“L'opera
d'arte ormai appartiene al passato.
I
grandi cambiamenti si realizzeranno soltanto quando larghi strati della
popolazione
li vorranno veramente e faranno pressione per
ottenerli.
L'unico
antidoto al sistema è l'anarchia,
l'anarchia
intesa non come assenza di governo, ma come assenza di dominio...
Il
cinema è una cultura della sovrastruttura capitalista.
L'autore
è nemico di questa cultura, egli predica la sua distruzione,
se
è un anarchico come Buñuel, o la distrugge se è un anarchico come Godard”.
Glauber
Rocha
Glauber Rocha
o del cinema di guerriglia
“Ogni
resistenza è qualificata dalla coscienza pratica che la anima”.
Raoul
Vaneigem
“Tutte
le rivoluzioni della storia sono cominciate senza capi,
e,
quando ne hanno avuti, sono finite”.
Censor
“Là
soltanto dove gli individui sono «direttamente legati alla storia universale»;
là
soltanto dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni”.
Guy
E. Debord
I. Del Cinema Nôvo brasiliano
La fioritura del Cinema Lixo (spazzatura)
brasiliano degli anni '60,[1] ha sfondato l'estetica
dell'oggettività e della violenza della cultura di regime, al quale ha contrapposto
l'estetica della fame e dell’utopia che at/traversa l'intero continente Latinoamericano.
Un cinema povero, a tratti grezzo e imperfetto, che si è buttato contro a tutta
la casistica del dolore in technicolor, assolto e celebrato dalla macchina/cinema[2] hollywoodiana. Là dove le oche
domestiche volano, tutto è merce e l’arte è sistemata nel sottoscala della
noia. Nel cinema mercantile (non solo americano) si respira quell’odore
irrespirabile di carogna, proprio alla burocrazia dell’impero occidentale che
insieme alla frusta, alla Bibbia, alle bombe, dispensa (a “basso costo”)
biglietti del cinema, televisori e la dittatura telematica/massmediale
(computer, telefonia, cinefotografia digitale, Internet, anche ecc.).
La tempesta sovversiva che il Cinema Nôvo
ha disseminato sugli schermi del mondo (e oltre la cornice filmica...) ha
prodotto smagliature, diserzioni, insorgenze di pezzi di popolo, momenti
culturali abrasivi che alla Lingua del fittizio e della forca hanno risposto con la ribellione e il fucile.
"L'uomo in rivolta si riconosce nelle situazioni che produce, chi non si
sporca le mani è un vigliacco o un complice: l'ordine senza giudici dell'avvenire
comincia nella realtà autenticata della sua rivolta".[3] Quelli che fanno l’avanguardia
(di ogni forma creativa) a metà, non fanno altro che scavarsi la fossa nella
stupidità celebrata, premiata, mitologizzata. Noi crediamo che l’esercizio più
importante della libertà sia la radicalità delle idee, specie quando si
nobilita nella distruzione degli idoli.
Il cinema del sottosviluppo riconosce le
proprie albe sovversive in opere disuguali, frammentarie, grezze... comunque
tutte legate insieme da un'etica antagonista e dal desiderio di rivoluzione
dello stato di cose esistenti. La hora de los hornos (L’ora
dei forni, 1966/1968)
di Octavio Getino e Fernando Solanas, El camino hacia la muerte del viejo Reales
(Il
cammino verso la morte del vecchio Reales, 1971) di Gerardo Vellejo,
Revolucion
(1965) di Jorge Sanjinés, Ricardo Rada e Oscar Soria, Yawar Mallku (Il sangue del condor, 1969) di Jorge
Sanjinés, La
tierra promedita (La terra promessa, 1973) di Miguel
Littin, Ya
no basta con rezar (Non basta più pregare, 1971) di Aldo
Francia, Os
fuzis (I fucili, 1963) di Ruy Guerra, Vidas secas (Vite
secche, 1963) di Nelson Pereira dos Santos, Ganga Zumba (1963) di
Carlos Diegues, Deus e o Diabo na terra do sol (1964) di Glauber Rocha…
aprono il cammino al cinema tropicalista, tricontinentale, dove "l'atto
rivoluzionario è il prodotto di un'azione che diverrà riflessione nel corso
della lotta... Tricontinentale [è] il cinema d'autore, il cinema politico, il
cinema contro, è un cinema di guerriglia".[4] Il linguaggio di questo cinema
della miseria si rovescia contro la miseria del cinema colonialista nordamericano
e mortifica l'incomunicabilità artistica di molto cinema europeo.
Le spiagge dell'utopia cercate dal Cinema
Nôvo o Tricontinentale crescono secondo un'angolazione libertaria del Terzo
Mondo e la macchina da presa non è soltanto uno strumento espressivo di alcuni
eletti dalla sorte (= eredità borghese) o dalla caparbietà di emergere dal
branco ma uno mezzo di conoscenza e di educazione alla verità. “Tricontinentale,
la scelta politica del cineasta nasce nel momento in cui la luce ferisce la sua
pellicola. Questo, perché egli ha scelto la luce: macchina da presa sul terzo
Mondo aperto, terra occupata, per la strada o nel deserto, nelle foreste o
nelle città, la scelta è obbligata… Insisto su un cinema di guerriglia come
unica forma di combattere la dittatura estetica ed economica del cinema
imperialista occidentale o del cinema demagogico socialista” (Glauber Rocha).[5] Siamo fatti dell’utopia di cui
sono fatti i nostri sogni. L’impero della servitù è lì, in mezzo al fango sulle
stelle, dove tutto è permesso perché niente è vero.
La geografia della fame del Brasile (e
dell'intera America Latina...) è stata gridata, portata sugli schermi di tutto
il mondo da Ruy Guerra, Nelson Pereira dos Santos e Glauber Rocha (più di ogni
altro poeta della povertà, del mito e della magia). Ne I fucili, Guerra si
richiama al realismo nudo di Luis Buñuel — Terra senza pane (Las
Hurdes, 1933) —… la superstizione religiosa, la sudditanza della
popolazione del Nordeste ai militari, proprietari terrieri, preti... strozzano
ogni possibilità di rottura del cerchio… la rivolta individuale finisce in
maniera tragica e la sopravvivenza mendicata nella passività fissano il film in
una miserabile vittoria. Quella del predatore sulla propria vittima.
I fucili è un saggio sul sottosviluppo, un film-materico, anarchico,
della rabbia in corpo... che non esalta a una concezione rivoluzionaria della
storia (la presa del potere da parte del popolo...) ma rimanda a una ragione
(una stagione) della rivolta che verrà. Guerra non soffoca l'immaginazione
sovversiva, si ri/volge contro ogni fatalismo medioevale del capitalismo
moderno o/e crisi esistenziale, d'identità e incomunicabilità borghesi... non
rinuncia alla necessità della violenza contro la violenza della classe dominante,
afferma la rivolta del singolo come frammento in cammino per la rivoluzione
sociale.
Il padre riconosciuto del Cinema Nôvo è
Nelson Pereira dos Santos, al quale si deve un film importante per la storia
degli uomini (oltre che del cinema...), Vite secche. Un'opera
"bruta", girata in luce naturale, senza ricercate inquadrature o vezzeggianti
formalismi. Un film come pochi che ci capita di vedere in una vita. La colonna
sonora è tra le meno tristi che hanno graffiato (o mielato...) lo schermo. Il
rumore delle ruote di un carro, l'abbaiare di un cane e canzoni popolari si
mescolano alla trattazione visuale elementare… i piani sequenza, lo stare
addosso ai personaggi con la macchina da presa (procedimento abituale a Robert
Bresson, Jean-Luc Godard, Jean-Marie Straub...), il ritorno alla figurazione
dei gesti, l'amore per la terra e la freschezza terribile di quei cieli forti,
inutili, fanno di questo film il luogo della sopravvivenza e della speranza in
armi che si scagliano contro la falsa oggettività. Questa pregnanza
documentaria porta in ogni fotogramma l'insorgenza della soggettività
insurrezionale e ad ogni giunta della pellicola mostra l'esecuzione capitale di
"Cinelandia".
