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martedì 31 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XVIII, di Pier Francesco Zarcone


BORGHESIA TURCA E BORGHESIE ARABE

La Turchia va alle elezioni politiche: perché preoccuparsi?
In ragione del già esposto ritorno della Turchia sullo scenario del Vicino Oriente ex ottomano, non è più il caso di motivare ulteriormente perché se ne parli in questa sede pur non essendo un paese arabo. Il 12 giugno i Turchi voteranno per il rinnovo del Parlamento. Grandi sorprese sul risultato finale non ce ne dovrebbero essere: si profila certa una nuova vittoria per il partito islamico Akp di Recep Tayyip Erdoğan (Adalet ve Kalkımna Partisi; Partito per la giustizia e lo sviluppo), il quale così otterrebbe un terzo mandato a governare. E questo rafforzerebbe nel mondo arabo la tendenza ad assumere la Turchia attuale come punto di riferimento per l’evoluzione democratico/parlamentare di un paese musulmano.
Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Milliyet (Nazionalità) il partito al governo si attesterebbe sul 45% dei consensi, con un leggero calo rispetto al 2007 (46,6%), mentre il suo grande oppositore – il laico e nazionalista Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi; Chp), fondato a suo tempo da Mustafá Kemal Atatürk – sarebbe sul 30% dei consensi con un incremento del 10% sempre rispetto al predetto anno.
Si ossserva però che una semplice vittoria numerica – quand’anche si tratti del 50% più uno - non basterebbe a Erdoğan, che vorrebbe varare una nuova Costituzione, sulla scia del referendum del 12 settembre 2010 che ha apportato significative modifiche al testo attuale, a maggior tutela dei diritti civili e politici e per adeguamento a quanto richiesto dall’Unione Europea. A questo fine, senza dover passare per un nuovo referendum popolare, egli ha bisogno di una maggioranza dei due terzi in Parlamento. Obiettivo che con tutta probabilità non verrà raggiunto, col risultato che sul progetto di nuova Costituzione Erdoğan dovrà impegnare una battaglia assai impegnativa, poiché già nel 2010 il fronte del “no” si era dimensionato sul 42% dei voti.
Ovviamente la partita è ancora tutta da giocare, e il panorama politico turco ha i suoi elementi di fluidità. Il Partito repubblicano del popolo non è più sotto la ventennale leadership di Deniz Baykal, messo fuori gioco da uno scandalo a sfondo sessuale tipo Berlusconi, e il suo successore, Kemal Kılıçdaroğlu (si legge più o meno “Klçdaroolu”) è di gran lunga più dinamico e ha mutato l’orientamento del partito su questioni prima combattute con rigidità dogmatiche, come i diritti della minoranza curda e la liberalizzazione nelle università del velo islamico sulla testa delle donne.
Nel quadro di questo nuovo dinamismo c’è un ulteriore fatto nuovo: secondo il quotidiano Yeni Şafak (Nuova Alba) il partito di Kemal Kılıçdaroğlu avrebbe raggiunto un accordo con il filocurdo Bdp (Barış ve Demokrasi Partisi; Partito pace e democrazia) per aiutarsi nella tornata elettorale. Manovra non priva di possibili controindicazioni poichè non tutti gli elettori del Partito repubblicano del popolo apprezzano l’oggettiva “vicinanza” del Bdp con il partito di Abdullah Öcalan, il Pkk (in curdo Partîa Karkerén Kurdîstan; e in turco Kürdistan İşçi Partisi; Partito dei lavoratori curdi). E nel partito kemalista il nazionalismo è notevolmente forte (al pari del secondo partito dell’opposizione, l’Akp, cioè il Partito di azione Nìnazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi; Mhp), legato ai Lupi grigi (Bozkurtlar).
In attesa dei risultati si può intanto considerare la partita come interna alla Turchia solo nel senso che - indipendentemente dalle eventuali simpatie personali - una nuova vittoria di Erdoğan può preoccupare in Occidente solo... chi non conosce il marxismo. E diciamo subito perché.

Una dinamica classe imprenditoriale
Gli islamofobi dell’Europa e degli Usa – pronti ad applaudire quando i militari scendono in campo quali campioni della laicismo (quindi con scarso rispetto per la libertà di idee politiche) - spesso paragonano il partito di Erdoğan a una matrioska con la bambolina esterna dall’apparenza ancora liberaldemocratica che cela all’interno una diversa e terrificante bambolina con turbante e scimitarra. In realtà il dato strutturale da cui deriva la diversità dell’Akp rispetto ad altre formazioni islamiche - arabe e non - consiste nel suo essere egemonizzato da una classe imprenditoriale (cioè borghese) solidamente inserita nella globalità del capitalismo e il cui primario interesse non consiste nel sostituire con uno Stato islamico fondato sulla sharía l’attuale Repubblica, dall’ancora forte marchio kemalista; bensì nel fare affari cospicui avvalendosi strumentalmente anche del controllo dell’attuale Stato turco.
Per questi imprenditori, col Corano in una tasca e il prospetto dei profitti realizzati e realizzandi in un’altra, diventa un elemento importante anche la tutela dei diritti umani e politici, trattandosi di una specie di volano per la migliore presentazione/esportazione del made in Turkey poiché, facendo ben apparire il paese, favorisce il turismo e spiana la strada agli affari con gli stranieri. Affari di cui beneficia – ovviamente – anche la classe politica al potere. Forse non saranno del tutto felici di questo i trinariciuti e pii islamici locali, ma la cosa non ha molto rilievo, ben sapendo capitalisti e bottegai musulmani turchi quali sarebbero le conseguenze economiche e politiche di un’ipotetica svolta islamista in Anatolia, ragione per cui finiscono col collocarsi – proprio loro - su un versante di tipo dualista laico: il Corano per lo spirito e gli affari per il portafoglio.
L’intento non è quello di dir bene della borghesia turca - che sempre borghesia è, le cui connessioni mafiose e paramafiose non vanno trascurate, come pure le continue violazioni dei diritti sindacali con l’appoggio dei poteri pubblici - tuttavia non le si può negare un proprio dinamismo, talché sarebbe ingiusto inserirla tout court nella famigerata categoria della borghesia compradora, cioè essenzialmente parassitaria.
Pensare alla Turchia contemporanea induce a una riflessione di tipo materialistico: con tutta probabilità non farebbe male al mondo arabo – ai fini di un sempre maggiore contenimento del fanatismo religioso, e dell’estremismo salafita (fenomeni in buona parte di ripiego, a fronte di certe situazioni economiche, sociali e politiche) - l’avvento di borghesie vere e proprie al posto degli attuali ceti vampireschi che di nessuno stimolo sono allo sviluppo delle economie e delle culture nazionali. D’altro canto, in Europa l’oscurantismo religioso non fu sconfitto dai ponderosi scritti di filosofi e polemisti atei, agnostici, liberi pensatori ecc., quanto e soprattutto dagli effetti esistenziali della società borghese nelle sue varie fasi di sviluppo produttivo.
Sul piano culturale specifico dell’ambito turco, a quanto detto si aggiunga il grande e persistente influsso esercitato dall’Islām sufico che è lontano “varie galassie” dalla mentalità del radicalismo religioso (il che non vuole dire che esso non esista, solo che è tutt’altro che egemone e si scontra con una visione del’Islām più aperta e maggiormente culturale e sociale invece che politica).

