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giovedì 11 ottobre 2012

CRISTIANESIMI VIII, di Pier Francesco Zarcone


LA “ISPIRAZIONE” DEI TESTI BIBLICI: UN PROBLEMA NON DA POCO

L’origine dei Sacri Testi: divina “ispirazione” o dettatura?
I sacri testi del Cristianesimo, cioè il Vecchio e Nuovo Testamento – la Bibbia –  sono tali perché - si assume - contengono la Rivelazione di Dio all’umanità. Questo ai nostri fini si traduce nel problema di cosa porre a oggetto del verbo “contenere”. Poiché non gli è stata data una risposta univoca, ecco che i canoni biblici nelle singole Chiese cristiane sono differenti, e in più si discute se la Bibbia debba essere interpretata alla lettera (posizione detta fondamentalista, oggi molto diffusa negli Stati Uniti) oppure se esistano vari livelli - come l’allegoria e la narrazione mitica - suscettibili di interpretazioni differenziate. Sul dibattito inevitabilmente influiscono i risultati dei progressi delle scienze (storiche, linguistiche, fisiche, ecc.). Soprattutto in ordine alla seconda maniera di intendere la Bibbia si pone la questione della sua divina “ispirazione”, poiché la tesi del fondamentalismo risulta affine al concetto di “dettatura” divina; alla maniera, per intenderci, del Corano dei Musulmani.
Nel Vecchio Testamento esistono passaggi il cui contenuto è in qualche modo apparentabile al concetto generalmente espresso nelle lingue moderne con “ispirazione”, concetto reso esplicito nelle traduzioni correnti, benché l’ebraico biblico ricorra a definizioni più poetiche, magari meno precise ma ricche di significati. Per certe profetizzazioni si dice che “Dio era sui” Profeti (Esdra, 5, 1); oppure che c’era stato un “soffio” di Dio nell’uomo (Giobbe, 32, 8); o che una certa iniziativa era stata presa perché Dio l’aveva “posta nel cuore” di taluno (Neemia, 7, 5); o che certe cose “sono o non sono da Dio” (Isaia, 30, 1).
Nel Nuovo Testamento si parla anche di “soffio” di Dio (II Epistola a Timoteo, 3, 14-16), o di persone mosse dallo Spirito Santo a parlare da parte di Dio”(II Pietro 1, 20-21). C’è posto, quindi, per varie speculazioni teologiche, fermo però restando il ruolo di una intermediazione umana seppure non meglio specificata. Resta comunque il fatto che biblicamente non risulta affatto dominante il concetto di “dettatura”. C’è un solo caso, nel Vecchio Testamento, in cui si dice trattarsi di cosa “scritta da Dio”: si tratta del Decalogo (Esodo, 24, 12; 31, 18; 32, 16; 31, 18; 34, 28; Deuteronomio 5, 22 e10, 4).
Nel Cattolicesimo Dio è stato definito “autore” della Bibbia da Agostino di Ippona, dal Concilio di Ferrara/Firenze, dal Concilio di Trento e dal Vaticano I. Anticamente era stato introdotto il concetto della dictatio della Bibbia: termine non pienamente coincidente con l’italiana “dettatura”, tuttavia potenzialmente in grado di fare unire questi due significati, come accadde con il domenicano spagnolo Domingo Báñez (1528-1604), che presentò l’agiografo come un puro e semplice operatore su dettatura.
Con Pio XII nell’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943) all’agiografo è stato visto riconosciuto un ruolo attivo nella redazione dei testi biblici, ma come “strumento” di Dio. Quest’ultimo concetto è sparito dalla Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, che ha effettuato una leggera correzione facendo degli agiografi dei coautori, in quanto anch’essi definiti “veri autori”, ma senza contribuire, in definitiva, a una maggiore chiarezza sul tema.