In Vite secche si vive la fame storica
di un paese colonizzato. Qui l'essere armati segna la trasparenza di una
qualità, l'essere nel pieno della sua freschezza senza muri... dove il tuono
dello schiavo si rovescia in padronanza della propria esistenza... "Con il
cibo dei porci gli uomini sono già nella scienza... se taciamo, urlano le pietre"
(Georg W.F. Hegel). È un opporsi alla norma con ogni mezzo... buttare la passione
contro la ragione, il piacere contro il principio della produzione e dell'accumulazione,
fare della centralità del potere (un niente aberrante della verità
possibile...) l'origine della mancanza di mondo.
Glauber Rocha “scrive” un cinema
tropicalista, fonde simulacri e fucili, preti e puttane, ladri e padroni, santi
e diavoli... in un universo allegorico e tragico dal quale se ne esce o morti o
ribelli. Deus
e o Diabo na terra do sol mostra l'immobilismo del popolo brasiliano
che si asciuga le lacrime della fame con le tonache dei vescovi mentre viene
scannato dalle baionette dei colonizzatori. Per Rocha "il rivoluzionario
non deve solo fare la rivoluzione ma deve essere la rivoluzione". La
"scatola magica" (il cinema) dunque, deve liberare le ombre e le lame
di luce che scrivono la sua magia sulla tela bianca. Deus e o Diabo na terra do sol
si legge come una riflessione sul sottosviluppo, la cultura primitiva e
l'influenza coloniale della cultura incrostata sul mondo colonizzato.
La visione radicale di Rocha insiste su
un cinema tricontinentale (cinema d'autore, cinema politico, cinema contro...)
come cinema di guerriglia che combatte sia la dittatura estetica del cinema
imperialista che la demagogia propagandistica di quello comunista. I suoi film
si inseriscono all'interno della macchina/cinena come agenti provocatori che
partecipano alla sua dissoluzione. "Quando si cerca di ricreare artificialmente
una realtà vera, si finisce per falsificarla" (Rocha). Ogni uomo che abbia
il senso dell’utopia libertaria o dei piaceri libertini dell’esistenza, deve
ringraziare i ribelli d’ogni terra, perché sono loro e soltanto loro che hanno
permesso alle umane genti di edificare quella teoretica della disobbedienza che
ha disvelato i porci in doppiopetto della ragione storica. Che è una faccenda
tra mercanti di armi, governi ricchi e mercati globali, sempre.
II.
Estetica della fame e cinema di guerriglia
La coscienza possibile del Terzo Mondo si figura nella morale libertaria e nella ribellione che il cinema tropicalista di Rocha e i suoi fratelli rovescia sugli schermi della terra. Il Cinema Nôvo conosce la realtà vera del proprio tempo, grazie alle sue esagerazioni. I film/libelli che ha disseminato ovunque c'è un pubblico che vuol capire per trasformare, conoscere per ribaltare, sognare per non piangere mai più... hanno sovvertito la logica narrativa dell'industria e la loro irriverenza tragica, romantica, inquieta, anarchica... ha segnato la fine di tutte le dissimulazioni, le giustificazioni, le distruzioni permesse dei saperi ingabbiati nel circuito chiuso della prostituzione dell’immaginale.
La coscienza possibile del Terzo Mondo si figura nella morale libertaria e nella ribellione che il cinema tropicalista di Rocha e i suoi fratelli rovescia sugli schermi della terra. Il Cinema Nôvo conosce la realtà vera del proprio tempo, grazie alle sue esagerazioni. I film/libelli che ha disseminato ovunque c'è un pubblico che vuol capire per trasformare, conoscere per ribaltare, sognare per non piangere mai più... hanno sovvertito la logica narrativa dell'industria e la loro irriverenza tragica, romantica, inquieta, anarchica... ha segnato la fine di tutte le dissimulazioni, le giustificazioni, le distruzioni permesse dei saperi ingabbiati nel circuito chiuso della prostituzione dell’immaginale.
L'insolenza delle anime grandi di ogni
favola… si oppone (qui e dovunque c'è oppressione, autoritarismo, privazione
dei diritti di libertà di parola e di pensiero) all'eloquenza della temporalità
schiacciata dagli assassini dell'intelligenza… si chiama fuori dalla liturgia
della menzogna (delle fosse comuni), sulla quale i fanatici dell'obbedienza
hanno fondato la storia del consenso… non c'è via di uscita, o si è complici
dell'assassinio o si è ribelli all'ordine costituito. Il sottosviluppo non si
può cancellare con le chiacchere del vangelo né con i biscotti rancidi, il
latte condensato e le medicine scadute delle “grandi organizzazioni
umanitarie”… quando solo il meglio sarà sufficiente, l'insurrezione dei
senzavoce introdurrà l'amore del vero contro l'orrore del falso.
L'estetica del sogno contro l'estetica
dell'illusione. "L'opera d'arte ormai appartiene al passato. I grandi
cambiamenti si realizzeranno soltanto quando larghi strati della popolazione li
vorranno veramente e faranno pressione per ottenerli. L'unico antidoto al sistema
è l'anarchia, l'anarchia intesa non come assenza di governo, ma come assenza di
dominio".[6] Non ci sono principi buoni
quando si giustificano i bagni sangue che una parte di umanità (quella ricca)
commette contro un'altra (quella povera). La politica dell’odio[7] non ha più maschere. Gli
americani e gli europei negli ultini cento anni hanno scoperto gli orrori della
pulizia etnica in Bosnia, Croazia, Kosovo, Cecenia… poi si sono allargati al
Medio Oriente… l’ecocidio[8] è generalizzato e capire il
potere[9] significa andare contro
l’educazione che la civiltà dello spettacolo si è data.
L'estetica della fame del cinema
tricontinentale si contrappone all'etica feroce del profitto senza mezzi
termini: "Il cinema è una cultura della sovrastruttura capitalista.
L'autore è nemico di questa cultura, egli predica la sua distruzione, se è un anarchico
come Buñuel, o la distrugge se è un anarchico come Godard".[10] Ed è questo cinema della disperazione
che ha coltivato l'intima soddisfazione di avere acceso l'epoca della rottura e
l’immaginario eversivo che la prossima primavera di bellezza porterà alla
liberazione dell'America Latina e di tutti i Sud del mondo.
Il Cinema Nôvo è un flusso di immagini e di idee che hanno minato
alla radice il dominio della s/ragione mercantile. Un cinema di verità che ha
sparato contro il sole della tradizione e dell'accademismo. Ha prodotto una
riflessione dell'istante e un'estetica/etica del ri/volgimento fondati sulla
ricerca della libertà. Non siamo mai usciti dal tempo dei negrieri. La falsa
comunicazione dello spettacolo fa cultura. Ciascuno è diventato il poliziotto
dei propri bisogni. “La repressione del ribelle libertario si abbatte su tutti
gli uomini. Il sangue di tutti gli uomini gronda con il sangue dei Durruti
assassinati” (Raoul Vaneigem). Per fermare la mano che uccide i poveri della
terra non bastano le preghiere. La pace del mondo è nelle nostre mani. Gli untori
sono tutti noti. I loro pistoleri anche. Non ci scendono le lacrime sul viso
per il crollo di un paio di torri di cemento. E i tremila morti sotterrati in
quelle macerie ci commuovono. Però non possiamo non pensare ai milioni di morti
per fame, alle popolazioni sterminate, alla violenza istituzionale che impera
ai quattro angoli della terra… sappiamo che terrore di Stato e terrorismi religiosi
sono sovente confezionati dalla stessa mano. A memoria d’uomo non conosciamo
altra miseria che non sia quella spettacolarizzata, bagnata di sangue
innocente, sulla quale ogni potere ha eretto la propria fortuna. Ecco perché
ogni tanto il cuore risuscita di gioia, quando vediamo qualcuno danzare sulla
testa dei re, tiranni o generali. La nostra sconsiderata utopia ci porta a
sognare sempre ciò che il nostro animo ha già conoscuto o soltanto desiderato.