Turchia come Italia: due destre e niente sinistra
Spazzate via le formazioni di sinistra, particolarmente dopo i colpi di stato militari del 1971 e del 1980 – che hanno sferrato terribili e sanguinosi colpi alla sinistra turca, politica e sindacale, da cui non si sono ancora riprese - oggi in Turchia esistono due grosse formazioni definibili di destra, o centrodestra (termine che alla fin fine non dice molto di più rispetto al primo): il Partito repubblicano del popolo e l’Akp di Erdoğan. Il Prdp ha mantenuto vari tratti del kemalismo originario, e su questo aspetto vanno spese alcune parole illustrative. Mustafá Kemal ha realizzato un’opera gigantesca che va dall’abolizione del sultanato e del califfato all’occidentalizzazione del sistema giuridico, dall’introduzione dell’alfabeto latino in sostituzione dell’alfabeto arabo sacralizzato dal Corano all’emancipazione della donna e a questioni apparentemente di dettaglio, ma invece psicologicamente di rottura come l’abolizione del fez per gli uomini ecc. L’effetto più incisivo delle riforme fu però essenzialmente limitato alle grandi città e non penetrò in profondità nell’entroterra anatolico, rimasto arretrato e sottoposto al dispotismo della borghesia agraria kemalista (basta leggere i romanzi di Yaşar Kemal ambientati in quell’epoca per rendersene conto). Inoltre ha operato con somma brutalità presentando tratti affini al fascismo che si manifestano non da ultimo nell’aver creato uno Stato militare in cui l’esercito è pesantemente intervenuto nella vita politica ordinaria ben tre volte (1960, 1971 e 1980). In più ha lasciato vari problemi che risalgono all’epoca dei Giovani Turchi.
La turchizzazione linguistica era tappa obbligata a motivo della disomogeneità etnica della popolazione, ma è stata dogmatizzata e imposta con la forza: e i Curdi tali sono rimasti, anche linguisticamente al di là della mistificante categoria di “Turchi della montagna” inventata dalla propaganda ufficiale. L’espulsione di Armeni (superstiti) e Greci ha posto fine all’antico multiculturalismo della società ottomana, gli appartenenti alle minoranze sono state espulsi dagli impieghi governativi e la difesa brutale del laicismo kemalista è stata sovente presentata come segno di un inesistente progressismo, mentre più giustamente, proprio in Turchia, qualcuno ha parlato di occidentalizzazione con le baionette e di laicità giacobina..
Tutt’altro che di sinistra sono Erdoğan e l’Akp, ma sia il premier sia il suo partito si sono dimostrati meno ottusi del versante laico-kemalista e se ovviamente non hanno fatto “cose di sinistra”, si sono distinti per cose che avrebbe dovuto fare un partito progressista: dall’apertura all’Europa (mal vista da militari e kemalisti) fino alla riforma della Costituzione per togliere ai militari e alle corti marziali i poteri quali custodi della laicità dello Stato, e all’abolizione del divieto di celebrare il Primo Maggio e di manifestare per esso. Sui problemi sociali (disoccupazione, povertà, diritti del lavoro, ecc.) il Prdp finora si è distinto per il suo assordante silenzio, come si suol dire.
I curdi hanno il loro partito di riferimento, le altre minoranze (piccole a dire il vero, a parte gli aleviti) no, ma è sintomatico che dopo aver fatto l’esperienza del kemalismo, del postkemalismo e del partito islamico di Erdoğan, tra cristiani ed ebrei stia aumentando il favore proprio per l’Akp dal quale si aspettano (e non del tutto a torto) il miglioramento della loro situazione nel quadro di una linea politica che ormai viene definita da molti “neottomana”.

