PREMESSA
Dopo la fine della Guerra Fredda, gli addetti alla strategia internazionale di Washington (e non solo) non possono non essersi posti il problema delle difficoltà politiche derivanti dal delirante assetto dato all'area vicino-orientale da Gran Bretagna e Francia dopo la Prima guerra mondiale. Per chi minimamente conosca le realtà storiche, economiche, etniche e religiose di questa regione - per secoli appartenuta al defunto Impero ottomano - è sufficiente un'occhiata alla carta geografica per capire che si è trattato di un assetto tracciato su di essa con righello e matita, senza nessuna conoscenza e/o considerazione per gli ambienti umani su cui andava ad incidere. Il risultato di questa mera volontà di potenza, esercitata alla luce di un cinico divide et impera, si è da tempo dimostrato inadeguato e fonte di nuovi conflitti, esterni e interni, mai sanati e addirittura incancrenitisi. Che qualcuno ci stia pensando per metterci mano non desta sorpresa; semmai può preoccupare il "come", giacché le logiche delle grandi potenze rispondono a criteri del tutto particolari.
Ultimamente sta riemergendo una certa attenzione - ma non da parte dei grandi mass media - per vecchi piani statunitensi e israeliani volti a sovvertire l'attuale sistemazione politica del Vicino Oriente (Egitto incluso) in termini di "balcanizzazione". Situazione senz'altro scomoda per chi la subisce, ma senza dubbio comoda per le grandi potenze ai fini dell'esercizio del loro controllo e della possibilità di effettuare gli usuali "giochi" di potere. L'esistenza cartacea di questi piani è fuori discussione, ma non è questo il punto. La questione è se sia plausibile la lettura dei recenti avvenimenti del mondo arabo in base ai piani in questione. La mancanza delle più importanti centrali di notizie controllate dal Capitale significa ben poco: così come è accaduto per esempio alla recentissima denuncia del governo del Sudan circa un bombardamento israeliano su una fabbrica sudanese, rimasta pressoché ignorata.
DI COSA STIAMO TRATTANDO
Quando parliamo di progetti/proposta per il riassetto dell'area vicino-orientale viene subito da citare quello redatto nel 1982 da Oded Yinon, consigliere del ministero degli Esteri israeliano, dotato di buone entrature alla Casa Bianca di Washington. Esso prevedeva la divisione secondo linee confessionali e/o etniche di una rilevante serie di Stati attuali. Turchia, Siria, Libano, Iraq, Pakistan, Afghanistan - a cui si aggiunge l'Africa islamica a cominciare da Egitto, Sudan, Libia ecc.
In anni successivi, negli Usa, sul periodico Armed Forces Journal, il tenente colonnello in pensione Ralph Richards pubblicò - nel 2006 - una mappa del Vicino Oriente che sostanzialmente ricalca il Piano Yinon.
Lo stesso dicasi per la mappa pubblicata nel 2008 da The Atlantic, a corredo di un articolo di Jeffrey Goldberg.
Solo a guardare queste mappe si capisce quel che è in gioco e quanta e quale violenza interna ed esterna sarà necessaria per imporre il nuovo assetto. Esplicitamente sottoponiamo all'attenzione dei lettori un solo punto: la formazione di un Kurdistan unito, in buona parte a detrimento della Turchia. Non è assolutamente pensabile che la cosa sia realizzabile senza mettere in ginocchio economicamente e militarmente la Repubblica turca con una massiccia opera di sovversione interna, oltretutto a scapito della tenuta della Nato sul suo versante orientale. Va comunque la pena di notare che taluni dettagli dimostrano un buon grado di conoscenza storica da parte di chi propugna questi
progetti: ad esempio l'attribuzione di Herat - attualmente parte dell'Afghanistan - all'Iran, che corrisponde a una vecchia aspirazione iraniana dell'epoca della monarchia Qajar, frustrata dall'imperialismo britannico.
Riguardo all'Africa, il Piano Yinon propone la sua divisione in base alla religione, al dato etnico-linguistico e al colore della pelle, puntando fra l'altro al radicale scollegamento fra Africa "araba" e Africa "nera". In Sudan questo è già in atto, e in Libia l'ostilità contro i libici di pelle nera esplosa con la rivolta contro Gheddafi si muove nello stesso senso.
RILEGGERE I RECENTI AVVENIMENTI ARABI?
Una lettura dei
recenti avvenimenti nell’Africa settentrionale e nel Vicino Oriente nel senso
di intenderli come tasselli attuativi dei progetti in questione è senza dubbio
possibile. Va tuttavia preavvertito che c’è un rischio analogo a quello già corso dai nostri nonni
che poterono leggere la storia moderna e contemporanea alla luce dei famigerati
Protocolli dei Savi di Sion. Esiste però una differenza: i Protocolli furono
una falsificazione della polizia zarista per supportare le campagne antisemite
in Russia; invece i Piani in parola corrispondono a una progettualità che
obiettivamente corrisponde agli interessi statunitensi e israeliani. Di modo
che il punto che resta in sospeso è se ne sia in corso o no l’attuazione.
