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venerdì 2 novembre 2012

COS'È IL CINEMA E PERCHÉ FARLO, di Giuseppe Ferrara (regista)

L'arte (e il cinema) come inversione della sofferenza
Forse può apparire scontato ricordare che la cultura europea ha affrontato con forza il problema della «responsabilità civile delle arti» soltanto dopo le mostruosità della Seconda guerra mondiale, in particolare dopo la scoperta dei campi di sterminio nazisti. In Italia si era acceso un caloroso dibattito quando lo scrittore Elio Vittorini, chiedendosi cosa aveva fatto la cultura per evitare una così sanguinosa catastrofe, sembrava echeggiare analoghi quesiti che si ponevano, nel medesimo senso e nello stesso periodo, Louis Aragon, Jean-Paul Sartre e, con qualche differenza, André Malraux.
Ma sappiamo che la domanda di Vittorini - che sarebbe stata più angosciata se si fossero conosciuti anche i campi di sterminio staliniani - non arrivava, a metà del secolo scorso, priva di notevoli precedenti. Già in epoca romantica l'idea di vincere la morte per resuscitare attraverso la creazione artistica era abbastanza diffusa. E più tardi lo storico dell'arte Aby Warburg, che alla fine dell''800 aveva fondato ad Amburgo un Istituto di ricerca per la storia dell'arte, avrebbe sostenuto la «teoria del tesoro della sofferenza» (Leidschatztheorie), per cui la memoria sociale dell'umanità custodisce e trasmette, di società in società e da un'epoca all'altra, certi modelli artistici che traducono in forma, in stile, e quindi leniscono, la tragedia e il dolore. Non lontano da queste posizioni è Sigmund Freud quando sostiene che l'arte potrebbe compensare, almeno in parte, le ingiustizie quotidiane. Per Freud la letteratura e l'arte possono servire, attraverso le emozioni che suscitano, «ad affrancare l'anima sofferente dalla pressione del senso di colpa».
Elio Vittorini, nel dibattito del 1945, chiese di più: visto che «questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna influenza civile sugli uomini», visto che «ha generato mutamenti quasi solo nell'intelletto degli uomini», «potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo?». Gli risponderà trentacinque anni dopo il drammaturgo tedesco Peter Weiss, che tralascia il «teatro didattico» di Bertolt Brecht e si ricollega invece a Freud e a Warburg. Weiss, in un grande romanzo storico-biografico (L'Estetica della resistenza, 1980), «esige che l'arte riprenda un valore operativo, un valore di preparazione e di esortazione, una funzione terapeutica che, unita agli sforzi etici, potrebbe evitare una nuova catastrofe universale» (Klaus Erding).
Si potrebbe continuare, ma queste posizioni culturali che sostengono essere l'arte un mezzo per invertire le sofferenze dell'uomo, credo abbiano una notevole consistenza se riferite all'arte cinematografica. E non solo perché il cinema ha, nel modo stesso della sua fruizione, fin dalla storica proiezione dei Lumière del 1895, una esplicazione sociale che richiama quella dell'architettura (come un ponte non è architettura se non serve a traversare il fiume, così un film tradisce la sua funzione sociale se non viene fruito da un pubblico), ma anche e soprattutto per il suo specifico. Vale a dire che il cinema, per la sua precipua essenza filosofica, è l'arte alla quale, meglio di tutte le altre, compete una «responsabilità civile».