C’è borghesia e borghesia: quella turca lo è davvero.
Non va mai trascurato il fatto che l’ambito in Occidente definito “turco”, per la storia e cultura plurisecolare costituisce un mondo a sé stante rispetto ai paesi cosiddetti arabi, ragion per cui non dev’essere considerato ricorrendo a parametri e categorie utilizzabili per questi ultimi; né tantomeno gli vanno applicate analisi socio-economiche effettuate sulla base di contesti arabofoni. In primo luogo va tenuto conto che il processo – politico e sociale – di formazione della Repubblica turca in realtà trova i suoi albori nella più acuta fase di declino dell’Impero ottomano prima della Grande guerra.La rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 ne ha posto le premesse politiche. All’epoca l’Impero non era ancora dominato dal sistema economico capitalistico, ma possedeva una sua borghesia – commerciale ma anche industriale, seppure agli inizi – formatasi però essenzialmente nell’ambito delle minoranze armena e greca; non c’era una borghesia turca. Parallelamente, nella loro ribellione al potere del sultano Abdul Hamid, i Giovani Turchi contrapponevano alla sua politica sintetizzabile nello schema “ottomanismo e religione islamica” un nuovo corso basato sull’opposto binomio “nazionalismo turco e laicità”.
Il nazionalismo turco doveva per forza entrare in rotta di collisione con la borghesia armena e greca, e operare per la formazione di una borghesia nazionale che fosse definibile turca, quanto meno linguisticamente (sull’individuazione di un’etnia turca nell’Impero ottomano ci sarebbe molto da discutere, ma non è questa la sede). Da qui anche la politica di forte restrizione nei confronti delle varie minoranze del paese, etniche e linguistiche (le minoranze etniche sono Curdi, Lazi, Albanesi, Circassi, Arabi, Armeni, Greci, Ebrei; a parte i Curdi, molti dei quali non parlano turco, le altre minoranze hanno conservato come seconda lingua la propria originaria; così oggi in Turchia si parla anche abcaso, albanese, arabo, armeno, azero, bosniaco, bulgaro, circasso, georgiano, greco, giudeo-spagnolo, laz, macedone, polacco, russo e zazako).
Sul piano politico la differenza fra borghesia greca e armena stava nel fatto che la prima - soprattutto dopo la formazione del regno di Grecia - godeva di appoggi internazionali, ma quella armena no. L’accumulazione primitiva per la nuova borghesia turca fu cominciata grazie allo Stato ancora ottomano durante la Grande guerra, mediante il massacro degli Armeni in Anatolia e Siria. Quanti si accaparrarono i beni degli Armeni andarono a formare il primo nucleo della borghesia turca, che si rafforzò con la fine del sultanato e l’avvento della Repubblica kemalista. La riscossa kemalista comportò l’accaparramento dei beni anche della borghesia greca, i cui membri dovettero fuggire per salvare almeno la pelle. Questa accumulazione avvenne anche nelle campagne anatoliche, grazia al fatto che nell’Impero ottomano - detenendo il potere sultanile l’autorità suprema sulla terra - non si era formato un fenomeno similare a quello del feudalesimo occidentale (strutture parafeudali si ebbero solo in regioni del Kurdistan e del Libano); per cui anche nel retroterra anatolico si formò un ceto borghese agrario.
Inizialmente il nuovo Stato turco fu una repubblica socio-economicamente squilibrata, per la mancanza di ceti medi e con un vasto ceto di contadini poveri, rimasti tagliati fuori dall’ondata di occidentalizzazione voluta da Mustafá Kemal. Ma questa situazione non si è cristallizzata, e oggi la Turchia è a tutti gli effetti un paese capitalistico nel quale, da Kemal in poi, è stata realizzata una sorta di rivoluzione borghese mediante la costituzione di un moderno Stato nazionale, politiche di modernizzazione e di trasformazione capitalistica.
Questa Turchia capitalistica, con la sua borghesia, classi medie, aziende che esportano in Europa occidentale e in Russia – ceti e realtà maggiormente interessati alla stabilità politica e al proseguimento dello sviluppo economico che non alla creazione di uno Stato islamico – ha finito con l’incidere anche sull’islamismo locale (gli estremisti sono ovunque) determinandolo maggiormente (come dianzi detto) in senso sociale e culturale. In definitiva, per il momento la borghesia ha battuto la sinistra turca proprio sul terreno in cui quest’ultima pensava di innescare un discorso rivoluzionario: il piano del nazionalismo e dello sviluppo.
Dal golpe militare del 1980 il capitalismo si è sviluppato e ristrutturato (grazie anche all’eliminazione, fra uccisioni e lunghi periodi di carcere, di migliaia di rivoluzionari e militanti di sinistra) ed è avvenuta l’industrializzazione del paese – essenzialmente concentrata fra Istanbul, Bursa e Izmir, ma con importanti insediamenti in Egeo, Anatolia Centrale e Sudest; seppure in agricoltura sia ancora impiegato il 45% della mano d’opera. Comunque l’avvio dell’industrializzazione risale già agli anni ’30 (quindi sotto Atatürk), con il settore alimentare e quello tessile. Oggi l’economia turca è per il 60% nelle mani dei privati e per in restante 40% in mani statali o genericamente pubbliche (nei settori chiave dell’industria pesante, tessile, petrolchimica, siderurgica e metalmeccanica). Il settore agricolo tira che è una meraviglia, se si considera che la Turchia è uno dei pochi paesi al mondo ad aver realizzato l’autosufficienza alimentare e a continuare l’esportazione dei prodotti della terra. L’80% della produzione globale, però, è dovuto all’industria.
Per la borghesia turca – musulmana o laica che sia – l’integrazione nell’Unione Europea è importante per l’incremento degli scambi e per una maggiore integrazione nella globalizzazione capitalistica. Se riuscirà a entrare nell’Ue sarà un concorrente di rispetto per le economie degli altri paesi europei, e non solo per il controllo sui conflitti sociali che ha coattivamente realizzato grazie all’aiuto dei militari. Ovviamente questa borghesia, per ragioni economiche nazionali (solidità del mercato interno) e internazionali fa parte del fronte interno contrario all’indipendentismo curdo (sull’autonomia quanto meno culturale la Turchia dovrà dare spazi maggiori come prezzo di ingresso nell’Ue). È questo il motivo per cui i Curdi iracheni, pur avendo conquistato un’enorme autonomia (quasi da para-Stato) dopo la caduta di Saddam, mantengono un basso profilo nei confronti dei connazionali di Turchia. Essi ben sanno che la politica e l’economia turca non ammetteranno mai la secessione del loro Kurdistan, e che aiutare il Pkk vorrebbe dire vedere il loro territorio invaso dall’esercito turco, magari in nome di un’ottima scusa: proteggere dai Curdi la minoranza dei Turcomanni