Il cinema negro di Rocha è un occhio
aperto sul mondo, uno strumento di conoscienza non addomesticata. Porta con sé
una estetica della fame e una estetica del sogno che vanno a profanare la
tirannia della mediocrità smerciata dall'industria di eroi e di puttane sante,
ombre ammaliatrici dell'immaginario dell’espropriazione e universo concentrazionario
di sopravvivenza ordinaria. Rocha ci ricorda che "una estetica della violenza,
prima di essere primitiva e rivoluzionaria, è il momento in cui il
colonizzatore si accorge dell'esistenza del colonizzato: solamente se il colonizzato
prende coscienza della sua unica possibilità, la violenza, il colonizzatore può
comprendere, attraverso l'orrore, la forza della cultura che egli
sfrutta".[11] L'opera di Rocha è un cinema di
opposizione, segna la perdita di tutte le illusioni, annuncia ed anticipa
l'epoca del fuoco, dell'utopia ritrovata sulle spiagge liberate dalla fame Latinoamericana.
Se dai alla vita quanto di meglio la tua anima ti dona, solo il meglio ti verrà
restituito.
Il cinema sovversivo di Rocha deraglia
dai vizi ideologici e dalle fronde culturali... rotti gli steccati della
politica istituzionale, frantumati i feticci della superstizione sciamanica,
consumati i falsi profeti della religione, Rocha racconta la fame storica, il
sottosviluppo, la violenza perpetuati in America Latina (da più di cinquecento
anni) dai Paesi più ricchi o più armati... Nella “Brevissima relazione della
distruzione delle Indie”, scritta da un frate spagnolo (Bartolomè de Las Casas)
nel 1542 e pubblicata solo nel 1987, si legge: “...e poi gente poverissima, che
assai poco possiede e ancor meno desidera possedere beni temporali: per questo non sono superbi, né avidi o
ambiziosi... più di dodici milioni di anime, uomini, donne e bambini, son morti
nel corso di questi quarant’anni per la tirannia e le opere infernali dei cristiani,
ingiustamente e iniquamente”.[12] A Las Casas rispondono i film
corsari di Rocha, che sovvertono l’abituale mancanza di coraggio della “scatola
delle meraviglie”. L’estetica della fame con la quale Rocha ha incendiato gli
schermi/specchi del mondo, si configura con l’estetica del sogno e in una
dialettica audiovisuale provocatoria, rivendica il cinema come interrogazione
dell’esistenza.
III. La trilogia della Violenza e la
bava dell’utopia
“La storia è commovente. Se i migliori autori, prendendo parte
alle sue lotte, si sono talvolta mostrati meno insigni che nei loro scritti,
essa non ha in compenso mai mancato, per comunicarci le sue passioni, di
trovare gente che avesse il senso della formula felice”.
Guy Debord
Nel 1965, Rocha scrive nel manifesto —
Estetica della fame — : “L’America Latina rimane tuttora una colonia: la
differenza tra colonialismo di ieri e quello di oggi sta soltanto nella forma
più perfezionata degli attuali colonizzatori... Noi sappiamo che la fame non
sarà curata dalle pianificazioni governative e che i rammendi del technicolor
non nascondono, ma aggravano i suoi tumori. Sappiamo, anche, tuttavia, che
soltanto una cultura della fame, minando le sue proprie strutture, può superarsi
qualitativamente: e la più alta manifestazione culturale della fame è la violenza”.[13] Su queste tematiche eversive, Rocha
compone la trilogia della violenza e della bava dell’utopia — Il Dio
Nero e il Diavolo Biondo (Deus e o Diabo na terra do sol,
1964), Terra
in trance (Terra em transe, 1967), Antonio
das Mortes (O dragao da maldade contra o santo guerreiro,
1968) — e dice: “Finché non impugna le armi, il colonizzato è uno schiavo: c’è
voluto un primo poliziotto ucciso, perché il francese si accorgesse
dell’esistenza dell’algerino” (Glauber Rocha). C’è voluto il colpo su colpo di
Emile Henry,[14] per mostrare (non solo ai francesi) il
valore d’uso di una marmitta piena di dinamite e scuotere il torpore nella
quale la coscienza pubblica si era addormentata di fronte agli assassinii dei
ribelli di ogni società.
Il Dio Nero e il Diavolo Biondo (Deus e o Diabo na terra do sol, 1964)
“E poiché l’uso dell’intelligenza testimonia più imbecillità
a sinistra di quanto l’uso della stupidità a destra, le leggi del profitto si
applicano ovunque con bella uniformità”.
Raoul Vaneigem
Elogio del margine o panegirico ereticale
di Glauber Rocha (che contiene la lode del personaggio e non comporta né
biasimo né critica). Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è un
capolavoro. Quando fu presentato a Cannes nel 1964 non ci furono ovazioni.
Critici e pubblico non lo capirono. Qualcuno lo voleva bruciare, altri chiesero
di trasformare la pellicola in smalto per le unghie delle signore dabbene (cosa
che era già successa per Greed, di Erich von Stroheim). In
principio erano solo le gesta popolari di un cangaçeiro (Corisco), poi Rocha
gli affiancò le canzoni del beato Sebastião. La storia di un contadino (Manuel)
e di sua moglie (Rosa) è anche la storia della fame profonda, della violenza
instituzionalizzata e della ribellione spontanea del popolo brasiliano.
Il film si apre con un canto: “Manuel e
Rosa vivevano nel sertão/Lavoravano la terra con le proprie mani/Ma un giorno
entrò nella loro vita il Santo Sebastião/Aveva bontà negli occhi e Gesù Cristo
nel cuore”. Manuel resta “folgorato” dall’immagine/novella del Santo e della
banda di fedeli al suo seguito... per la prima volta si rivolta al padrone e
l’uccide. Manuel si rifugia su una montagna e si avvicina alla mistica di
Sebastião, il quale predica una terra promessa dove “tutto è verde e i cavalli
mangiano fiori mentre i bambini bevono in un fiume di latte; e gli uomini si
cibano di pane fatto con le pietre, e la polvere della terra si muta in
farina... il mare diventerà sertão e il sertão mare”. Intanto Manuel e la banda
del Santo rubano ai ricchi, compiono violenze, espropri ed ingiustizie quanto i
loro affamatori. Rosa va sulla montagna e Sebastião uccide un bambino per
purificare l’anima della donna. Manuel imbrattato di sangue piange e Rosa
uccide il Santo. La Chiesa e la polizia inviano sulla montagna sacra un matador
(Antonio das Mortes) per sterminare la banda di Sebastião. Manuel si unisce a
un cangaçeiro (Corisco) con la stessa genuflessione e devozione (questa volta
“laica”) che aveva dato a Sebastião. Antonio da Mortes ucciderà Corisco, Rosa e
Manuel fuggiranno nel sertão fino a raggiungere il mare.
Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è un film disperato e complesso.
La fame (Manuel) genera la violenza contro le istituzioni (il padrone) ma il
contadino non riesce a riconoscere la propria rivolta senza la fede religiosa
(Sebastião) o la credenza in qualcuno (Corisco) che gli infonde il coraggio di
ribellerasi... il contadino può esprimere il proprio dissidio soltanto
attraverso un’immagine, un’icona, un capo con il quale identificarsi. Il Dio
(Sebastião) e il Diavolo (Corisco) sono destinati a morire per mano
dell’innocenza (Rosa) o del braccio armato delle autorità clericali, dei
latifondisti, dei bravacci del potere militare (Antonio das Mortes). Rocha va
alle radici della tradizione popolare brasialiana, Sebastião racchiude in sé le
vicende storiche/mitologiche di due beatos, Antonio Conselheiro e Lourenço da
Calderão. Al cangaçeiro Corisco gli sgherri del colonnello Rufino, tagliarono
davvero la testa, ed è ancora conservata (e considerata una reliquia) in
Brasile.