Lo specifico del cinema: scrittura della percezione
Per capire la specificità del linguaggio cinematografico è utile partire dalla componente sonora, dando per scontato che nessuno vorrà negare che sonoro e visivo sono aspetti gemelli della stessa arte. Prendiamo quindi un apparecchio di registrazione del suono (persino una telecamera non professionale ce l'ha) ed eseguiamo la ripresa, ai piedi di un campanile, dei battiti che scandiscono le ore emesse da un grande orologio. Riprendiamo con l'apparecchio il battito delle ore tre. Mentre l'apparecchio riprende, il fonico e anche noi percepiamo con le nostre orecchie i tre rintocchi. Adesso riportiamo il nastro al punto di partenza e ascoltiamo quanto è stato registrato: è come se la sensazione che abbiamo provato prima venisse ripetuta. Cioè risentiamo i tre rintocchi nello stesso identico modo in cui li abbiamo percepiti poco prima, persino con lo stesso punto di ascolto (quello del nostro orecchio, che era infatti a poca distanza dall'orecchio-microfono).
Quindi: la percezione di questo breve episodio sonoro è stata registrata, incisa, si può dire in senso lato «scritta». E come le parole scritte possono essere lette e rilette quante volte si vuole, così ora il nastro contiene la scrittura di una percezione uditiva che può essere riascoltata tutte le volte che vogliamo.
Quando Edison inventò nel lontano 1877 il fonografo (che dal greco significa giustamente «scrittore del suono») trovò quindi il modo di registrare una parte del pensiero dell'uomo, quello appunto relativo alla percezione uditiva. Ma anche la scoperta della macchina cinematografica, la cinepresa, arriva, per quanto riguarda la percezione ottica, agli stessi risultati del fonografo: sulla pellicola s'incide, si registra, si scrive la percezione visiva del cameraman; quello che l'operatore alla macchina vede - cioè pensa percettivamente - attraverso il mirino, attraverso l'oculare, viene scritto nel nastro di celluloide (o magnetico, non ha importanza dal punto di vista estetico, cioè filosofico).
Cos'è allora il cinema? È l'arte che fa della percezione audiovisuale il perno della sua essenza. Infatti il cinema è la registrazione del flusso audiovisuale percettivo di un soggetto. Ma la percezione altro non è che il pensiero dell'uomo al suo stadio iniziale.
Percepire audiovisivamente per un soggetto significa in sintesi captare il fluire del tempo e dello spazio attraverso suoni e immagini. Significa vivere, perché spazio e tempo sono inscindibili nella nostra natura esistenziale. Quindi il cinema, mentre registra questa fluenza spazio-temporale vissuta attraverso gli occhi e le orecchie di un soggetto, registra la parte più semplice, ma anche la più diretta, quella sperimentale, del pensiero soggettivo. Non solo: il meccanismo ben noto dell'immedesimazione che si verifica sempre quando vediamo un film, altro non è che questo fenomeno: pensare (audiovisivamente) con gli occhi e le orecchie di un altro soggetto pensante. In definitiva al cinema ci caliamo a pensare nel cervello di un altro. È come se vivessimo nel flusso esistenziale di un altro soggetto reale. Siamo nella sua testa, vediamo con i suoi occhi, ascoltiamo con le sue orecchie, addirittura ci sembra di camminare con lui nel suo spazio-tempo.
Si può quindi definire il cinema anche come un transfert, in cui la nostra persona sembra che si cali, rimanendo passiva, in un'altra persona. Entriamo in un continuum, in una fluenza spazio-temporale precisa (che cosa c'è di più preciso di un'occhiata?) che ha un prima - evidentemente un passato, tutto quello che è avvenuto in antecedenza - un presente - quello che vediamo e sentiamo con la testa dell'altro - e un futuro - quello che accadrà, che sta per accadere a questo altro; futuro che non conosciamo ma che (se il film funziona) c'interessa molto conoscere.
Da questo flusso esistenziale in cui siamo tuffati anche per nostra scelta, noi sappiamo tuttavia di poter uscire quando vogliamo. Basta non guardar più lo schermo e occuparci d'altro, pensare ad altro, e l'immedesimazione si rompe. Siano fuori dal transfert. Ugualmente, quando ci aggrada, possiamo rientrare nel flusso del film, e farci riacciuffare dal racconto.
Ma l'immedesimazione si può rompere anche per ragioni interne allo stesso linguaggio filmico: basta che la continuità della fluenza venga interrotta da qualcosa di estraneo alla fluenza stessa. Per esempio se entra in campo il microfono del fonico o, peggio, se ci si accorge che non siamo in un ambiente vero, ma in un teatro di posa con le luci artificiali o per uno «sbaglio di edizione» ecc.
Immediatamente l'incantesimo si rompe perché il flusso in cui eravamo calati perde la sua logica, la sua consequenzialità.
Ma questo incantesimo (essere nel cervello percettivo di un altro) ha anche intrinsecamente valore di testimonianza.
Infatti sappiamo bene che, seppur preziosa e importantissima, la memoria umana è inaffidabile. Un teste in tribunale può ricordare inesattamente, può persino mentire. L'audiovisione registrata del fono-cinema ripete invece oggettivamente quello che il fono-cineoperatore ha visto e sentito soggettivamente.
Il cinema ha una memoria di ferro.