Qualche sospetto
effettivamente può sussistere, e in primo luogo c’è da chiedersi se veramente
l’atteggiamento morbido dell’amministrazione statunitense verso i recenti
sommovimenti nel mondo arabo vada attribuito a un maggiore spirito liberal dell’amministrazione Obama,
oppure se non si tratti dell’espressione di qualcosa che era nei piani di
Washington. In un’epoca in cui l’estremismo islamico ufficialmente è ancora
considerato il grande nemico dell’epoca attuale, noi vediamo che gli Usa non
hanno battuto e non battono ciglio di fronte all’avvento di governi islamici definiti
“moderati” (?) in Marocco, Tunisia, Egitto: cosa fino a poco tempo fa
inimmaginabile, tanto più che l’emergere di uno spirito illiberale in questi
governi non ha sorpreso nessuno. Per non parlare poi dell’appoggio non tanto
occulto dato ai rivoltosi siriani, tra i quali nessuno può più nascondere la
forte presenza di islamisti e jihadisti siriani e di varia etnia.
Gli Usa, sempre
pronti a interferire quando conviene loro, assistono tranquilli al fatto che in
Tunisia ed Egitto si stiano restringendo gli spazi di libertà e operatività per
laici, donne e fautori di differenti interpretazioni del Corano e della sharia, e questo ha una possibile
spiegazione: infatti al momento i radicalismi islamici non toccano né gli
interessi geostrategici statunitensi né la loro sfera economica e commerciale
e, fino a quando le cose stiano così, compressioni e violazioni dei diritti
umani possono tranquillamente operare.
Se si vuole
balcanizzare l’area realizzando nuove omogeneità e piccole patrie, lasciare che
gli islamici – pseudomoderati e non – facciano il loro lavoro è molto meno
assurdo di quanto appaia in base a una logica dominata dall’etica.
Infatti, per quanto
il radicalismo islamico sia un nemico, le sue vittorie hanno un saldo negativo
più per le popolazioni sue vittime, che non per le grandi potenze; sempreché,
ovviamente, non ne siano messi in gioco interessi fondamentali. Sull’incapacità
gestionale degli estremisti islamici non esistono molti dubbi e, alla bisogna,
opportuni raid aerei possono aiutare eventuali rivolte interne a rovesciare la
situazione e aprire la via al lucroso business della ricostruzione locale e
della reintegrazione dei materiali bellici consumati per la bisogna.
L’estremismo
islamico è anzi un elemento a volte indispensabile per le disgregazioni
preparatorie di un nuovo assetto, con particolare riguardo ai casi in cui si
debba realizzare una separazione forzata e nell’immediato non riassorbibile fra
gruppi religiosi; ma potrebbe anche servire per certe separazioni etniche (si
pensi a quella fra Berberi e Arabi, o fra Arabi e Neri). Pure il totale
disinteresse per le componenti laiche e davvero moderate del mondo arabo trova
una spiegazione: di che utilità potrebbero essere per la balcanizzazione
dell’area?
In quest’ottica
potrebbe essere vista l’attuale ondata di sanguinoso odio contro i cristiani
dell’area - dall’Iraq alla Siria, all’Egitto alla Nigeria - che si sviluppa
indisturbata. Al riguardo la situazione è complessa, e già dà luogo a prese di
posizione che si comprendono solo in base alle realtà e alle dinamiche del
Vicino Oriente, e corrispondono al vecchio detto “il nemico del mio nemico,
magari non sarà mio amico, ma può essere un alleato”.
Un esempio.
L’attuale grado di preoccupazione per l’aggressività sunnita da parte dei cristiani
ortodossi, cattolici, assiri etc. è alquanto elevato; la paura ha innescato
esodi capaci di ridisegnare la mappatura delle minoranze religiose nell’area, e
sul futuro incombono nubi tempestose. Al patriarca maronita (cattolico) del
Libano e ad altri esponenti religiosi cristiani non è suonata bene la
“rassicurazione” di Sarkozy – ancora Presidente – circa la disponibilità
dell’Unione Europea ad accogliere le comunità cristiane del Levante in caso di
esodo per sfuggire agli islamici; ed ecco in Libano un riavvicinamento con Hezbollah e gli sciiti, che non saranno
amici, ma sono pur sempre nella lista di vittime dei sunniti estremisti e
possono essere alleati preziosi.
Un test del piano
Yinon, non ancora definito nei risultati, potrebbe essere visto nella
situazione della Siria, il cui regime (piaccia o non piaccia) dopo circa
diciannove mesi di guerra civile ancora non è stato abbattuto. In termini
prospettici va detto che se esso riuscirà a prevalere, o comunque riuscirà a
essere ancora parte attiva in una transizione, in quella zona il piano Yinon
non troverà riscontro. In caso contrario si potrebbe parlare di suo ulteriore
tassello.
Inutile dire che
sul piano strategico il piano Yinon lascia giganteggiare nell’area solo due
soggetti: gli Usa e Israele. Questo, sia per il tipo di sistemazione che si
vorrebbe attribuire al Vicino Oriente, sia per il disastroso stato di debolezza
globale in cui si troverebbero tutte le entità statali – le vecchie e le nuove
– della regione.
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