Manuel
unisce in sé la paura della fame e la paura del padrone. È l’incapacità del popolo
(non solo brasiliano) di prendere coscienza della propria forza e di liberarsi
dalla soggezione padronale e dalla genuflessione teologica. Anche se nel film
di Rocha si canta che “la terra non è né di Dio né del Diavolo ma dell’uomo”...
ciò che più deborda da Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è la
soggezione storica e l’immobilismo atavico di un intero popolo. Manuel prende
coscienza di sé soltanto quando Sebastião compie il sacrificio del bambino e
quando Corisco gli ordina di evirare il latifondista. Manuel non comprende la
violenza come diritto alla ribellione, violenza come risposta alla violenza
legalizzata di ogni potere. È Rosa ha capire che ribellarsi è giusto. Rosa
rifiuta Dio e il Diavolo. Il primo lo uccide. Il secondo lo ama. Il passaggio
dalla preghiera alla lotta armata per lei è un cammino. Una visione libertaria
che vede nella violenza l’ultima spiaggia per la salvezza e l’incominciamento
di una vita quotidiana meno cattiva. L’amore tra Rosa e Corisco è delicato,
sensuale, diverso... Rocha li filma in una specie di danza erotica tutta
giocata con la complicità allusiva/toccante della macchina da presa in
movimento, che fa da contrappunto alla musica e in un montaggio frammentario
figura i baci tra Rosa e Corisco, gli sguardi, i capelli, i corpi... in un
florilegio amoroso di singolare bellezza estetica e passionale. Corisco sarà
ucciso da Antonio das Mortes, Rosa e Manuel andranno verso la speranza, laggiù
dove il mare diviene sertão e il sertão mare di latte e di miele.
La morale ultima/estrema, Rocha la
riserva ad Antonio das Mortes... uccidendo i beatos e Corisco, Antonio conferma
la violenza e l’ingiustiza padronale ma nel contempo, elimina anche la
superstizione e la rivolta senza causa dei cangaçeiros... illuminante è ciò che
dice ad un cieco (che di volta in volta parla con i personaggi del film): “Un
giorno si combatterà nel sertão; non sarà la guerra né di Dio né del Diavolo.
Perché questa guerra cominci devo uccidere Corisco”. Il Dio Nero e il Diavolo Biondo
è al fondo della sofferenza, della fame, del colonialismo culturale, politico,
economico che fa della tragedia storica brasiliana il sintomo di rivolta più
aperto del Cinema Nôvo nel mondo.
Il film di Rocha è costato quattromila
dollari e 23 giorni di lavorazione. È un’opera “ruvida/abrasiva” ma non
sciatta. Le inquadrature di Rocha e i movimenti di macchina sono rivoluzionari,
inusuali, antitetici... compongono una “grammatica filmica” non convenzionale e
molto ricordano il “cinema di poesia” pasoliniano o la “poesia della surrealtà”
anarchica buñueliana... la musica (Heitor Villa-Lobos e Sergio Ricardo)
sottolinea con commozione tutti i passaggi, le cadute, le resurrezioni degli
avvenimenti e davvero grande è l’interpretazione di Iona Magalhaes (Rosa),
Othon Bastos (Corisco) e Mauricio do Valle (Antonio das Mortes). La fotografia
di Valdemar Lima è sparata sul reale... e come in Roma città aperta di
Roberto Rossellini, conferisce al film un’aura fantastica, una verità
immaginativa senza eguali. “Per noi la macchina da presa è un occhio aperto sul
mondo, la carrellata è uno strumento di conoscenza, il montaggio non è
demagogia ma punteggiatura del nostro ambizioso discorso sulla realtà umana e
sociale del Brasile!” (Glauber Rocha). Un cinema dunque, che prima di essere
primitivo è rivoluzionario.
Per Rocha era importante elaborare un
cinema tricontinentale, una specie di cineocchio aperto sulla realtà del Terzo
Mondo… una visione radicale dell’esistenza che è anche azione, diserzione,
ribaltamento di prospettiva… Un cinema del disincanto che “alle origini è
brutale e impreciso, romantico e suicida, ma [che] diventerà epico/didattico”
(Glauber Rocha) nel corso della lotta. Rocha insiste su un cinema di guerriglia
come unica forma per combattere la dittatura estetica ed economica del cinema
imperialista occidentale o del cinema demagogico comunista. Fuoco agli schermi,
dunque! E Rocha questo cinema epico, didattico, di guerriglia culturale/politica
continuerà a buttarlo sulla sindone puttana del cinema per tutta la sua breve
cinevita.
Terra in trance (Terra em transe, 1967)
“Non è sufficiente bruciare i musei [le chiese, i
parlamenti, le sedi dei partiti, le banche, le caserme...]. Bisogna anche
saccheggiarli”.
Internazionale Situazionista
I gitani dicono che la verità non va mai
detta con la lingua dei padroni, perché lì regna la menzogna. Con Terra
in trance, Rocha porta un attacco frontale alla casta intellettuale/politica/clericale
del pianeta Latinoamericano. Il film vuole risvegliare antiche rivolte tribali,
riaccendere i luoghi possibili delle insurrezioni popolari... ed è questa capacità
di esprimere l’estetica del sogno o l’anarchia possibile di un intero popolo
che disorientò la Destra e la Sinistra europee... smascherò senza timori o
riverenze la degenerazione della cultura, le connivenze della politica con il
clero e mostrò le origini della nascente dittatura. Il regime di Castelo Branco
non voleva devianze né occhi che invitassero a guardare, a pensare, a far
riflettere ciascuno con la propria testa. Nel corso di una manifstazione di
protesta contro la sede dell’OEA (l’Organizzazione degli Stati Americani),
Rocha viene arrestato e buttato in cella di isolamento. Dietro pressioni internazionali,
il ministro della guerra Costa y Silva lo fa scarcerare insieme ad altri insubordinati,
mostrando alla stampa un “caso di giustizia esemplare”. La tirannia istituzionalizza
il crimine e giustifica il sangue versato dagli insorti di ogni razza per la
conquista di una società senza frustate né terrori.
Terra in trance è un film-tesi sulla crisi brasiliana,
quasi un testamento della fame che riporta alle origini della comunità... le
speranze perdute, il tempo dell’amore, il tempo delle passioni rivoluzionarie
ormai affondati nel caos, nel genocidio, nel saccheggio economico
transnazionale. Rocha guarda il divenire con il pessimismo dell’intelligenza ma
invece di credere all’ottimismo della volontà del pensiero gramsciano, arma le
ragioni della coscienza (anarchica) del Singolo per allevare i sogni e i segni
della rivolta individuale. Ubica il suo racconto nell’Eldorado (il Paese
Dorato), la mitica terra delle sette città d’oro che da quasi due secoli è al
centro di ogni leggenda dell’America Latina. Non è difficile individuare
l’Eldorado di Rocha nel Brasile e più ancora nel Sudamerica. Non ci sembra che Terra
in trance si possa definire come “la somma di contraddizioni di un
uomo che ha sempre vissuto nella dimensione politica del suo paese. Una pausa,
in cui ci si solleva al di sopra degli avvenimenti e ci si guarda freddamente
dentro, giustificandosi e accusandosi alternativamente” (Cinzia Bellumori).
Vero niente.
In Rocha, il regno della libertà comincia
soltanto là dove cessa il neo/colonialismo e l’oppressione. Il suo fare-cinema
reinventa la vita quotidiana, sborda oltre i margini del cronachismo e
dell’attualità politica, ridisegna altre mappe comunicazionali della società
Latinoamericana. Sovente i suoi riferimenti libertari si affrancano alle imprese
di certi “Border Ruffians” (banditi di confine) che ovunque facevano “pubblica
professione di umanità” e in cambio della loro totale libertà, “avevano tutto
il diritto di farsi impiccare”. Gente insomma che esprimeva il disordine
dell’ordine e il caos della morale comune per cercare il “partito dello Stato
libero”... che hanno sempre odiato tutte le guerre ma non si sono mai sottratti
a partecipare alle guerre per la libertà di un uomo o di un popolo (Henry David
Thoreau, diceva).
