONES DE PAZ EN MEDIO DE BOMBARDEOS Y GUERRA SUCIA, por Azalea Robles


…De palomas blancas y bolsas de cadáveres

Ante el anuncio de las conversaciones entre la insurgencia de las FARC y el gobierno colombiano, planteadas para la resolución del conflicto social y armado en Colombia, deviene necesaria la participación del campo popular colombiano con su bandera más ansiada: la justicia social. La Justicia Social es el nombre sincero de la Paz, una paz encaminada a cambios sustanciales y no a cambios cosméticos que no traerían nunca una paz verdadera; pero sí podrían conducir al campo popular colombiano a otro genocidio a manos de las herramientas estatales.


  • Niñas allanadas, hombres sobreexplotados, negocios jugosos y ‘la Paz’ en cortina de humo

prostitución infantil
‘La Paz’, ese concepto tan manoseado, tan instrumentalizado, y a la vez tan anhelado, no se siente de la misma manera en una mansión bogotana, que en una chabola de Buenaventura: porque la guerra empieza con el hambre. La angustia de ver a sus hijos morir de física hambre no es precisamente un ‘remanso de paz’. Las niñas prostituídas en las ciudades dormitorio de las multinacionales mineras -unas niñas cuyo paisaje campesino quedó destrozado por las excavadoras y la codicia-, tampoco viven precisamente una cotidianidad de paz al ser allanados sus cuerpos y sus sueños infantiles por hombres sobreexplotados y curtidos de esa ignorancia que tanto cultiva la élite para las mayorías.

Tampoco puede considerarse una ‘situación de paz’ al asedio de la delincuencia común que aqueja las ciudades colombianas, delincuencia directamente derivada de la exclusión social y del funcionamiento sicarial impulsado desde el mismo estado a través de su herramienta paramilitar, aunado lo anterior a la sistemática desintegración de la organización popular. Cabe tener presentes estas cuestiones ante el dantesco cuadro que viven hoy países como Guatemala, en los que también hubo alzamiento insurgente ante la injusticia social por un lado, e intervención estadounidense y terror de estado para mantener el saqueo por otro lado; países en los que se firmó una paz cosmética, sin cambios estructurales, y en los que hoy las cruentas ‘Maras’ parecen ser el camino de la CIA para canalizar la rabia y el descontento social de miles de jóvenes excluidos: todo sea para evitar que se organicen políticamente en reivindicación de sus derechos.


  • El conflicto social deviene armado ante el exterminio del cuestionamiento político

La élite despojadora mantiene la injusticia social mediante la restricción del acceso a la educación, mediante los medios de alienación masiva, y mediante el exterminio de quién la cuestione, implementando el terrorismo de estado: en ese contexto preciso de saqueo y represión hay que sumergirse para entender el por qué de un alzamiento insurgente del campo popular, ante la imposibilidad de ejercer la organización social y política sin sufrir persecución encarnizada. Para hablar de paz en Colombia, hay que buscar la raíz de la guerra, y entender que el conflicto antes de ser armado, es social.

La paz de los negocios es esa misma que asesina niños por desnutrición; mientras que la Paz de los pueblos removería los obscenos privilegios de la élite y del gran capital transnacional que vorazmente se acrecienta en base al saqueo. No se trata de la misma ‘paz’. ¿No es acaso guerra el hambre, y guerra la desaparición forzada de quién busca acabarla? ¿Poner fin a la estrategia estatal de guerra sucia no es acaso medular? ¿No es acaso el terror de estado el que empuja a miles de luchadores sociales a la clandestinidad de la insurgencia? ¿No son acaso guerra los encarcelamientos políticos, la existencia de una herramienta paramilitar al servicio del gran capital a la que se le entregan listas de opositores a eliminar, la tortura, la planificación desde altas esferas de desplazamientos poblacionales masivos? No puede haber resolución de la situación colombiana sin tomar en consideración la columna vertebral de la violencia: el terrorismo de estado que perpetúa un sistema económico basado en el despojo de las mayorías. Un terrorismo de estado anterior al alzamiento armado, implementado para eliminar la reivindicación social; terror que al cerrar los espacios de participación conllevó al alzamiento insurgente.