Mondo arabo: prevalenza della borghesia “compradora”
Tutt’altra, rispetto alla Turchia, è la situazione delle borghesie arabe.
Nei paesi del Nordafrica e della “Mezzaluna Fertile” le locali borghesie si presentano infatti con connotati ben diversi (un’eccezione, quanto meno parziale, la si può trovare in Siria). Atteggiamenti nazionalisti a parte, abbondano le borghesie prone al potere politico ed economico delle potenze occidentali, unitamente a dirigenti politici – i cui interessi sono strettamente intrecciati a quelli delle borghesie nazionali, di guisa che ai nostri fini immediati possiamo accomunare tutti sotto la nota categoria di borghesie “compradoras”. Senza l’intreccio fra potere politico ed oligarchie economiche non sarebbero possibili il saccheggio delle risorse locali, il collocamento di capitali e merci esteri secondo lo scambio ineguale, l’offerta di mano d’opera a basso costo. Tutto questo fa decollare – eccome – i conti bancari di oligarchi e politici arabi, ma non le economie nazionali. Infatti ben scarso è il tasso di produzione di ricchezza per il proprio paese da parte di queste borghesie, che semmai brillano per la mancanza di visioni specifiche sullo sviluppo economico, giacché esso nutrono un’interesse relativo.
Per meglio comprendere come si sia arrivati a tale situazione si deve ricordare ancora una volta il “differenziale turco”. La repubblica fondata da Mustafá Kemal non soggiacque alla colonizzazione occidentale, né rimase nella situazione di paese dipendente dal capitale straniero che aveva caratterizzato l’Impero ottomano del secolo XIX e del primo ventennio del secolo successivo. A tale risultato molto contribuì quella che per vari aspetti può essere definita la “ombrosa chiusura nazionalista” imposta dal kemalismo.
Completamente diversa, invece, la sorte del mondo arabo a motivo delle colonizzazioni anteriori e successive al periodo ottomano; col risultato che il capitale straniero, grazie alla sua incidenza sulle economie e le politiche locali, ha fatto in modo che queste rimanessero dipendenti, sfruttabili per le risorse e la mano d’opera, e senza che si formasse una vera e propria borghesia alla maniera occidentale, in quanto alla fine avrebbe svolto un proprio ruolo concorrente. Ovviamente si sono formate le oligarchie economiche ma, senza l’appoggio interessato del capitale straniero, dei governi imperialisti e dei governi locali, più o meno militarizzati, questi ceti - tanto privilegiati quanto parassitari - non avrebbero conseguito la base materiale (economica) dei loro privilegi.

domenica 29 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XVII, di Pier Francesco Zarcone


DA MISTER OBAMA ALL’EGITTO

Mister Obama e i confini del ‘67
Il fatto del giorno è indubbiamente la svolta verbale di Obama sulla necessità che Israele torni ai confini del 1967, cioè anteriori alla Guerra dei 6 giorni. Dal punto di vista formale è una virata di rotta notevole nel quadro della storia diplomatica statunitense sul problema palestinese poiché - per quanto nel merito corrisponda a precise risoluzioni dell’Onu - la questione dei confini del ’67 era stata ormai del tutto accantonata. Sicuramente Obama ha dato un certo dispiacere alla potente lobby sionista del suo paese, e quali potranno essere le ricadute sulle prossime elezioni presidenziali ancora non è determinabile.
Prima di entusiasmarsi, tuttavia, qualche riflessione s’impone. Obama è un grande comunicatore, cioè un chiacchierone notevole, e tutti siamo in attesa di vedere cosa farà di concreto. Diciamo subito che un ipotetico ritorno di Israele ai confini del ’67, per quanto considerabile un contributo serio al dialogo con i Palestinesi, tuttavia di per sé non è di tale portata da far pervenire al classico “scordiamoci del passato e vogliamoci bene”. Pur sapendo quanto il fatto giuridico della legittimità sia relativo, soprattutto nella sfera dei rapporti internazionali, resta comunque il fatto che il solo “titolo” giuridico legittimante l’esistenza dello Stato sionista nel contesto internazionale sta nella risoluzione dell’Onu del 1947 sulla spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. La risoluzione, ovviamente, era stata corredata da cartine con i rispettivi confini, mentre alla fine della Guerra dei 6 giorni i sionisti occuparono più territori di quelli loro assegnati dalle Nazioni Uniti: sono i famosi confini del ’67; confini armistiziali (quindi non stabili) privi di “titolo” giuridico.
Orbene, è ormai palese che il mondo Israele se lo deve tenere, anche perché i sionisti hanno l’arma atomica, ma altresì prima della realizzazione di questo strumento di distruzione di massa i bellicosi discorsi arabi sulla distruzione di Israele erano solo delle rodomontate, a uso e consumo interno. In teoria, l’eventuale ritiro israeliano dagli ulteriori territori occupati nel ’67 lascerebbe del tutto scoperto il problema del rientro in Palestina per gli arabi che ne furono cacciati dai sionisti, o che scapparono non “volontariamente” (come afferma la bugiarda propaganda israeliana) bensì per evitare i massacri messi in atto dalle formazioni armate ebraiche come l’Haganah, l’Irgun e la cosiddetta “Banda Stern”: furono massacri di uomini, donne e bambini di cui quello avvenuto a Deir Yassin è solo l’esempio più noto. Una teoria molto astratta perché squilibrerebbe la composizione della società israeliana in modo pesante per i sionisti, e poi perché quanti non volessero rientrare rivendicherebbero il risarcimento per le proprietà perdute. Comunque si tratta di due problemi che non avranno mai soluzione
Infatti, se ci sarà una fine del conflitto palestinese essa avverrà mediante lo schema che in diritto si chiama “transazione”: accordo con cui due (o più parti) risolvono una contesa attraverso reciproche rinunce alle loro pretese. Indeterminato rimane il tipo di possibili rinunce da parte israeliana poiché, anche per i sionisti atei, il solo titolo alla loro presenza in Palestina è di natura religiosa (il Vecchio Testamento); mentre è chiaro che nel possibile pacchetto delle rinunce arabe ci sono proprio il rientro dei profughi e/o il loro risarcimento.
Tutti bei discorsi, ma Israele ha già detto di no alla richiesta di Obama, eccependo la non-difendibilità militare dei confini del ’67. Sarà proprio l’atteggiamento israeliano a mostrare se davvero alle parole di Obama corrisponda o no a una decisione politica da realizzare. Si tratterà di vedere di quali mezzi disponga sulla carta Mister-we can per ridurre la lunga e insopportabile protervia israeliana e, soprattutto, se sia intenzionato a usarli – sempre tenuto conto della lobby ebraica che ha fra i piedi.
Stante la dimostrata inutilità della guerra, per chi non ama Israele la pace è fondamentale, e non solo nella speranza che con essa migliori la sorte dei Palestinesi. La fine del conflitto per Israele vorrebbe dire apertura di un nuovo ma delicato capitolo, della cui pericolosità sicuramente si rendono conto gli stessi dirigenti sionisti. Il ragionamento è il seguente: se si riuscisse a eliminare l’obiettiva situazione da fortino assediato in cui vive la società israeliana, allora sì che Israele dovrebbe vedersela con le sue pesanti e non facili contraddizioni interne - sociali, economiche ed etniche – che creerebbero molti più problemi e difficoltà degli sporadici razzi lanciati da Hamas o Hezbollah, perché suscettibili anche di produrre flussi emigratori, esiziali per il sogno sionista.