Terra in trance si articola su un lungo flashback...
l’agonia e la morte di un giovane poeta (Paolo), assassinato dagli sgherri del
dittatore Diaz. Ricordi, emozioni, frammenti di vita quotidiana passano negli
occhi di Paolo. Il montaggio corto, spezzato, surreale... figura la parte
emotiva del film, quella che vede il popolo avanzare domande, interrogare i
padroni, sollevarsi e morire per riavere la propria terra, riconquistare le
proprie radici, ritrovare le proprie origini... ci sono poi lunghe sequenze
respirate, quelle che descrivono i filamenti mondani, politici, economici della
classe al potere... l’insieme affabula forse una delle più grandi opere/saggio
mai apparse sullo schermo. La ragnatela filmica di Rocha dissipa immagini, suoni,
metafore... dittatori, preti, comunisti, puttane della “buona borghesia”...
cangaçeiros, beatos, poliziotti, latifondisti... sono i riferimenti intorno ai
quali ruota l’immaginario violentato di Rocha, che descrive Paolo incapace di
rifiutare sia il paternalismo del potere (Diaz) che la demagogia
populista-comunista (Vieira). Quando Vieira si arrende ai fucili di Diaz, Paolo
decide di non cedere le armi e di inseminare col suo martirio la strada della
rivoluzione. La morte di Paolo assume ancora la simbologia cara a Rocha: solo
sulle rovine del passato possiamo erigere nuovi edifici, altri modi di abitare
il mondo.
La coscienza della lotta Paolo la
riconosce in Sara, che si esprime così: “Che ne sai tu di me? Io volevo
sposarmi e avere dei figli... invece ho alzato il mio primo cartello in
piazza... e sono stata torturata con l’elettricità. E nonostante questo ho
alzato il mio secondo cartello e poi un altro e un altro ancora”. Paolo capisce
che la strada della rivoluzione predicata da Vieira è falsa, ipocrita, stupida
quanto i muri della restaurazione di Diaz. Quando Rocha mette in bocca a Diaz
queste parole — “I comunisti hanno creato la mistica del popolo, ma il popolo
non vale nulla. Il popolo è cieco e vendicativo. Se si daranno occhi al popolo,
che farà poi il popolo?” —... vuole dire che quando si cerca di artificiare il
pensiero comune con indottrinamenti o mitologie squallide, sconce, false...
degne di quel bordello papale che è la “santa romana chiesa” o quella sozzura
di sbirri della partitocrazia comunista... il popolo non potrà mai superare la
propria paura e conoscere la gioia di esistere senza catene né simulacri.
In America Latina e dappertutto, i
sistemi politici di destra, di sinistra o più semplicemente borghesi... sono
legati al mito della conservazione e del saccheggio che l’Occidente continua a
identificare con lo “sviluppo sostenibile” e che in altri termini si chiama –
colonizzazione –. La rottura del cerchio, cioè dei razionalismi del colonizzatori,
sembra essere la sola via di uscita per i clandestini della libertà. “La rivoluzione
è un atto magico perché è l’imprevisto all’interno della ragione dominante...
Il sogno è l’unico atto che non si può proibire” (Glauber Rocha). L’estetica della
fame e l’estetica della violenza che Rocha ha espresso in tutta la sua opera
cinematografica, si oppongono all’insieme delle avanguardie artistiche del
proprio tempo e quello che andavano a produrre nel pensiero corrente era
appunto l’anti-ragione dei suoi fondamenti e dei suoi valori estetici ed etici.
Alla ragione oppressiva rispondeva con la ragione rivoluzionaria e l’arma del
suo strappo era la povertà profonda, endemica, di una grande parte di umanità
che insorge per conquistarsi il diritto di avere diritti.
Terra in trance è un film sul popolo ma non è un’opera
popolare o populistica... è un invito alla rivolta ma non alla rivoluzione...
la vampata di un fuoco, non il tepore (o lo sfavillio) della cenere. Rocha si
lancia contro l’oscurantismo culturale, l’inquisizione religiosa, l’ipocrisia delle
convenzioni e ad ogni giunta di pellicola — sembra dire — che occorre assumere
la violenza delle proprie idee (fino in fondo) per respingere l’odio dei nuovi
barbari. Terra
in trance è una mina vagante nelle sale di prostituzione (i cinema)
che esplode nei preconcetti della sinistra partitocratica e nell’intolleranza
famelica della destra... Rocha esprime qui (e dappertutto nel suo cinema fatto
e pensato), una comunicazione dello strappo, un coagulo di polemiche, una
partecipazione al dissenso che divengono percorsi, passaggi, voci disperate dei
senzavoce dell’intera America Latina. Per Rocha la cultura europea è una
cultura morta, decadente e solo una cultura dell’utopia e della ribellione
potrà modificare alle radici la realtà vera dei popoli oppressi.
Il cinema di guerriglia di Rocha è un
cinema radicale, un modo cosciente di combattere la dittatura dello spettacolo
e la demagogia delle ideologie che lo contengono e lo promuovono a mito. La sua
definizione più semplice è — cinema tricontinentale — e significa che
“qualsiasi macchina da presa il cui obiettivo sia aperto sulla realtà del Terzo
Mondo è un atto rivoluzionario.
Tricontinentale. L’atto rivoluzionario è
il processo di un’azione che diverrà riflessione nel corso della lotta”
(Glauber Rocha). La realtà è sempre più grande di ogni storia, di ogni fede, di
ogni idelogia... basta avere il coraggio di saperla cogliere nelle pieghe del
terrore istituzionalizzato e far salire negli occhi dei potentati, la stessa
paura che hanno provocato (per millenni) nei popoli assoggettati. Ovunque “la
ghigliottina è uno sportello di banca” (Louis-Ferdinand Céline). L’uomo è
precisamente ciò che sogna. Ciò che vive. Tutti i pezzi di merda sono capaci di
parlare bene di Dio, dello Stato, della Cultura... più sono stupidi e più
sparlano, si premiano, si smedagliano... quello che conoscono è l’adulazione,
il tradimento, la tartuferia... scatenane uno e vedrete che tutti gli altri si
uccideranno da sé o chiederanno di essere impalati alle picche dei comunardi
del prossimo Maggio rosso.
Antonio das Mortes (O Dragao da maldade contra o Santo Guerreiro,
1968)
“Contro l’ingiustizia non posso ammettere una rivolta
parziale, ma solo una rivolta eterna, perché eterna è la miseria dell’umanità”.
E.M. Cioran
Nel pieno della contestazione generale
del ‘68... Rocha torna nel sertão e gira Antonio das Mortes. Riprende le
tematiche di Il Dio Nero e l’Angelo Biondo e contrappone la miseria
atavica del Nordeste allo sviluppo tecnologico del Brasile che si avvia alla
dittatura di Medici (farà il colpo di Stato nel 1969). Rocha adopera un
linguaggio filmico diretto, secondo la lezione di Roberto Rossellini e nel contempo
firma un saggio di antropologia culturale, secondo la lezione di Jean-Luc
Godard. Qui Rocha abbassa le tensioni mitologiche e sottolinea i problemi
politici di un Paese (il Brasile) ancora in parte sconosciuto.