  • “Cualquier iniciativa que pretenda la paz,  debe contar con la participación plena de las víctimas de crímenes de Estado.”

El Movimiento de Víctimas de Crímenes de Estado expresa: “En los últimos 50 años de violencia estructural, el movimiento de victimas, social y de derechos humanos ha documentado más de 100.000 ejecuciones extrajudiciales, 10.000 torturas y cerca de 6 millones de personas desplazadas. De acuerdo a las cifras de la Fiscalía existen 62.000 desaparecidos.  La responsabilidad de estos crímenes es adjudicada en un alto porcentaje a miembros de la fuerza pública y/o a la política de guerra sucia adelantada por el establecimiento. Por esta razón, reiteramos que cualquier iniciativa que pretenda la paz estable y duradera,  debe contar con la participación plena de las víctimas de crímenes de Estado(…) Es indispensable  que se incluya en los diálogos de paz el tema de la libertad para los y las presos(as) políticas (…)exigimos que cesen los  montajes judiciales y la injusta judicialización de la protesta social”[1].
Colombia lleva más de 60 años desangrándose porque el terrorismo de estado lleva más de 60 años impidiendo las reivindicaciones de un pueblo, que pese a las masacres no se resigna a vivir arrodillado en las cloacas de la mendicidad, mientras las transnacionales saquean el territorio, derribando montañas, envenenado ríos y asesinando la risa de los niños.

martedì 16 ottobre 2012

LA HOMOSEXUALIDAD COMO ENFERMEDAD: ¡SEGUIMOS EN EL MEDIOEVO!, por Marcelo Colussi

“No es que Dios no quiere a los homosexuales; Dios no quiere el pecado”.
Declaraciones de un “terapeuta de homosexuales”

Hace ya casi un cuarto de siglo, el 17 de mayo de 1990, la Organización Mundial de la Salud -OMS- quitó de la Clasificación Estadística Internacional de Enfermedades la homosexualidad como una entidad gnosográfica, como una patología. Es por eso que esa fecha, el 17 de mayo, ha quedado instaurada como “Día Mundial contra la homofobia, la lesbofobia y la transfobia”.

Podríamos estar tentados de pensar que la tolerancia sexual está instalándose. Pero no necesariamente es así. La homofobia sigue recorriendo nuestra sociedad planetaria. Con diferencias, con matices a veces muy marcados, pero que a la larga no difieren en lo sustancial, la discriminación a partir de la identidad sexual sigue siendo algo común, cotidiano, más allá de avances significativos que al respecto se puedan haber conseguido estos últimos años.

Aunque aparentemente no sea quizá el tema “principalísimo” del momento, cuando estamos ante la infausta posibilidad de una nueva guerra mundial tal vez con el uso de armas nucleares, levantar la voz ante la homofobia no deja de ser importante. En definitiva, también es un grito de lucha. Lucha, incluso, en un doble sentido: para hacer ver la intolerancia sexual y los valores machistas, por tanto homofóbicos, que siguen rigiendo nuestro imaginario social (para muestra, las recientes mezquinas declaraciones de un ministro español que -¡felizmente!- le costaran el puesto: “las leyes son como las mujeres: están hechas para violarse”). Y lucha también contra la mercantilización de toda actividad imaginable (hoy, pese al “avance” moral de la sociedad, se siguen vendiendo terapias para curar la homosexualidad, y según esa lógica puede esperarse que en cualquier momento alguna casa farmacéutica patente la medicina ad hoc).