Dopo la rivolta si incrina il fronte imperialista sul Nilo
Per l’Egitto del dopo-Mubārak si può parlare di segnali di rottura del fronte filoimperialistico creato faticosamente dagli Stati Uniti nel mondo arabo, fronte di cui il paese faceva parte dall’avvento al potere di Anwar as-Sadāt. Le dichiarazioni, riprese dalla stampa araba il 17 maggio, dell’ex Direttore della Lega Araba – il settantaquattrenne Amr Mussa, considerato al momento il più favorito per le elezioni presidenziali egiziane del prossimo mese di novembre - sono di estremo interesse soprattutto se lette fra le righe poiché fanno intravedere che a parità di situazione l’Egitto è in via di abbandonare il ruolo di alleato-chiave degli Stati Uniti (ma anche di Israele) nell’areaa.
Ex ministro degli Esteri durante la presidenza di Mubārak, e poi da questi relegato alla Lega Araba per eccesso di popolarità interna, Mussa ha rivendicato l’esigenza che le relazioni con gli Stati Uniti assumano un carattere «rispettabile», e che non siano più caratterizzate da una delle due parti che segue l’altra. Se già questo è significativo, ancora di più lo è la sua successiva e veritiera affermazione per cui la politica estera egiziana finora svolta non ha avuto né la comprensione né l’appoggio da parte del popolo, per cui se l’Egitto è stato il primo paese arabo a stipulare la pace con Israele nel 1979, tuttavia lo Stato sionista resta impopolare fra le masse egiziane, al pari della politica di ostilità verso i Palestinesi realizzata da Mubārak. E pesanti come un macigno sono le parole «ogni politica che vada contro il sentimento e le opinioni popolari è cattiva, soprattutto se attinente a questioni delicate come la Palestina».
Altresì importante la conferma del suo appoggio –ma si può intendere che ci sarà anche quello dell’Egitto – all’iniziativa palestinese di rivolgersi a settembre all’Onu per il riconoscimento del loro Stato. Detto in termini chiari, se la politica statunitense sulla questione palestinese continuerà a ruotare attorno ai desiderata della lobby ebraica sionista, e se gli Stati Uniti continueranno a reputare più conveniente per loro appoggiare regimi arabi reazionari, potrebbe verificarsi il rischio che nella protesta araba si riduca lo spazio conquistato dalle rivendicazioni laico-democratiche finora prevalente, a favore di un maggiore spazio politico per l’estremismo islamico.
In relazione alla seconda delle due ipotesi testé fatte, non si devono trascurare le ombre oscure e preoccupanti che incombono, per esempio, sul versante arabo del Golfo Persico, e precisamente sugli Emirati Arabi Uniti, a prescindere dai bei discorsi di Obama. Lì la famigerata agenzia di mercenari Blackwater, diretta da Erik Prince, ha ricevuto l’incarico di organizzare un piccolo esercito di 800 mercenari, con un budget di 370.000.000 di euro, da utilizzare come puntello degli emiri minacciati da agitazioni popolari, per difendere le installazioni petrolifere e per compiere operazioni sporche sia dentro sia fuori dalla zona del Golfo. A novembre dello scorso anno è già arrivato ad ‘Abu Dhabi un folto gruppo di colombiani. Poiché sicuramente si tratta di professionisti, è lecito pensare che si siano formati nelle fila dei paramilitari della Colombia. cioè veri e propri assassini specializzati in autentiche macellerie. Ritenere che di ciò gli Stati Uniti siano all’oscuro o che non avrebbero potuto impedire la cosa, è un’ipotesi risibile, e non è azzardato pensare che dietro le belle parole di Obama ci siano centri del vero potere statunitenze interessati invece a battere le tradizionali e disastrose vie dellapolitica statunitense nel mondo arabo.
L’ipotesi a rischio a cui accennavamo va inquadrata nello stato generale – tutt’altro che positivo - delle agitazioni popolari nell’area. Per quanto il fermento sia ampiamente diffuso in maggiore o minore misura, tuttavia non si hanno segnali di sfondamento in altri paesi dopo Tunisia ed Egitto. In Libia la rivolta si è trasformata in guerra civile, con intervento militare imperialistico, apparentemente in appoggio ai ribelli, ma con la non dissipata eventualità della spartizione del paese – tanto il petrolio sta soprattutto nella zona orientale, e alle brutte si potrebbe lasciare a Gheddafi la parte occidentale nel cui deserto il raís di Tripoli tornerebbe a fare il beduino per davvero; in Siria è in atto la repressione sanguinosa di un’opposizione abbastanza disorganizzata, con la possibilità che il regime alla fine la spunti; nello Yemen la repressione continua, l’opposizione sembra sempre sul punto di cacciare il presidente Salāh, ma finora lui resta dove stava anche prima; in Bahrain l’opposizione non ce l’ha fatta; in Marocco, Algeria e Giordania non sembra che le manifestazioni – avvenute su scala minore – abbiano prodotto chissà quali grandi risultati riformatori.
A parole in Occidente tutti sono democratici, ma a nessun serio custode dell’ordine imperialistico sfuggono i pericoli inerenti a un effettivo sviluppo della democrazia rappresentativa nei paesi arabi, giacché uno dei risultati sarebbe la riduzione del numero degli Stati vassalli di Washington e il totale smascheramento delle mistificazioni di Israele. Infine molti degli Stati in predicato sono importantissimi per le esigenze geostrategiche militari ed economiche a motivo delle risorse ivi esistenti.