Bibbia e Tradizione in Occidente: Cattolicesimo e Protestantesimo
Nella Cristianità occidentale con la Riforma protestante è stato posto il problema della dicotomia tra Bibbia e Tradizione, come era ovvio avendo la Riforma formulato il principio sola Scriptura, facendo della Bibbia la sola base della fede e rigettando tutto ciò che fosse privo di espresso fondamento biblico. Di segno opposto la posizione cattolica, conforme a quella di Agostino di Ippona, che nel suo Contro la lettera di un manicheo (5, 6) aveva scritto:

«Non crederei al vangelo, se non mi spingesse a questo l’autorità della Chiesa cattolica»,

assumendo quindi la Tradizione base di autorità della Bibbia. Nel 1546 il Concilio di Trento formulò la dottrina delle “due fonti”, per la quale la Bibbia non può essere considerata fonte unica della Rivelazione, essendo non meno importante la Tradizione.
Si tratta di una dottrina in sé tutt’altro che identica a quella protestante, ma non ci si può fermare alla dissomiglianza. Tra le due concezioni esiste infatti un tratto comune: in entrambe resta la distinzione fra Bibbia e Tradizione, quand’anche risolta in modo diverso.


I problemi inerenti alle concezioni occidentali
Le maggiori difficoltà presentate dalle concezioni occidentali dipendono dalla loro maggiore esposizione ai moduli critici dell’esegesi biblica; quanto meno di quella non controllata dalle Chiese, cattolica e protestanti. Alle posizioni fondamentaliste (come quella dello statunitense Moody Bible Institute) e non fondamentaliste, sono opponibili obiezioni problematiche incentrate su meri dati di fatto. Sostenere, cioè, la divina dettatura o ispirazione di un testo – quand’anche ne sia ignoto l’autore, e a prescindere dalle problematiche teologiche – implica l’esistenza del testo originale, che solo consente di sapere cosa l’autore abbia scritto. Questo è oggettivamente implicato dalle modalità di approccio delle due prospettive in questione: maggiormente per la prospettiva fondamentalista, ma anche per quella “moderata”. Nell’ottica protestante, poi, c’è il problema che la Bibbia viene assunta nella sua autonomia in quanto testo “autoevidente”.
Tuttavia, da qualche migliaio di anni non si dispone più dei testi originali della Bibbia, assertivamente dettati da Dio o ispirati ai loro “autori”. Abbiamo solo – databili in tempi molto posteriori - copie delle copie delle copie delle copie ecc. dei perduti originali. In più va considerato un problema manifestatosi già ai primi del XVIII secolo, quando John Mill, docente al Queen’s College di Oxford, curò un’edizione del testo greco del Nuovo Testamento: utilizzando un centinaio di manoscritti disponibili, egli individuò la bellezza di trentamila varianti! Oggi, disponendo di circa 5.700 manoscritti, quante saranno le varianti ricontrate? 30.000 x 5.700 o di più? Eppure si continua a ragionare come se non si trattasse di “testi perduti”.
Inoltre, è possibile un’obiezione specifica per le “scuole” teologiche non fondamentaliste secondo le quali, cioè, l’asserita ispirazione dei testi biblici si combinerebbe con la componente umana degli autori (sostanzialmente ignoti, e individuati solo in base a leggende e tradizioni): l’obiezione è che si dovrebbe essere in grado di individuare cosa in essi sia ispirato e cosa invece sia da riferire alle opinioni personali di chi li scrisse (opinioni storicamente contingenti, influenzate o dalla cultura del tempo o da caratterialità individuali). Magari non si tratterà della classica missione impossibile, ma se non è una specie di probatio diabolica poco ci manca.
L’esame contenutistico degli antichi manoscritti, poi, crea ulteriori problemi. In essi manca la distinzione fra maiuscole e minuscole, non ci sono i segni di interpunzione e le parole sono scritte in sequenza unica, cioè senza spazi fra di loro. Per capire meglio ipotizziamo un testo in cui si trovi questa frase:

           «ilvaloredelleopereèindubbiorispettoallafede».