La lucha por un mundo mejor, más equitativo y solidario, implica levantar la voz ante toda injusticia. Las “psicoterapias” que hoy se ofrecen para “curar” esta supuesta patología constituyen una flagrante violación de los derechos personales así como un negocio de cuestionable solvencia ética. En Estados Unidos, país que sin dudas ha dado pasos muy importantes en la lucha contra la discriminación sexual, al mismo tiempo de esos avances existen también ofertas de tratamientos, en sintonía con una sociedad donde todo puede ser mercadería para consumir. Así, aunque ya hacía algunos años que habían desaparecido, el NARTH (sigla en inglés por National Association for Research and Therapy of Homosexuality) está ofreciendo seminarios de “Restauración Emocional, Relacional y Sexual: compasión y esperanza para los quebrantados” para “tratar la homosexualidad indeseada y el lesbianismo indeseado y otras formas de quebranto sexual y relacional”.

“Estos tratamientos no son inocuos; son muy dañinos para la salud mental individual y colectiva: individual, porque fuerzan modificaciones subjetivas imposibles e innecesarias que generan culpabilidad y sufrimiento, y colectiva, porque profundizan procesos colectivos de prejuicios y discriminación”, manifestó recientemente Leonardo Gorbacz, diputado autor de la Ley Nacional de Salud Mental de Argentina, y psicólogo de profesión.


La lista de países en que se estarán promocionado próximamente estas iniciativas es amplia: Australia, Reino Unido, Finlandia, Lituania, Países Bajos, Filipinas, Suiza y Estados Unidos. La homosexualidad, según esta propuesta, es una “desviación de la personalidad” que se puede “corregir” a través del “perdón y la fe religiosa, conseguidos por medio del castigo y la tortura física y psicológica”. ¿Quién dijo que terminó la Edad Media? Ya no se usan los cinturones de castidad, pero…

Con motivo de la anexión de Austria por los nazis al inicio de la Segunda Guerra Mundial, Sigmund Freud, judío al que, por su celebridad, se le perdonó la vida permitiéndosele marchar al exilio, dijo en el momento de abandonar su tierra natal: “En el Medioevo me hubieran quemado a mí; hoy queman mis libros. ¡Hemos progresado!”.

Luchar por un mundo menos primitivo, más solidario e incluyente, implica también luchar contra los prejuicios. Y como dijo otro judío famoso también (Einstein): “es más fácil desintegrar un átomo que un prejuicio”.