Parliamo ora d’Israele
Si tratta dell’unico Stato del Vicino Oriente con un accettabile assetto democratico-rappresentativo – a parte il Libano, caso peculiare per il carattere pluriconfessionale istituzionalizzato del suo sistema politico. Questo modo di essere di Israele ha sempre costituito un leit-motiv della propaganda sionista, e non solo a fini di vanagloria. Infatti su questo dato fa leva la propaganda per giustificare la sua politica tutt’altro che favorevole alla pace, in base a un semplice ragionamento giustificativo: se gli Stati arabi fossero democratrici non ci sarebbe guerra, perché le vere democrazie non si fanno la guerra fra di loro.
Ora, a parte l’opinabilità di tale ultimo assunto, non vi è dubbio che atteggiamenti bellicistici e azioni militari per lo più sconclusionate da parte degli Arabi hanno solo favorito Israele, diventata abilissima a farsi passare per vittima di fronte a un’opinione pubblica disattenta, priva di conoscenza storica e condizionata dalla cattiva coscienza dell’antisemitismo occidentale. Se viene meno l’alibi, Israele resta col suo vero volto: quello del colonialismo razzista del sionismo.
L’eventuale arresto delle rivolte arabe con il più o meno malcelato contributo statunitense, senza dubbio farebbe nascere un’ulteriore frustrazione in quanti vogliono fare uscire il mondo arabo dalle sue arretratezze condizionanti. E allora l’estremismo islamico, messo in secondo piano dalle attuali rivendicazioni popolari, potrebbe ripresentarsi come la vera alternativa a mali imputati solo all’influenza occidentale. Ricordiamoci una cosa: tutte le grandi potenze hanno sempre utilizzato il divide et impera della politica imperiale romana; più o meno bene, e con maggiore o minore fortuna. Forse la classe dirigente Usa l’ha imparato dai Britannici, ma non è mai stata una buona allieva, giacché spesso e volentieri non ha calcolato conseguenze e contromosse. Alla luce delle precedenti castronerie, non è irragionevole pensare che in certi ambienti imperialistici si preferisca proprio il predetto disastroso esito, per un duplice effetto: riportare in auge il pregiudizio antiarabo e ridare a Israele l’incondizionato appoggio di sempre; nonché optare di nuovo per dittatori locali con funzione di contenimento interno e con i quali concludere lucrosi affari.

I “sorprendenti” Fratelli Musulmani egiziani
La Fratellanza Musulmana dell’Egitto – tanto demonizzata dagli imperialisti per i loro fini, quanto poco conosciuta – si prepara ad essere, inevitabilmente, uno dei soggetti dell’auspicato nuovo corso politico del paese. Intanto nel paese da un po’ di tempo è in atto una recrudescenza degli sconti interconfessionali (leggasi assalti di fanatici musulmani a cristiani e loro chiese); scontri in cui molti vedono, oltre al dato visibile del ritorno all’aggressività delle frange più estreme dell’islamismo locale, la lunga mano manovrante vuoi di sostenitori del regime di Mubārak, vuoi di centri comunque ostili all’avvento di una democrazia rappresentativa più seria del passato. In effetti, cosa di meglio del far intravedere lo spettro dell’estremismo religioso in agguato fra le urne e pronto a fare in Egitto il bis dell’Iran? Ebbene, le ultime notizie circa l’organizzarsi dei Fratelli Musulmani in partito fanno pensare che in ordine agli scontri islamo-cristiani abbiano ragione proprio i “dietrologi” sospettosi.
Succede che la Fratellanza Musulmana, nella documentazione presentata per la legalizzazione di un partito a essa vicino, denominato “Libertà e Giustizia”, ha indicato come vicepresidente un intellettuale cristiano copto – Rafiq Habib – e tra gli 8.821 di elettori a corredo dell’ufficializzazione del partito ve ne sono 978 di donne e 93 di copti. È un po’ difficile pensare che Habib e i suoi 93 correligionari siano stati presi da una botta di masochismo acuto, mentre risulta più facile ritenere che forse ci sfugge qualcosa della situazione egiziana. Vero è che in politica (e in Oriente in particolare) non è sempre facile distinguere fra le maschere e i volti; e vero è che la legge sui partiti, riformata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (organismo con cui tutti i soggetti politici devono fare i conti e competente a pronunciarsi sulla legalizzazione del nuovo partito), mantiene il divieto di formare entità basate «su princìpi religiosi, di classe, geografici, di sesso, idioma, religione o credo»; pur tuttavia il portavoce di “Libertà e Giustizia”, Sād Katatni, ha rilasciato alla stampa dichiarazioni molto chiare e non suscettibili di interpretazioni di comodo: «il partito è aperto a tutti gli egiziani, sia musulmani sia copti», il suo presidente Muhāmmad Mursi si è pronunciato in termini favorevoli verso «le nazioni moderne e la libertà delle persone»; e l’altro vicepresidente di “Libertà e Giustizia”, Rashad al-Bayumi in un’intervista al quotidiano spagnolo El Mundo, oltre ad aver garantito che il partito non sarà la cinghia di trasmissione della Fratellanza Musulmana, ha opportunamente ricordato un aspetto del tutto trascurato dagli estremisti islamici, e cioè che «il Corano dice che nessuno può essere obbligato a diventare musulmano», e che la rivendicazione della «giustizia per ogni persona, a prescindere dalla sua religione o dal suo colore (...) sta alla base (....) del partito».
Mai in politica prendere tutto per oro colato, ma del pari sarebbe erroneo usare solo e sempre l’ottica opposta. Se si tratta di bugie per rassicurare gli elettori la verifica sarà dopo le elezioni, fermo restando che in Egitto, a differenza dell’Iran della rivoluzione khomeinista, si dovranno fare i conti con l’esercito. Ma se non fossero bugie, allora si dovrebbe dire che in Egitto si profilano novità di tipo turco, e problemi per gli imperialisti. Di Turchia dovremo riparlare nella prossima corrispondenza.