La storia di Antonio das Mortes è quella
di José Rufino, un bandito, uno di quei
cangaçeiros che sono andati alla deriva nel deserto del Nordeste, senza
tetto né legge. Spinti dalla miseria estrema, dalla fame, da anni di
ingiustizie... i cangaçeiros del Nordeste si fecero banditi senza bandiere né
speranze che non quella di sopravvivere con le armi in pugno contro il fascio
delle istituzioni... divennero i principali oppositori del latifondo, del feudo
agrario, dei corvi della chiesa, della violenza militare... e nelle loro
canzoni dicevano che “l’inferno è la casa del padrone e quest’ultimo Satana
stesso”. Le gesta di Lampião, un cangaçeiro storico, un mito che appare in
tutti i canti brasiliani, raccontano che soltanto con la violenza del ribelle,
la violenza del padrone potrà finire... Coirana, prima di essere ucciso da Antonio
(come Corisco de Il Dio Nero e l’Angelo Biondo), grida che “libererà
dalle carceri i prigionieri, e vi getterà dentro i carcerieri, farà sposare in
chiesa la puttana col velo bianco e di luna piena...”. Non sarà così. Antonio è
il sicario chiamato dai proprietari terrieri, dai militari, dal clero... per
fare piazza pulita di tutti i cangaçeiros del Nordeste... la sola riforma che
conosce è la soppressione di ogni rivolta.
Alla testa dei beatos c’è la Donna Santa,
incarna la rivolta sciamanica ma non contiene le esaltazioni mistiche del Santo
Sebastião di Il Dio Nero e l’Angelo Biondo... il negro che gli sta
accanto (porta sempre lo stendardo dove è raffigurato San Giorgio e il drago
morto ai suoi piedi), è una metafora importante e Rocha lega qui il neo/colonialismo
con le origini africane. Il cangaçeiro Coriana e la Donna Santa si uniscono nella
lotta contro il padronato ma nella sfida con Antonio, il cangaçeiro verrà ucciso
e con lui anche tutti i sogni di una rivoluzione senza possibilità di vittoria.
Quando Antonio incontra sulla montagna la Donna Santa, si accorge di essere
dalla “parte sbagliata”, quella dei padroni, dei
tiranni, degli aguzzini... e il matador di cangaçeiros si trasforma in una
specie di “cavaliere del deserto” che una volta scoperta la realtà profonda del
colonizzato, si ribella alla storia imposta ed impugna le armi contro gli oppressori.
Per ammazzare i cangaçeiros di Coirana, il proprietario terriero Coronel chiede
l’intervento dei mercenari di Mata Vaca. La donna di Coronel (Laura) uccide il
suo amante (il Commissario) e lo va a seppellire nel deserto con il Professore
(un intellettuale un po’ visionario, un po’ fatalista). Intanto i mercenari di
Mata Vaca si preparano a compiere l’eccidio dei beatos... Laura e il Professore
fanno l’amore nel sertão, disturbati dal prete che vuole impedire il massacro.
Rocha (usando con grazia il montaggio alternato), intreccia l’erotismo dei
corpi (Laura e il Professore) con la sensualità della danza (i beatos) e la
crudità della fucilazione dei mercenari (i cadaveri si vedranno soltanto alla
fine del massacro). Gli unici superstiti sono il negro e la Donna Santa (non
possono essere uccisi, perché loro sono i simboli della lotta contro tutte le
ingiustizie). Il prete, alla fine del film decide che non basta più pregare,
impugna il fucile e prende la strada della rivolta armata. Antonio e il
Professore hanno un sussulto di vita... davanti alla chiesa (in piena citazione
western), uccidono Mata Vaca e i suoi uomini. Non c’è pistola o fucile che li
possa scalfire... l’ultimo a morire è Coronel, trapassato dalla lancia del
negro a cavallo, secondo l’iconografia popolare di San Giorgio... anche Laura
(la puttana del padrone) muore nella sparatoria. La Donna Santa, il Negro, il
Professore e il Prete in armi si allontanano verso il sertão... Antonio das
Mortes, sceglie un’altra via. Con il suo cavallo avanza sulla strada asfaltata
tra camion ed auto del “mondo moderno”, va incontro ad una civiltà senza
speranza che non capisce né vuole capire... Una chiusa di rara importanza
politica e di ineguagliabile bellezza poetica.
Rocha porta sullo schermo le Vie dei Canti[15] brasiliani, sostituisce la
mortificazione della miseria con la trascolorzione dei sogni... e sono tante le
“samba” che dicono: “Non ho fagioli, faccio la minestra con le pietre”, “morirò
sul marciapiede ma con molta allegria”, “la favela è l’ingresso del paradiso”,
“preferisco morire nella siccità del mio sertão che vivere nel deserto di
asfalto”. Antonio
das Mortes è il grido di rivolta più alto che esce dalla cultura del
sottosviluppo... figura la rabbia più profonda dei diseredati della terra... il
diritto alla rivoluzione di tutti quei popoli che sono tenuti nell’oppressione,
nell’ingiustizia, nella soggezione dai Paesi più sviluppati... “La rivoluzione
brasiliana sarà possibile solo dall’incontro di mentalità mistiche e non
politicizzate come Antonio con mentalità politicizzate come il professore, e
dalla presa di coscienza dei contadini e dei negri analfabeti. Perché il popolo
ha bisogno proprio di quella chiarezza politica che gli può dare l’avanguardia
intellettuale” (Glauber Rocha). L’agonia di un mondo in fiamme rimanda
all’infanzia dell’Utopia dove la sola verità possibile passa dalle parti della
garrota degli insorti.
IV. L’età della terra e l’angelo
dell’anarchia
C’era una volta e una volta non c’era… che sulle coste della
Catalogna, in Spagna, un giovane pescatore di frutti di mare molto speciali,
che nessuno riusciva a mai pescare… vendeva i suoi frutti — uno alla volta —
alle famiglie povere del quartiere. Un giorno, uno dei più ricchi affaristi di
Barcellona, gli disse: “Senti ragazzo, pesca questi frutti di mare per me… te
li compro tutti insieme e al doppio di quanto li vendi a quei poveracci… li
porterò ai migliori ristoranti della città”. Il giovane pescatore rispose: “No
signore, preferisco venderli uno alla volta a chi pare a me”. L’uomo chiese: “E
perché? Ti risparmio molto lavoro e te li pago il doppio?”. Il ragazzo rispose:
“Perché io sono il padrone della mia fame”.
Solo
alcuni crimini efferati, di un genere diverso a quanto si conosce, che in
passato hanno fatto impallidire figure di alto lignaggio… non sono indegni di
noi. L’involgarimento di ogni potere ci fa schifo. Ovunque ci sono uomini
migliori dei loro padroni. Soltanto non lo sanno. Basta interpellare la povertà
del mondo, per sapere se si è veramente felici. La politica è un’affare. Come
la guerra e la cultura. E i disertori dell’ordine vanno messi al muro. Ci sono
miserie così splendenti che nessuno può rendere invisibili. Per questo che un
giorno di un tempo che c’è, dal fondo dell’umanità umiliata e offesa,
ritorneranno gli angeli con la faccia sporca (dell’anarchia) e porteranno
all’uomo in rivolta le loro ali. E quando gli uomini del no! si preparano a
passare dalle periferie del mondo al centro della scena, la loro ragione
diventa tremenda. La storia autentica non può che essere opera di uomini
liberi.
L’idea di realizzare A Idade da Terra (L’età
della terra, 1979) nacque quando Rocha apprese dell’assassinio di
Pier Paolo Pasolini.[16] L’angelo dell’anarchia ricorda
l’importanza ereticale del film di Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo,
così:
— ho pensato di filmare la vita di Cristo nel terzo mondo.
Pasolini aveva realizzato un film sulla vita di Cristo... all'epoca di Giovanni
XXIII... rompeva l’immobilismo della chiesa cattolica riguardi ai problemi...
dei popoli... sottosviluppati del terzo mondo... e, anche, rispetto... alla
classe... operaia europea. È stata la rinascita... la risurrezione... di un
Cristo che non veniva adorato sulla croce. Ma... un Cristo... venerato.