Ciò significherebbe riservare maggiore importanza della fede rispetto alle opere, o viceversa? Vai a saperlo, se il contesto di inserimento non fornisce elementi univoci; ma questo non capita spesso. Per non parlare delle confusioni derivanti dall’uso di abbreviazioni.
La Bibbia israelitica (detta Tanak, dalle iniziali delle sue partizioni) si divide in tre parti: Torah (insegnamento, istruzione; ossia i 5 libri del Pentateuco), Nevi’im (i Profeti) e Kethuvim (gli scritti). L’esoterismo giudaico – particolarmente con la Kabbalah - ha attribuito alle parole e perfino alle singole lettere della Bibbia un valore sacrale e magico, come se si trattasse di testo dato direttamente da Dio. In realtà il Pentateuco è frutto della redazione finale di un anonimo (o di anonimi) risalente al 400 a.C. circa, mettendo insieme – non si sa con quali criteri – testi precedenti e nuclei di storie del sec. X a.C., cioè del periodo di Salomone, o di suo figlio Roboamo Re di Giuda.
Prendiamo la Genesi. Proprio questo libro (fondamentale soprattutto nella parte iniziale, in cui sono trattate questioni che diventeranno di primaria importanza nel Cristianesimo, come la creazione dal nulla, la “caduta originale”, l’origine dell’umanità, etc.), che econdo la Tradizione sarebbe stato scritto da Mosé in persona, si è rivelato di origine complessa e articolata, in quanto composto da ben quattro nuclei, indicati con lettere dell’alfabeto: J= essendo definito jahvista il suo autore (dalla grafia tedesca di Yahweh), in ragione del nome che dà a Dio; E= l’autore è definito elohista (da Elohīm) sempre per il nome con cui si riferisce alla divinità; P= indica l’anonimo sacerdote (dall’inglese priest) che ha redatto quasi per intero il Levitico; D= indica il redattore del Deuteronomio; R= indica il redattore finale del Pentateuco dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia. La narrazione cosiddetta jahvista (J) fu compilata verso l’850 a.C. nel regno di Giuda; la elohista (E), risale al 750 a.C. e fu compilata nel regno di Israele; la sacerdotale (P), probabilmente è inquadrabile tra il 716 e il 687 a.C. durante il regno di Ezechia; e la deuteronomica (D) è del 622 a.C. circa, attribuita a Giosia. La fusione sarebbe stata effettuata intorno al 538 a.C. da Esdra, al ritorno dall’esilio babilonese, e poi successivamente rimaneggiata.
Non stupisce quindi che dai testi biblici per gli studiosi (e non solo) sia sovente ricavabile tutto e il contrario di tutto. Magari di positivo c’è che dal Vecchio Testamento possiamo conoscere le fasi di sviluppo della religiosità israelita fin dalle origini, e in maniera ben maggiore di quanto non ci consenta il Nuovo Testamento per il Cristianesimo, restando tutta da ricostruire (se non con moltissima approssimazione) la realtà teologica, sapienziale e spirituale della comunità gerosolimitana di Giacomo il Giusto.

Lo stesso problema visto dagli Ortodossi: una diversa prospettiva
I Cristiani ortodossi non fanno propria né la tesi cattolica né quella protestante, ma ne hanno una propria, alla cui base c’è l’idea del Cristianesimo per essenza religione dell’evento cristico, dell’incontro con Dio, e non già dell’interpretazione razionalistica di testi scritti. L’approccio, come si vedrà dai cenni sul suo sviluppo, porta a una prospettiva diversa, dalle conseguenze particolari, e ci introduce in un ambiente culturale pressoché ignoto, inizialmente “strano” e forse di non facile applicazione “sul campo”, ma abbastanza semplice una volta assimilato. È l’approccio tipico di un mondo in cui il misticismo è una specie di “pane quotidiano”, i concetti sono scarsamente sistematizzati perché hanno il valore di mappa mentre il territorio è altra cosa, e frequente è l’uso delle antinomie come strumento epistemologico. Per questo la cultura occidentale non vi si muove con agilità.
Al centro di questa impostazione non c’è il “primato” della Sacra Scrittura o quello della Tradizione, bensì l’unità di Scrittura e Tradizione nella vita ecclesiale, con una concezione allargata della Tradizione come inclusiva di testi dogmatici, liturgici e canonici, ma anche di realtà extratestuali come le azioni nella liturgia, i canoni iconografici, i canti liturgici, le consuetudini di preghiera, le impostazioni spirituali, insomma tutto ciò che la vita della Chiesa contiene e implica. La Tradizione per gli Ortodossi fa comprendere il senso della Rivelazione (di cui è parte), ed è inerente alla Chiesa quale organismo metafisico, locum dello Spirito Santo.
Della Tradizione le Sacre Scritture sono parte integrante, e questo esplica i suoi effetti sulla concezione ortodossa dell’ispirazione divina della Bibbia. Quindi non viene accettato il presupposto della dottrina protestante della “sola Scrittura”, cioè che la Bibbia abbia in sé tutto quanto è necessario per la vita del cristiano e per la vera fede, la pratica e il culto. La conseguenza è che la questione non si incentra più nell’infallibilità letterale delle Scritture, bensì nel loro nascere, essere trasmesse e interpretate nella Tradizione vivente della Chiesa animata dallo Spirito, in una sinergia divino/umana. I testi biblici – vale a dire – sono stati scritti da esseri umani che non erano in stato di trance mistica e hanno lasciato i segni della loro individualità e dei contesti storici e culturali in cui si sono formati e sono vissuti. Come ha scritto il teologo Boris Sove,

«l’idea letterale e meccanica di ispirazione divina dei libri sacri, propria della teologia giudaica e protestante conservatrice, non può essere sostenuta dai teologi ortodossi, in quanto tende a una specie di “monofisismo"».