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sabato 13 ottobre 2012

«OSARE LA SPERANZA», di Pino Bertelli


Il mio lavoro di fotografo di strada con don Andrea Gallo - un prete angelicamente anarchico - e la Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, cerca di raccontare la vita sognata degli ultimi attraverso un atlante di geografia umana… don Gallo mi è amico e maestro di vita e lavoriamo in graziosa utopia per una vita più giusta e più umana per tutti… è l’insegnamento ricevuto dalla Resistenza, dall’indignazione contro l’ingiustizia, dalla festa libertaria del ‘68 a tenerci vivi e non li vogliamo tradire… [è vero, forse ci hanno sconfitti, la partitocrazia e le mafie finanziarie hanno cancellato o cercato di cancellare la Resistenza, il ‘68, le conquiste sociali dei lavoratori e la memoria storica di un intero Paese… ma ci sono voluti più di quarant’anni… nessuno si aspettava il ‘68, nemmeno noi, che avevamo poco più di venti anni allora e non tenevamo le mani in tasca… in quell’anno formidabile anche i vini e le marmellate vennero più buoni!… forse le generazioni future vedranno ancora una festa libertaria planetaria come quella del Maggio e tante altre prima, non so… a noi non resta che seminare, altri migliori di noi raccoglieranno]… così sono andato nella Repubblica Dominicana, a Las Galeras, con mia moglie Paola e abbiamo fotografato, parlato, diviso il pane con chi non ha voce né volto… abbiamo compreso che la dignità, il rispetto, la condivisione, l’accoglienza sono alla base dei diritti umani e non ci sono santi che tengono, o si è con gli esclusi della terra o si è complici di tutte le forme di dominio dell’uomo sull’uomo… la Comunità di San Benedetto al porto di Genova ha portato in quelle spiagge di bellezza e di dolore una sorta di “zona franca” dove ciascuno può trovare una dimensione di socialità, fraternità e ascolto sovente trascurati dalle “grandi" organizzazioni internazionali… i volontari della Comunità di Las Galeras (Domingo, Cila, Chicco, Roby e molti ancora) hanno fondato lì, porto di schiavi, di pirati e di rivolte, un pugno di casette (Las Mariposas) e insieme alla realizzazione di progetti a sostegno della popolazione povera sono riusciti a disseminare un pugno di speranze là dove impera il diritto della forza e non la forza del diritto… la bellezza dei poveri non può essere sconfitta, perché nella bellezza c’è il sale, il lievito e il fiore della giustizia… la bellezza della libertà e dell’amore tra gli uomini vi seppellirà… e per la libertà come per l’amore non ci sono catene. «Osare la speranza» era il motto della Brigata partigiana nella quale combatteva il ragazzo quindicenne Andrea Gallo (il suo nome clandestino era “Nan”, diminutivo di “Nasan” - “Nasone”, in genovese)… «L’uomo può rivolgersi al bene comune soltanto nella libertà» (don Andrea Gallo)… liberare gli oppressi significa dividere il pane con chi ha fame, aprire la casa a chi non ha tetto, vestire chi è ignudo e con tutti i mezzi necessari rovesciare un mondo rovesciato… la povertà non è uno stato naturale e la lotta contro questo stato di cose risponde alla propria coscienza… «Nessuno si libera da solo, ci si libera tutti insieme» (diceva Paulo Freire)… l’obbedienza non è mai stata una virtù! se l’oppressione grida forte, la speranza grida ancora più forte!

venerdì 12 ottobre 2012

¿DÍA DE QUÉ DESCUBRIMIENTO?, por Nechi Dorado

La infamia de un 12 de octubre

" ... entraron dentro de la carabela donde el dicho almirante venía e les motró el dicho almirante carátulas de oro que traía de las dichas Yndias e seys o siete yndios que traía de allá  e con un cuchillo  quitó el dicho almirante un poco de oro a vn indio e se lo dio ... "
 Archivo General de Indias, Signatura: PATRONATO,12,N.2,R.3 (fls. 33v-34r.)


Año 1492 o más o menos. No había Internet ni correo. Tampoco periodistas ni escritores que relataran los horrores que comenzarían a ejecutar en nombre de la fe, la evangelización, el desarrollo, la ¡civilización! A sangre y fuego, como corresponde actuar cuando se invade.
Con el correr del tiempo, de las naves y de la vergüenza, comenzaron a mutar hasta las palabras, accediendo a otras definiciones, por ejemplo, comenzaron a hablar de descubrimiento cuando debía hablarse de invasión. In-va-sión,  así nomás, sin vueltas ni tapujos.

No había nada más que  hombres, mujeres, niños, animales y riquezas  en esas tierras prósperas a punto de ser saqueadas. Casi nada y nada menos que riquezas, olfateadas a lo lejos.
Hasta la esperanza cayó herida tras la llegada de las naves desde las que descendió el genocidio.
La respuesta a la barbarie y al crimen no se hizo esperar,  generó la RESISTENCIA heroica -como toda resistencia-.
Quedó instaurado el  “Día del Descubrimiento de América” enredado en la teoría de la  “civilización”, la que devoró vida, costumbres y cultura ancestral.

¿Llegaron hombres o llegaron bestias aquel 12 de Octubre? Los recién llegados sin aviso  se llenaron de gozo pensando que habían descubierto lo que ya estaba descubierto por esa gente “salvaje”, del color de la tierra que era suya.
Pero ¿qué cosa era esa, la de creerse dueños de semejante belleza? Habrase visto tanto desparpajo, tanta insolencia en esos cuerpos donde las gotas del  sudor jugaban carreras antes de caer en los agujeros por los que se escapaba la vida.