Vissuto... rivoluzionato l’estasi... della risurrezione. Sul cadavere di
Pasolini... io pensavo... che Cristo... era un fenomeno... Nuovo. Primitivo. In
una civiltà... molto... primitiva. Molto nuova —.[17]
A Idade da Terra è quasi per intero, una “conversazione”
a più voci, a più facce, nella quale Rocha racconta come è nato il film, gli
errori fatti, i cambiamenti di inquadratura, gli appunti sparsi... è un
non-film o un film-incompiuto, o forse l’opera più radicale di Rocha. Sovente
la voce del regista entra in campo. Suggerisce qualcosa all’attore, a un
tecnico, a una comparsa... in altri momenti la figura del regista affianca
personaggi in scena, parla con il tecnico del suono, indica all’operatore lo
stacco della ripresa, deborda in piano ravvicinato o sistema il trucco di un
attore. Attraverso l’interruzione del discorso filmico, Rocha rompe anche
l’abituale ricezione della lettura cinematografica. In un monologo spiega ciò
che pensa del suo film:
— Sono... venti, trenta milioni... quaranta
milioni, cinquanta milioni di anni. Nell’antropologia che... la scienza... la
fisica, o... l’antropologia... o l’archeologia, tutte queste... scienze... che
materializzano i desideri... Si perde la lingua stessa. Il portoghese... è una
lingua che non esprime molto bene le conoscenze che non abbiamo... di un
passato... smemorato. Sono 500 anni di civiltà... bianca, portoghese, europea,
mescolata agli indios e ai neri... che sono... millenni, al di là della misura
dei tempi, aritmetici... o della pazzia matematica... che non si sa... da
dove... proviene... nemmeno... la nebulosa del caos... del nulla... ovvero sia:
Dio... o il nulla. Chi non crede in Dio... crede nel nulla. Se il nulla è
Dio... Allora... è molto... è molto rapida la storia... è una storia a una
velocità fantastica... è una disperazione “lisergica”. E non può essere
definita nell’ammmb... nell’umano, danno, nelle parole tutte che potrebbero
definire il significato della piramide —... [18]
Rocha
spacca il filo del discorso strutturale. Non è né narrazione né testo scritto.
Non c’è “nessuna” organizzazione compiuta dei materiali (non è vero). Sono
frasi, in apparenza slegate, disarticolate, sconnesse, che invece, piano piano,
nel proseguo del film, assumono una sorta di parabola eversiva. I suoni non
sono sempre identificabili e le grida dei personaggi sovente invadono la scena,
comprendo la voce di Rocha. L’Eldorado, Brasilia, Cristo sono mescolati a
simbologie dimenticate, a cerimonie destituite, a desideri ammazzati... e salta
via ogni forma di punteggiatura.
La storia universale della menzogna, il
regista brasiliano la riassume così: “i religiosi cattolici e protestanti hanno
provocato esplosioni navigazioni guerre invasioni dei mori in Europa invasioni
dei cristiani nell’Africa del nord Spagna Portogallo e Inghilterra occupano
l’America dall’altra parte indios massacrati neri importati guerre
d’indipendenza latifondi industrie guerre di latifondo e industrie guerre di
industrie e latifondi guerre civili pronuncamientos caudillos guerre
guerriglieri rivoluzioni golpe di stato democrazia regressioni avanzamento
arretramento sacrifici martiri America America del nord si sviluppa lo sviluppo
tecnologico americano porta la civiltà nel mondo del secolo XX. La rivoluzione
sovietica del 1917 guidata da Lenin Trotskij e Stalin sovverte completamente il
discorso capitalista nordamericano mentre i popoli sottosviluppati dell’America
Latina dell’Africa dell’Asia pagano il prezzo dello sviluppo dell’Europa atea
degli Stati Uniti... i popoli sottosviluppati sono alla base della piramide non
possono fare nulla” (Glauber Rocha).[19] Il pane della libertà è amaro e
la pietà non è mai stata rivoluzionaria.
A Idade da Terra porta lo spettatore al centro del
problema, nel cuore dell’umanità offesa. È un inno sulla sofferenza dei deboli
e degli oppressi. Un’analisi puntuale su un mondo eretto su fondamenta di
sangue e di violenza. Una dura critica alla ragione in cambio della riconquista
del sogno. Alcuni personaggi gridano: “Un’implosione al centro della terra ha
demolito le nostre fondamenta”…. “Questa è la cloaca dell’universo”…. “Beati i
folli, perché la ragione sarà la loro eredità”. Il film di Rocha cerca di
tradurre sul piano audiovisivo le asperità del mondo… là dove i popoli sottosviluppati
non possono non aggrapparsi alle radici del passato o all’insurrezione
dell’Utopia.
La “luce” di Rocha in A
Idade da Terra è calda, quasi pastello. L’azzurro, il bianco e
l’argento del carnevale invadono lo schermo e la poesia estetica accumulata
sulla tela sino a qui, di colpo frana. L’immaginario di Rocha è irrefrenabile.
Si avvale sia della teatralizzazione dello spazio mistico, sia di quanto corre
nelle avanguardie figurative... e il suo film conduce lo spettatore verso
l’ignoto o il mistero del cinema. Prima c’erano l’allegoria del potere, le
repressioni dei militari, le croci del cattolicesimo, i fucili dei
guerriglieri, la rivolta dei “santi”... ora il fascino dei significati liberati
nella cornice filmica (il colonialismo, il cattolicesimo, il capitalismo, il
socialismo, la barbarie). Lo spirito della rivolta si sostituisce
all’illustrazione della rabbia e Rocha liquida gli orrori dell’immaginario
collettivo con la parola, l’immagine pura e uccide il cinematografo.
A Idade da Terra Rocha mostra che il Brasile “ha
cinquecento anni di civiltà portoghese, europea, cristiana e chi lo sa che
altro ancora” (Glauber Rocha). Da subito dice che è la terra e il nascere del
sole che danno il respiro della vita ovunque. L’acqua la rende fertile e nella
grande fazenda dimora il padrone mentre neri, indios, cani e puttane ballano
nel cortile. Rocha recupera la mitologia delle Amazzoni e si addentra nel mondo
dei morti dove i canti degli antenati fanno da ponte alla storia delle
repressioni a venire. Non è profeta né del Diavolo né di Dio ma testimone
dell’utopia possibile, quella che vedrà il popolo riunito intorno alle ceneri
dissotterrate dell’ingiustizia.
A Idade da Terra è un’esplosione di segni che non seguono
una trama precisa. La tessitura a ventaglio permette a Rocha di mescolare
danze, pistoleri, cortigiane, amazzoni, cristi, diavoli, rivoluzionari,
seduzioni, sensualità, carnevali, processioni, utopie che si sovrappongono e
danno al testo filmico finale il senso profondo, epico, didattico, rivoluzionario
di un reale tutto ancora da inventare. Va detto di passaggio che “il popolo,
decimato da Antonio das Mortes in Deus e o Diabo perché
non morisse di fame o di fanatismo, disprezzato dall’intellettuale e ucciso con
la canna della pistola infilata in bocca in Terra em Transe, viene invece
rappresentato (reverenziato) con amore sincero e con affetto in A
Idade da Terra. Il popolo marcia sulla piramide che Brahms ha fatto
costruire perché gli serva da futura tomba, come su una nuova Bastiglia; anche
se nel finale, misteriosamente, la piramide inghiotte il popolo, ubriacandosi con
la Pepsi Cola, come in Russia, invece che con il vino”.[20] Il film si legge come un’orgia-arcaica o
una liturgia-pagana sconsacrata — secondo le novelle angeliche pasoliniane —,
dove l’imperialismo, il cattolicesimo, il colonialismo, la pornografia, la tirannia,
la criminalità, l’amore, il feticismo, l’omosessualità, i militari,
l’antropofagia, la denutrizione, la negritudine, la lotta armata, cristi,
diavoli, madonne, puttane... si mescolano alla storia violentata dell’umanità.