A sua volta il grande teologo russo Vladimir Losskij fece una considerazione che ben sintetizza la peculiare posizione ortodossa:

«Agli occhi di un qualunque storico della religione l’unità dei libri vetero-testamentari – composti nel corso di molti secoli, scritti da vari autori, che spesso combinavano e fondevano diverse tradizioni religiose – è casuale e meccanica. La loro unità con la Scrittura del Nuovo Testamento gli appare forzata e artificiale. Ma un figlio della Chiesa riconoscerà l’unitaria ispirazione e l’unico contenuto di fede in queste eterogenee scritture (..). Dio. Solo nella Chiesa possiamo coscientemente riconoscere in tutti i libri sacri una sola ispirazione, perché la Chiesa possiede la Tradizione, che è la conoscenza del Verbo incarnato nello Spirito Santo».

Al riguardo è chiaro quanto formulato dal Metropolita Kallistos Ware, nel senso che la Bibbia è un’intera biblioteca di scritti distinti, composti in vari tempi, da persone differenti, in situazioni ampiamente diverse, attraverso i quali Dio parla in molti tempi e in molti modi. Ogni libro della Bibbia riflette il carattere dell’epoca in cui fu scritto e il particolare punto di vista dell’autore, ma l’Ortodossia ritiene che Dio non abolisca l’individualità degli autori, bensì la esalti. A fianco dell’aspetto divino c’è anche un aspetto umano ed entrambi vanno valorizzati. Esiste anche l’interdipendenza tra Chiesa e Bibbia, in quanto le Scritture sono ricevute attraverso la Chiesa e nella Chiesa. La Chiesa ha deciso quali libri formano il Canone del Nuovo Testamento. Un libro non è parte delle Sacre Scritture a causa di qualche particolare teoria sulla sua datazione e autorevolezza, ma poiché è la Chiesa che lo tratta come canonico. Supponiamo provato che il Quarto Vangelo non sia stato scritto di fatto da San Giovanni. Tuttavia, anche in tal caso, ciò non altererebbe il fatto di considerarlo il Quarto Vangelo come parte delle Scritture. Poiché, chiunque ne sia l’autore, tale testo è accettato dalla Chiesa e nella Chiesa. In secondo luogo, sottolinea Ware, l’interpretazione delle Scritture nell’Ortodossia avviene attraverso la Chiesa e nella Chiesa, che non è controparte, ma organismo mistico di cui il Cristiano è parte integrante.
Si tratta, a ben vedere, di una posizione essenzialmente religiosa, mistica, non riducibile alla cosiddetta scientificità esegetica, così come quest’ultima niente ha a che vedere con la sfera religiosa. Si tratta di due stadi diversi, senza unicità di criteri e principi portanti. Come nessun credente può dimostrare more geometrico che egli aderisce a una, o alla, Rivelazione divina, così nessun esegeta o storico delle religioni gli potrà dimostrare di essersi sbagliato nel considerare Rivelazione ciò in cui crede.
Nell’ottica ortodossa la stessa questione del canone biblico assume un rilievo diverso rispetto ai mondi cattolico e protestante. Se ciò che importa è la Tradizione ecclesiale, e questa Tradizione pone al primo posto la realizzazione nella vita dello Spirito che trascende ogni testo scritto, di modo che seppure per ipotesi scomparissero tutte le Bibbie la Tradizione della Chiesa potrebbe riscriverle, magari non nella stessa forma, ma sì nella sostanza e salvaguardando la medesima fede. Allora si capisce cosa voleva dire nel secolo scorso l’Archimandrita Sofronio quando scrisse:

«La Tradizione, eterna e immutabile presenza dello Spirito santo nella Chiesa, è il fondamento profondo della sua esistenza, la Tradizione abbraccia tutta la vita della Chiesa, mentre la sacra Scrittura è solo una delle sue forme (…) la scrittura non è più profonda né più importante della tradizione, ma è una delle sue forme».