martedì 24 maggio 2011

CHERNOBYL - RITRATTI DALL'INFANZIA CONTAMINATA, di Pino Bertelli

"Difendere la Terra significa difendere la tenerezza offesa (la memoria) dei popoli...
Se la gente riuscisse a vedere la fame di bellezza che c’è nel mondo ci sarebbe
la rivolta delle idee nelle strade. Non il canto dei fucili e il dolore dei bambini".
PINOBERTELLI




domenica 22 maggio 2011

I RAGAZZI STANNO BENE (Lisa Cholodenko, 2010), di Pino Bertelli

Sono folle di te, amore,/ che vieni a rintracciare/ nei miei trascorsi/ questi giocattoli rotti delle mie parole./
Ti faccio dono di tutto/ se vuoi,/ tanto io sono solo una fanciulla/ piena di poesia/ e coperta di lacrime salate,/
io voglio solo addormentarmi/ sulla ripa del cielo stellato/ e diventare un dolce vento/ di canti d’amore per te.
(Alda Merini, Sono folle di te, amore)

I. ELOGIO DELL’OMOSESSUALITÀ

Ouverture: tutti gli esseri umani nascono liberi e diversi, è l’ipocrisia della società (maschilista) che li riduce a schiavi di morali repressive… tutti gli esseri umani nascono liberi in dignità e diritti e sono la chiesa e lo stato che reprimono ogni forma di libertà sessuale… tutti gli esseri umani nascono liberi in amore, e non c’è peccato né impudore nell’impazzire d’amore per una persona dello stesso sesso… l’importante è amare senza chiedere perché e all’amore che ami devi il rispetto degli angeli ribelli… in amore, come per la libertà, tutto è permesso!
Si è e si resta stupidi finché non sputiamo contro le codificazioni delle convenzioni e le museruole delle diversità… si tratta di lavorare al rifiuto della rassegnazione e ai cedimenti dell’indifferenza… ciascuno è l’amore che vive… i limiti come i maestri esistono per essere violati… in amore (eterosessuale, omosessuale, lesbico) non c’è da dimostrare nulla a nessuno… ciascuno ha una propria identità e un proprio valore… prendere coscienza di questi concetti elementari significa superare tutti gli ostacoli, le devianze, le mitologie dell’ordinario… rovesciare la quotidianità e aprirsi ad una vita radicalmente nuova. L’oscenità più oscena è reprimere i propri istinti, emozioni, fragilità… oscurare la propria sessualità… non importa chi ami, quale sesso abbia, ama come senti, nei modi che vuoi… l’amore è un colpo di dadi buttato contro l’amoralità e l’ingiustizia dei valori dominanti.
Elogio dell’omosessualità: l’amore non è mai innocente!… Ti puoi dimenticare con chi hai riso, ma non ti dimenticherai mai con chi hai pianto in amore là dove finisce il mare e comincia il cielo! Amare significa crescere con i propri disagi. Si tratta di coltivare la consapevolezza della nostra unicità e della possibilità di esprimere, rinnovandola ad ogni nuova (o la medesima) situazione d’amore, la bellezza ereticale dell’amore.
Il film di Lisa Cholodenko I ragazzi stanno bene è una commedia anomala rispetto a ciò che corre sul filo del perbenismo e della benevolenza d’accatto del cinema più circuitato (specie italiano)… «Per me - dice la regista - è soprattutto la dimensione emotiva e psicologica dei personaggi a essere importante. Il fatto che a essere protagonista di questa storia sia una coppia omosessuale non è l’aspetto principale. La cosa più importante è che si tratta di una famiglia che incontra delle difficoltà di comprensione, ma che alla fine riesce a risolvere i conflitti grazie al profondo rapporto che lega tutti i componenti». Tutto vero. La famiglia non ortodossa (la vita quotidiana di due lesbiche, un figlio e una figlia avuti per mezzo dell’inseminazione artificiale) che la Cholodenko butta sullo schermo fa riflettere - e molto - su quanta stupidità circola nella rigidità dei costumi imposti dalla visione omofobica che impera nella civiltà dello spettacolo (per non dire nei regimi comunisti o nei paesi arabi).
I ragazzi stanno bene nasce dall’esperienza vissuta di Lisa Cholodenko e della sua compagna, Wendy Melvoin (ex chitarrista di Prince e del duo Wendy & Lisa, autrice di colonne sonore per il cinema e per la televisione). «Ero appena rientrata a Los Angeles da New York - racconta la Cholodenko - e volevo avere un bambino. Ero innamorata di Wendy e sapevamo che eravamo entrambe ormai sulla soglia dei quarant’anni. Abbiamo discusso sul fatto di utilizzare una banca del seme o chiedere aiuto ad un amico. Alla fine, mia madre mi disse che era meglio un donatore di sperma». Ciascuno è simile al pane che mangia e all’amore che sogna. La diversità è l’apertura e l’interrogazione dell’essere e della storia. Godere della propria sessualità significa insorgere contro secoli di convenzioni. «La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi» (Pier Paolo Pasolini). Quando il desiderio insorge dalla sua insolenza di esistere fra liberi e uguali, i totem e i tabù del mondo crollano e ciascuno diviene ciò che è veramente.