A Idade da Terra ha fatto scandalo in un’epoca dove ormai
nemmeno lo scandalo dei governi, lo scandalo della politica, lo scandalo della
fede... fa più incazzare qualcuno. In campo internazionale gli attacchi a Rocha
sono stati tanti. E tutti stupidi. Miravano alla visione del mondo dell’uomo e
non all'immediatezza ereticale della sua opera. Il coro del dissenso della
sinistra ha cinguettato con quello della destra e i cattolici hanno benedetto
la crocifissione del film. I circuiti l’hanno praticamente rifiutato e solo
qualche amico di Rocha (Lino Miccichè o i critici dei “Cahiers du Cinéma”) ha
permesso, in qualche modo, che questo film non finisse nei fondi di magazzino o
venisse riciclato in pochi grammi d‘argento (recuperati con la distruzione
della pellicola).
“Ciò che si è scritto su A
Idade da Terra verrà archiviato negli scaffali dell’ignoranza o
della vendetta” (Maurício Gomes Leite). L’opera di Rocha, va’ dove il cuore la
porta. Perché “il cuore è la ragione induttiva, è la percezione che supera la
comprensione e fa scoprire che la realtà si colloca nell’amore. Il cuore ci
dice che siamo fatti per essere liberi, per intessere la nostra felicità a
partire da un certo ‘sì’ di una accettazione generosa” (Jean Dechanet, frate).
Ogni vera spiritualità nasce da un incontro con qualcosa che ha a che fare con
la disubbidienza o l’insubordinazione. I grandi momenti di santità o di
profezia chiedono la liberazione integrale di tutto l’uomo e di ogni uomo. Si
tratta di assumere il colore nero e meticcio degli oppressi per comprendere meglio
la sorte degli umiliati e degli offesi, per balzare in piedi e invocare la
rivoluzione sociale. Pensare la libertà nella storia, significa rompere le
catene di tutte le schiavitù.
Certo, non è con un film che si fa la
rivoluzione. Rocha lo sapeva bene. Il suo anarchismo (non solo cinematografico)
conteneva l’urlo, la furia e il fascino che le grandi opere d’arte si portano
dentro e trasmettono nei secoli. Rocha è l’Angelo
sterminatore buñueliano che disvela la religione come oppio dei popoli e
urla che la Chiesa cattolica, per ottenere il potere patriarcale/temporale sui
contadini brasiliani, è stata la causa principale dello sterminio degli indios.
Rocha non dimentica di dire che i militari, i latifondisti, i padroni sono
l’evidenza del male e poiché i poveri della terra non hanno nessun diritto di
gridarlo, possono morire semplicemente per fame, con la complicità della
comunità internazionale.
A Idade da Terra è l’insieme di tutti i film precedenti
di Rocha e più di ogni altro contiene la disperazione della pietà brasiliana.
Le fantasmagorie, le allucinazioni, le utopie del cinema sovversivo di Rocha
hanno rotto i muri dell’indifferenza e i gazebi dell’ideologia. Rocha ha
filmato il sorriso sul cadavere di un popolo e gli ha restituito la sua antica
dignità. Ha risvegliato un reale che non è ancora realtà ed ha fatto della contraddizione
una forma d’arte. E l”arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”
(Theodor W. Adorno). Non c’è Utopia che non sia eco. Non c’è fantasia che non
rivendichi la storia della vita offesa come storia del dissidio.
La
bruttezza degli oppressori rende brutta ogni cosa, ogni persona. Sono loro che
impediscono di godere della delicatezza della natura, del profumo degli alberi,
del colore dei fiori. Sono loro che tingono di nero i fiumi, che uccidono i
pesci nei mari, che sterminano gli uccelli nel cielo. Dobbiamo rendere belli
noi stessi se vogliamo rendere belle anche le nostre vite.
Per non dimenticare: la chiave della
felicità, dell’amore e della libertà è in ciascuno e non ci sono istruzioni per
l’uso. Qui e altrove, l’età sovversiva dell’innocenza (dell’Eu-topia) non è
stata ancora raccolta fino in fondo e i briganti illuminati restano ai margini
del bosco in attesa che il popolo nascosto riprenda le danze e incominci la
festa... per amore solo per amore l’uomo potrà mettere fine alle schifezze
autoritarie dell’uomo... gli eu-topiani di ogni colore sono sempre lì, tra un
mondo già morto ed uno incapace di nascere, che continuano a lavorare per
disvelare le menzogne e le violenze istituzionali della civiltà dello
spettacolo. La schiavitù non è un destino e l’obbedienza non è mai stata una
virtù.
Relazione per le conferenze di “Sicilia
Libertaria”
(Catania, Siracusa, Ragusa), 15/16/17 maggio
2003
[1] Il
movimento del Cinema Nôvo è esploso nel 1962, in meno di dieci
anni ha prodotto 32 film che hanno ribaltato i modi di fabbricazione,
produzione e distribuzione della macchina/cinema. I maggiori film del Cinema Nôvo
sono: Barravento (1962), Terra em transe (1967), O dragao da maldade contro o santo guerreiro
(1969) di Glauber Rocha; Vidas secas
(1963) di Nelson Pereira dos Santos; Os
fuzís (1964) di Ray Guerra; Garrincha,
alegria do povo (1963) di Joaquim Pedro de Andrade; Integraçao racial (1963) di Paulo César Saraceni; Memória do cangaço (1965) di Paulo Gil
Soares; A opiniao pública (1967) di
Arnaldo Jabôr; Os herdeiros (1969) di
Carlos Diegues; O bravo guerreiro
(1969) di Gustavo Dahl; A falecida
(1965) di Leon Hirszman... e ancora le opere di Geraldo Sarno, Maurice
Capovilla, David Eulalio Neves, Eduardo Coutinho, Walter Lima jr., Miguel Faria
jr... "Fare un film — ha detto Glauber Rocha da qualche parte — è portare
un contributo alla nostra rivoluzione, attizzare il fuoco, rendere il popolo
cosciente. Questa è la tragica origine del nostro cinema: è
rivoluzionaria".
[2] Pino
Bertelli, La macchina/cinema e
l’immaginario assoggettato. Trattato di liberazione degli sguardi,
Nautilus, 1987
[3] Pino
Bertelli, Né cinema né capitale,
Traccedizioni, 1982
[4] Glauber
Rocha, Saggi e invettive sul nuovo cinema,
a cura di Lino Miccichè, ERI, 1986
[5] Pino
Bertelli, Glauber Rocha. Cinema in
utopia. Dall’estetica della fame all’estetica della libertà, La Fiaccola,
2002
[6] Glauber
Rocha, cit. sopra
[7] Norman M.
Naimark, La politica dell’odio. La
pulizia etnica nell’Europa contemporanea, Laterza, 2002
[8] Jeremy
Rifkin, Ecocidio. Ascesa e caduta della
cultura della carne, Mondadori, 2001
[9] Noam
Chomsky, Capire il potere, a cura di
Peter R. Mitchell e John Schoeffel, Marco tropea Editore, 2002
[10] Glauber
Rocha, Scritti sul cinema, Biennale
di Venezia, 1986
[11] Glauber
Rocha, cit. sopra
[12] Bartolomè
de Las Casas, Brevissima relazione della
distruzione delle Indie, di, a cura di Cesare Acutis, Mondadori, 1987
[13] Pino
Bertelli, Glauber Rocha. Cinema in
utopia. Dall’estetica della fame all’estetica della libertà, La Fiaccola,
2002
[14] Emile
Henry, Colpo su colpo, Vulcano, 1978
[16] Pino
Bertelli, Pier Paolo Pasolini. Il cinema
in corpo. Atti impuri di un eretico, Croce Editore, 2001
[17] Brasile: «Cinema Novo» e dopo, a cura
di Lino Miccichè, Marsilio, 1981
[18] Brasile: «Cinema Novo» e dopo, a cura
di Lino Miccichè, Marsilio, 1981
[19] Brasile: «Cinema Novo» e dopo, a cura
di Lino Miccichè, Marsilio, 1981
[20] Brasile: «Cinema Novo» e dopo, a cura
di Lino Miccichè, Marsilio, 1981
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