Per cui (sempre in questa prospettiva) nemmeno appare strano che il canone biblico delle Chiese ortodosse di lingua greca sia parzialmente diverso da quello della Chiesa Russa (il 3° libro di Esdra manca nella Bibbia greca, e in quella russa è presente un 4º libro dei Maccabei).
Innegabilmente la prospettiva ortodossa va metabolizzata, poiché corrisponde a un mondo culturale ancora poco conosciuto e del tutto peculiare. Ha la semplicità di un radicalismo con diversa orientazione; può avere i suoi problemi, ma evita taluni altri problemi della prospettiva cattolica e protestante la cui risolvibilità è a dir poco ardua.
Banalizziamo un po’ per semplificare: l’Ortodosso in linea di massima viene a dire all’esegeta e allo storico: “quello che per te, per i tuoi parametri, è un evento “naturale”, per me, per i parametri della mia Tradizione ha un significato metafisico e spirituale”. Che dirgli a solida confutazione? Un po’ come quando si oppone un ateo a un credente: due posizioni entrambe non dimostrabili, ma solo argomentabili, con variabili possibilità di parlare al cuore e al cervello in base all’abilità dei “duellanti”.
Ovvero: prendiamo il passo di Paolo in Romani, 5, 12 - assunto come base scritturistica del dogma cattolico della trasmissione del peccato originale, e tradotto in maniera conforme, mentre lo stesso testo è suscettibile di una traduzione che vada in senso opposto. L’Ortodosso non ha alcun dogma né un Papa che gli imponga una delle due interpretazioni: dispone di un tradizione collettiva vivente e vissuta da più di duemila anni da cui trae orientamento.
Purtroppo per la pazienza del lettore, non possiamo terminare qui il discorso. La posizione ortodossa non è focalizzabile nei giusti termini (e anche criticabile) senza una precisazione, in mancanza della quale rischia di essere visualizzata in modo conforme ai parametri del Cattolicesimo, la cui estraneità è rilevante.
Innanzi tutto nell’Ortodossia non esiste la distinzione cattolica fra Chiesa “docente” (l’ordine clericale, dal Papa in giù) e “discente” (il laicato, a cui si dice cosa credere). Nell’Ortodossia la Chiesa è – volendo semplificare – un grande ordine sacerdotale, in cui ogni Cristiano è anche profeta e sacerdote. La massima autorità di questa Chiesa, dicono i libri di divulgazione, sta nel Concilio ecumenico, ma non sempre nei correnti libri di divulgazione si precisa che il Concilio in realtà è ecumenico solo a posteriori: giacché l’infallibilità e l’autorità sono caratteristiche di cui gode solo l'intero corpo ecclesiale. Quindi, i Concili ecumenici godono della loro autorità non perché sono conformi ad esterne norme giuridiche, ma perché il popolo della Chiesa, l’intera Chiesa, li ha riconosciuti come ecumenici e genuini. Inoltre, c’è il fatto che la vita interna della Chiesa è vista improntata a una concezione vecchia come l’Ortodossia, quand’anche espressa oggi col moderno termine russo di sobornost, traducibile letteralmente con “conciliarità, cattolicità, unanimità”. Un esempio illuminante di questa concezione si ha nella celebrazione della Liturgia, che è azione sacrale della Chiesa nella sua totalità: quindi va da sé che un prete – se gli mancassero i co-celebranti “laici” - non potrebbe celebrarla da solo, stante l’incompletezza del corpo sacerdotale che costituisce la Chiesa stessa.
La sobornost – che per i credenti esprime altresì l’attività dello Spirito Santo nella collettività religiosa – viene anche a significare la capacità di partecipare, da parte di tutti i gradi e le funzioni presenti nella comunità ecclesiale (dal laicato all'episcopato), alle decisioni e funzioni della Chiesa, intesa non come organizzazione o struttura o società di fedeli, ma come organismo religioso spirituale.
Innegabilmente la storia delle Chiese ortodosse presenta episodi o fasi di autoritarismo ecclesiastico, che però nella sostanza sono stati e/o sono abusi, e quindi di illegittimità, alla stregua dei principi dell’Ortodossia.
Ancora una volta Occidente e Oriente cristiani sono assai poco simili, proprio laddove superficialmente gli osservatori sarebbero pronti a giurare il contrario.


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