A lo lejos, el símbolo de lo más bajo que puede representar recuerdo humano, mujer conocida como Su Majestad,  reina de España, fiel católica practicante, desde su trono de excrementos  se frotaba las manos solo de imaginar si la arriesgada travesía y la tremenda inversión mercantilista, llegara a dar sus frutos.
Así se reprodujo el oro y la riqueza sin pecado concebidos.
Así fue la  irrupción del Gran Capital que seguiría ahogándonos en el tiempo. Hizo su entrada triunfal con la fuerza de esos hombres que rugían mientras la baba caía por la comisura de sus labios descompuestos de deseo, luego de la larga travesía y al encontrarse, de pronto, con los cuerpos desnudos de nuestras indígenas.
Ni que hablar cuando vieron a las niñas.

Diseminado el horror, pasada la sorpresa, mientras descansaban los instintos satisfechos agotados por los esfuerzos de las  violaciones, había que empezar a  hablar de un dios que castigaba a los que no se postraran ante la cruz de madera clavada en las entrañas de la Pacha Mama.
Cruz, que por otra parte, tiene la propiedad del castigo aunque esté impedida para  detener las masacres y el espanto.
Había que hacerles entender que alguien “murió por ti”, para que se sientan cómplices de torturas desconocidas, hasta entonces, porque no eran aplicadas por ellos. Sino contra ellos.
Les hablaron de un dios que esperaba en el cielo a los “buenos” siempre y cuando lo veneraran antes. Ya no había perdón si se optaba por seguir siendo “salvajes”.
En ese caso, derechito al infierno.
Derechito…
Ese que algún imbécil pintó de rojo y convenció a millones.

Hoy se conmemora un nuevo año de la llegada del  primer monopolio español al que sucederían otros en  la historia capitalista de América, introducido gracias a la mano de obra barata de presos liberados para la travesía y enfermos reproductores de pestes.
Los primeros sicarios que pisaron tierra Nuestramericana.

Esta fue la historia venerada por muchos, repudiada por otros,  de aquel 12 de octubre de 1492  y sucedida por otras.

Y siguen llegando conquistadores a esta América morena.
Y siguen matando indígenas y a sus sucesores, los pobres.
Ya no asustan con cruz de madera, ahora es suficiente con lanzar un documento que asegure que otros “incivilizados” tienen armas químicas y ponen en vilo al mundo.  O decir, simplemente son “terroristas”.
El objetivo es el mismo: la riqueza que pese a tanto dolor y tristeza nuestra Madre tierra sigue pariendo.

