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mercoledì 31 ottobre 2012

«BALCANIZZAZIONE» DEL VICINO ORIENTE?, di Pier Francesco Zarcone

PREMESSA

Dopo la fine della Guerra Fredda, gli addetti alla strategia internazionale di Washington (e non solo) non possono non essersi posti il problema delle difficoltà politiche derivanti dal delirante assetto dato all'area vicino-orientale da Gran Bretagna e Francia dopo la Prima guerra mondiale. Per chi minimamente conosca le realtà storiche, economiche, etniche e religiose di questa regione - per secoli appartenuta al defunto Impero ottomano - è sufficiente un'occhiata alla carta geografica per capire che si è trattato di un assetto tracciato su di essa con righello e matita, senza nessuna conoscenza e/o considerazione per gli ambienti umani su cui andava ad incidere. Il risultato di questa mera volontà di potenza, esercitata alla luce di un cinico divide et impera, si è da tempo dimostrato inadeguato e fonte di nuovi conflitti, esterni e interni, mai sanati e addirittura incancrenitisi. Che qualcuno ci stia pensando per metterci mano non desta sorpresa; semmai può preoccupare il "come", giacché le logiche delle grandi potenze rispondono a criteri del tutto particolari.
Ultimamente sta riemergendo una certa attenzione - ma non da parte dei grandi mass media - per vecchi piani statunitensi e israeliani volti a sovvertire l'attuale sistemazione politica del Vicino Oriente (Egitto incluso) in termini di "balcanizzazione". Situazione senz'altro scomoda per chi la subisce, ma senza dubbio comoda per le grandi potenze ai fini dell'esercizio del loro controllo e della possibilità di effettuare gli usuali "giochi" di potere. L'esistenza cartacea di questi piani è fuori discussione, ma non è questo il punto. La questione è se sia plausibile la lettura dei recenti avvenimenti del mondo arabo in base ai piani in questione. La mancanza delle più importanti centrali di notizie controllate dal Capitale significa ben poco: così come è accaduto per esempio alla recentissima denuncia del governo del Sudan circa un bombardamento israeliano su una fabbrica sudanese, rimasta pressoché ignorata.

DI COSA STIAMO TRATTANDO

Quando parliamo di progetti/proposta per il riassetto dell'area vicino-orientale viene subito da citare quello redatto nel 1982 da Oded Yinon, consigliere del ministero degli Esteri israeliano, dotato di buone entrature alla Casa Bianca di Washington. Esso prevedeva la divisione secondo linee confessionali e/o etniche di una rilevante serie di Stati attuali. Turchia, Siria, Libano, Iraq, Pakistan, Afghanistan - a cui si aggiunge l'Africa islamica a cominciare da Egitto, Sudan, Libia ecc.
In anni successivi, negli Usa, sul periodico Armed Forces Journal, il tenente colonnello in pensione Ralph Richards pubblicò - nel 2006 - una mappa del Vicino Oriente che sostanzialmente ricalca il Piano Yinon.

Lo stesso dicasi per la mappa pubblicata nel 2008 da The Atlantic, a corredo di un articolo di Jeffrey Goldberg.

Solo a guardare queste mappe si capisce quel che è in gioco e quanta e quale violenza interna ed esterna sarà necessaria per imporre il nuovo assetto. Esplicitamente sottoponiamo all'attenzione dei lettori un solo punto: la formazione di un Kurdistan unito, in buona parte a detrimento della Turchia. Non è assolutamente pensabile che la cosa sia realizzabile senza mettere in ginocchio economicamente e militarmente la Repubblica turca con una massiccia opera di sovversione interna, oltretutto a scapito della tenuta della Nato sul suo versante orientale. Va comunque la pena di notare che taluni dettagli dimostrano un buon grado di conoscenza storica da parte di chi propugna questi progetti: ad esempio l'attribuzione di Herat - attualmente parte dell'Afghanistan - all'Iran, che corrisponde a una vecchia aspirazione iraniana dell'epoca della monarchia Qajar, frustrata dall'imperialismo britannico.
Riguardo all'Africa, il Piano Yinon propone la sua divisione in base alla religione, al dato etnico-linguistico e al colore della pelle, puntando fra l'altro al radicale scollegamento fra Africa "araba" e Africa "nera". In Sudan questo è già in atto, e in Libia l'ostilità contro i libici di pelle nera esplosa con la rivolta contro Gheddafi si muove nello stesso senso.

RILEGGERE I RECENTI AVVENIMENTI ARABI?