Cinema: memoria del mondo
La sensazione che si prova registrando l'audiovisione è unica. Proviamo a descriverla.
Tu, testimone eccezionale, stai guardando e sentendo per gli altri; in definitiva vedi e senti per la collettività. È una sensazione di impadronimento, di appropriazione del tempo-spazio vissuto che fa tutt'uno con la sua comunicazione; impadronimento che nessun'altra arte può dare.
Siamo nel centro della specificità del linguaggio filmico.
Ora individuare la differenza fra cinema documentario e cinema di fiction (il film a soggetto) diviene abbastanza facile: mentre il documentario è questo flusso percettivo audiovisuale di un soggetto (il fono-cineoperatore) che registra sulla pellicola quanto vede e sente, la fiction è la ricostruzione di analogo flusso percettivo audiovisuale che pur avendo origini artificiali e artificiose, poi, quando si vede e si sente sullo schermo, deve apparire come ripreso nel momento in cui si verifica. Ancora più chiaro: nel documentario quel che registro accade davvero; nel film a soggetto quel che registro è come se accadesse davvero (sebbene sia il frutto di un'accurata messa in scena, e sia passibile di stilizzazioni più accentuate). Ed ecco spiegato perché frammenti di documentari (il film di Oliver Stone sul presidente Kennedy che usa tra l'altro la famosa vera ripresa dell'assassinio effettuata dal dilettante Zapruder) possono benissimo mescolarsi e integrarsi a inquadrature totalmente ricostruite, totalmente di fiction (o viceversa): perché il regista ricostruttore di un evento si è messo sulla stessa lunghezza d'onda di quel flusso audiovisivo originario, effettuando la messa in scena con tutti gli elementi che erano stati percepiti dal cine-occhio e dal cine-orecchio documentari (per citare Dziga Vertov, che capì ben più del suo collega Ėjzenštejn quale fosse l'essenza del cinema).
Così, nel film documentario, il soggetto che effettua la ripresa (per es. Zapruder) registra qualcosa di oggettivo che non esiste in nessuna delle altre arti. La sua registrazione diventa memoria cronachistica, dove soggettività e oggettività sono strettamente mescolate.
Così, nel film di fiction, il regista (per es. Stone) fa sì che i tre colpi di fucile che hanno ucciso Kennedy diventino ben altro dei tre rintocchi del nostro episodio sonoro; sono tre colpi che cambiano la storia degli Usa e del mondo, ripresi da un testimone universale, che può vedere e sentire ogni frammento di ciò che accade ponendosi nel punto di vista e di ascolto ideali. Stone avrebbe potuto fare anche a meno del contributo di Zapruder, avrebbe potuto ricostruire anche quello che Zapruder aveva fono-cineripreso. La sua registrazione sarebbe diventata lo stesso memoria storica, anche qui con il risultato di mescolare strettamente soggettività e oggettività. Lo stesso in una vicenda completamente inventata, per es. Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, dove la camera-testimone rende la memoria storica della passione, del disagio, dei conflitti, delle contraddizioni di un rapporto d'amore nell'Europa della seconda metà del '900; o addirittura in 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, che riesce ad essere memoria storica di come l'uomo del secolo scorso abbia immaginato il futuro e la presenza umana nello spazio cosmico.

Conclusioni
Se, come dice lo scrittore Alberto Moravia, «narrare vuol dire recuperare a livello d'arte la totalità del reale con tutte le sue contraddizioni e le sue ambiguità» (e narrare col cinema è la stessa cosa); se, come ancora afferma Moravia, «formulata l'ipotesi che l'arte non sia 'ingegneria delle anime' ma espressione individuale del represso collettivo, si va più vicino alla verità dicendo che per l'artista il solo impegno degno di questo nome è l'impegno artistico», si può concludere che l'espressione filmica, proprio per le caratteristiche del suo specifico, ha sempre dentro di sé, implicitamente, un valore sociale (o asociale), un impatto civile (o incivile), una influenzabilità (positiva o negativa) coinvolgenti di continuo la collettività in modo educativo (o diseducativo), informativo (o disinformativo), orientativo (o disorientativo).
Se i cineasti avessero una maggiore consapevolezza della forte responsabilità civile del mezzo che usano (come l'ebbero i registi neorealisti nell'Italia del dopoguerra e come l'hanno sempre i grandi autori), la qualità culturale delle opere ne guadagnerebbe e la memoria del mondo sarebbe più nitida.
Nello stesso tempo, come nella famosa tragedia shakespeariana la madre di Amleto vede nello specchio del figlio ciò che essa è realmente e ciò che desidera essere («Tu prendi i miei occhi e li fai rivolgere e guardare dentro la mia stessa anima»), così il cinema usando i suoi straordinari poteri potrebbe prendere gli occhi (e le orecchie) dei suoi spettatori e, facendo loro da specchio e da eco, farli guardare, farli ascoltare, farli riflettere sulla propria condizione e sul proprio futuro.

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