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giovedì 11 ottobre 2012

CRISTIANESIMI VIII, di Pier Francesco Zarcone


LA “ISPIRAZIONE” DEI TESTI BIBLICI: UN PROBLEMA NON DA POCO

L’origine dei Sacri Testi: divina “ispirazione” o dettatura?
I sacri testi del Cristianesimo, cioè il Vecchio e Nuovo Testamento – la Bibbia –  sono tali perché - si assume - contengono la Rivelazione di Dio all’umanità. Questo ai nostri fini si traduce nel problema di cosa porre a oggetto del verbo “contenere”. Poiché non gli è stata data una risposta univoca, ecco che i canoni biblici nelle singole Chiese cristiane sono differenti, e in più si discute se la Bibbia debba essere interpretata alla lettera (posizione detta fondamentalista, oggi molto diffusa negli Stati Uniti) oppure se esistano vari livelli - come l’allegoria e la narrazione mitica - suscettibili di interpretazioni differenziate. Sul dibattito inevitabilmente influiscono i risultati dei progressi delle scienze (storiche, linguistiche, fisiche, ecc.). Soprattutto in ordine alla seconda maniera di intendere la Bibbia si pone la questione della sua divina “ispirazione”, poiché la tesi del fondamentalismo risulta affine al concetto di “dettatura” divina; alla maniera, per intenderci, del Corano dei Musulmani.
Nel Vecchio Testamento esistono passaggi il cui contenuto è in qualche modo apparentabile al concetto generalmente espresso nelle lingue moderne con “ispirazione”, concetto reso esplicito nelle traduzioni correnti, benché l’ebraico biblico ricorra a definizioni più poetiche, magari meno precise ma ricche di significati. Per certe profetizzazioni si dice che “Dio era sui” Profeti (Esdra, 5, 1); oppure che c’era stato un “soffio” di Dio nell’uomo (Giobbe, 32, 8); o che una certa iniziativa era stata presa perché Dio l’aveva “posta nel cuore” di taluno (Neemia, 7, 5); o che certe cose “sono o non sono da Dio” (Isaia, 30, 1).
Nel Nuovo Testamento si parla anche di “soffio” di Dio (II Epistola a Timoteo, 3, 14-16), o di persone mosse dallo Spirito Santo a parlare da parte di Dio”(II Pietro 1, 20-21). C’è posto, quindi, per varie speculazioni teologiche, fermo però restando il ruolo di una intermediazione umana seppure non meglio specificata. Resta comunque il fatto che biblicamente non risulta affatto dominante il concetto di “dettatura”. C’è un solo caso, nel Vecchio Testamento, in cui si dice trattarsi di cosa “scritta da Dio”: si tratta del Decalogo (Esodo, 24, 12; 31, 18; 32, 16; 31, 18; 34, 28; Deuteronomio 5, 22 e10, 4).
Nel Cattolicesimo Dio è stato definito “autore” della Bibbia da Agostino di Ippona, dal Concilio di Ferrara/Firenze, dal Concilio di Trento e dal Vaticano I. Anticamente era stato introdotto il concetto della dictatio della Bibbia: termine non pienamente coincidente con l’italiana “dettatura”, tuttavia potenzialmente in grado di fare unire questi due significati, come accadde con il domenicano spagnolo Domingo Báñez (1528-1604), che presentò l’agiografo come un puro e semplice operatore su dettatura.
Con Pio XII nell’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943) all’agiografo è stato visto riconosciuto un ruolo attivo nella redazione dei testi biblici, ma come “strumento” di Dio. Quest’ultimo concetto è sparito dalla Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, che ha effettuato una leggera correzione facendo degli agiografi dei coautori, in quanto anch’essi definiti “veri autori”, ma senza contribuire, in definitiva, a una maggiore chiarezza sul tema.

Bibbia e Tradizione in Occidente: Cattolicesimo e Protestantesimo
Nella Cristianità occidentale con la Riforma protestante è stato posto il problema della dicotomia tra Bibbia e Tradizione, come era ovvio avendo la Riforma formulato il principio sola Scriptura, facendo della Bibbia la sola base della fede e rigettando tutto ciò che fosse privo di espresso fondamento biblico. Di segno opposto la posizione cattolica, conforme a quella di Agostino di Ippona, che nel suo Contro la lettera di un manicheo (5, 6) aveva scritto:

«Non crederei al vangelo, se non mi spingesse a questo l’autorità della Chiesa cattolica»,

assumendo quindi la Tradizione base di autorità della Bibbia. Nel 1546 il Concilio di Trento formulò la dottrina delle “due fonti”, per la quale la Bibbia non può essere considerata fonte unica della Rivelazione, essendo non meno importante la Tradizione.
Si tratta di una dottrina in sé tutt’altro che identica a quella protestante, ma non ci si può fermare alla dissomiglianza. Tra le due concezioni esiste infatti un tratto comune: in entrambe resta la distinzione fra Bibbia e Tradizione, quand’anche risolta in modo diverso.