Una lettura dei recenti avvenimenti nell’Africa settentrionale e nel Vicino Oriente nel senso di intenderli come tasselli attuativi dei progetti in questione è senza dubbio possibile. Va tuttavia preavvertito che c’è un rischio  analogo a quello già corso dai nostri nonni che poterono leggere la storia moderna e contemporanea alla luce dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion. Esiste però una differenza: i Protocolli furono una falsificazione della polizia zarista per supportare le campagne antisemite in Russia; invece i Piani in parola corrispondono a una progettualità che obiettivamente corrisponde agli interessi statunitensi e israeliani. Di modo che il punto che resta in sospeso è se ne sia in corso o no l’attuazione.
Qualche sospetto effettivamente può sussistere, e in primo luogo c’è da chiedersi se veramente l’atteggiamento morbido dell’amministrazione statunitense verso i recenti sommovimenti nel mondo arabo vada attribuito a un maggiore spirito liberal dell’amministrazione Obama, oppure se non si tratti dell’espressione di qualcosa che era nei piani di Washington. In un’epoca in cui l’estremismo islamico ufficialmente è ancora considerato il grande nemico dell’epoca attuale, noi vediamo che gli Usa non hanno battuto e non battono ciglio di fronte all’avvento di governi islamici definiti “moderati” (?) in Marocco, Tunisia, Egitto: cosa fino a poco tempo fa inimmaginabile, tanto più che l’emergere di uno spirito illiberale in questi governi non ha sorpreso nessuno. Per non parlare poi dell’appoggio non tanto occulto dato ai rivoltosi siriani, tra i quali nessuno può più nascondere la forte presenza di islamisti e jihadisti siriani e di varia etnia.
Gli Usa, sempre pronti a interferire quando conviene loro, assistono tranquilli al fatto che in Tunisia ed Egitto si stiano restringendo gli spazi di libertà e operatività per laici, donne e fautori di differenti interpretazioni del Corano e della sharia, e questo ha una possibile spiegazione: infatti al momento i radicalismi islamici non toccano né gli interessi geostrategici statunitensi né la loro sfera economica e commerciale e, fino a quando le cose stiano così, compressioni e violazioni dei diritti umani possono tranquillamente operare.
Se si vuole balcanizzare l’area realizzando nuove omogeneità e piccole patrie, lasciare che gli islamici – pseudomoderati e non – facciano il loro lavoro è molto meno assurdo di quanto appaia in base a una logica dominata dall’etica.
Infatti, per quanto il radicalismo islamico sia un nemico, le sue vittorie hanno un saldo negativo più per le popolazioni sue vittime, che non per le grandi potenze; sempreché, ovviamente, non ne siano messi in gioco interessi fondamentali. Sull’incapacità gestionale degli estremisti islamici non esistono molti dubbi e, alla bisogna, opportuni raid aerei possono aiutare eventuali rivolte interne a rovesciare la situazione e aprire la via al lucroso business della ricostruzione locale e della reintegrazione dei materiali bellici consumati per la bisogna.
L’estremismo islamico è anzi un elemento a volte indispensabile per le disgregazioni preparatorie di un nuovo assetto, con particolare riguardo ai casi in cui si debba realizzare una separazione forzata e nell’immediato non riassorbibile fra gruppi religiosi; ma potrebbe anche servire per certe separazioni etniche (si pensi a quella fra Berberi e Arabi, o fra Arabi e Neri). Pure il totale disinteresse per le componenti laiche e davvero moderate del mondo arabo trova una spiegazione: di che utilità potrebbero essere per la balcanizzazione dell’area?
In quest’ottica potrebbe essere vista l’attuale ondata di sanguinoso odio contro i cristiani dell’area - dall’Iraq alla Siria, all’Egitto alla Nigeria - che si sviluppa indisturbata. Al riguardo la situazione è complessa, e già dà luogo a prese di posizione che si comprendono solo in base alle realtà e alle dinamiche del Vicino Oriente, e corrispondono al vecchio detto “il nemico del mio nemico, magari non sarà mio amico, ma può essere un alleato”.
Un esempio. L’attuale grado di preoccupazione per l’aggressività sunnita da parte dei cristiani ortodossi, cattolici, assiri etc. è alquanto elevato; la paura ha innescato esodi capaci di ridisegnare la mappatura delle minoranze religiose nell’area, e sul futuro incombono nubi tempestose. Al patriarca maronita (cattolico) del Libano e ad altri esponenti religiosi cristiani non è suonata bene la “rassicurazione” di Sarkozy – ancora Presidente – circa la disponibilità dell’Unione Europea ad accogliere le comunità cristiane del Levante in caso di esodo per sfuggire agli islamici; ed ecco in Libano un riavvicinamento con Hezbollah e gli sciiti, che non saranno amici, ma sono pur sempre nella lista di vittime dei sunniti estremisti e possono essere alleati preziosi.
Un test del piano Yinon, non ancora definito nei risultati, potrebbe essere visto nella situazione della Siria, il cui regime (piaccia o non piaccia) dopo circa diciannove mesi di guerra civile ancora non è stato abbattuto. In termini prospettici va detto che se esso riuscirà a prevalere, o comunque riuscirà a essere ancora parte attiva in una transizione, in quella zona il piano Yinon non troverà riscontro. In caso contrario si potrebbe parlare di suo ulteriore tassello.
Inutile dire che sul piano strategico il piano Yinon lascia giganteggiare nell’area solo due soggetti: gli Usa e Israele. Questo, sia per il tipo di sistemazione che si vorrebbe attribuire al Vicino Oriente, sia per il disastroso stato di debolezza globale in cui si troverebbero tutte le entità statali – le vecchie e le nuove – della regione.

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