venerdì 20 maggio 2011

Al secolo Maurice Nadeau (nato il 21 maggio 1911)


Maurice Nadeau compie cent’anni, il surrealismo ottansette. Utopia rossa vuole rendere a entrambi un piccolo omaggio:
"Le seul mot de liberté est tout ce qui m’exalte encore. Je le crois propre à entretenir, indéfiniment, le vieux fanatisme humain. Il répond sans doute à ma seule aspiration légitime. Parmi tant de disgrâces dont nous héritons, il faut bien reconnaître que la plus grande liberté d’esprit nous est laissée. À nous de ne pas en mésuser gravement. Réduire l’imagination à l’esclavage, quand bien même il y irait de ce qu’on appelle grossièrement le bonheur, c’est se dérober à tout ce qu’on trouve, au fond de soi, de justice suprême." 
André Breton, Manifeste du surrealisme, 1924 


Cher Maurice,
il ya seulement un siècle que tu occupe ta place dans le grand dessin de la nature. Et la nature a eté reconnaissante envers toi pour la belle façon dans laquelle tu a occupé cette place...
Samedi 21 mai, ton siècleversaire, je serai avec Antonella Marazzi a la rencontre annuelle de l'Association fourieriste. Cette année c'est Audenge, prés de Bordeaux.
Dans la séance, j'enviterai les copains y les copines a boire un coup a ta santé (un toast/brindisi international, a cause de la nature cosmpolite de l'Association).
Aprés, le mardi 24, je te verrai a Paris a la présentation de nos deux éditions du livre postume de Pierre Naville.
Auguri vivissimi e un abbraccio
Roberto Massari


Merci, Roberto, pour ce que tu me dis et tout ce que tu fais.
Le mardi 24 je serai au boulot, à La Quinzaine.
Je t'embrasse
Maurice

giovedì 19 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XVI, di Pier Francesco Zarcone

GHEDDAFI ALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE - SIRIA “SOCIALISTA”

Preliminarmente, e senza attinenza con quel che segue, una notizia simpatica legata alla morte di Usāma bin Lādin: il 6 maggio si è saputo che un magistrato di Amburgo - Heinz Uthmann - ha denunciato, per violazione dell’articolo del Codice Penale tedesco che sanziona gli atti di approvazione di delitti, la cancelliera Angela Merkel per essersi congratulata con la Casa Bianca a causa della morte di bin Lādin; e nella denuncia ha sottolineato che quelle affermazioni violano la dignità umana e i valori dello Stato di diritto. Viene da pensare a quel contadino prussiano che, litigando col re Federico il Grande per un suo arbitrio, a un certo punto ammonì il sovrano dicendo «ci sarà pure un giudice a Berlino!». Washington invece, con tutta evidenza, ne è carente.

Gheddafi all'Aja
L’uomo della strada, dotato del suo “buon senso” pratico che comunque non sempre opera a 360°, quasi automaticamente vede con soddisfazione giustizialistica il deferimento di Gheddafi, di suo figlio Saif al-Islām e del capo dello spionaggio libico ‘Abdallāh al-Senussi alla Corte Penale Internazionale, magari concludendo che “almeno per qualcuno c´è giustizia a questo mondo”. Purtroppo le cose non sono così semplici, sul piano della coerenza etica e su quello giuridico. Il primo di essi ci fa subito osservare che quando la spinta a quel deferimento proviene dal mondo imperialistico (che ne ha fatte, ne fa e ne farà di cotte e di crude) è un’ulteriore somma manifestazione di ipocrisia propagandistica da parte di chi si ritiene il “Bene” per antonomasia. Ma tant’è! Forti perplessità intervengono sul piano giuridico in quanto qui stiamo parlando del diritto internazionale borghese e non della giustizia rivoluzionaria: il primo ha i suoi formalismi volti a tutelare l’inquisito e a dare trasparenza e linearità all’iter processuale; mentre la seconda punta a difendere le classi oppresse, e in ragione del fine ha una diversa ontologia giuridica e anche il suo aspetto formale è rapportato al fine perseguito. Al di fuori da quest’ultimo ambito i profili riguardanti giurisdizione e competenza sono i primi a essere fondamentali per la correttezza del procedimento. Ciò detto, veniamo alle perplessità, osservando preliminarmente che la Corte Penale Internazionale non va confusa con la Corte Internazionale dell’Aja, che dipende dall’Onu.
Infatti l’organismo che dovrebbe giudicare Gheddafi è nato da un’iniziativa pattizia di alcuni Stati promotori, a cui poi hanno aderito altri paesi. Come per tutti i trattati internazionali il processo di adesione passa per due fasi: la firma e poi la ratifica del parlamento nazionale. Lo Statuto della Corte é entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010. La Corte è dotata di giurisdizione sovranazionale - accettata dagli Stati aderenti – riguardante individui (non già gli Stati come soggetti) sospettati di essere responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l'umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, aggressione. Non si tratta della totalità di siffatti crimini, cioè ovunque e da chiunque compiuti, bensì di quelli commessi sul territorio di uno Stato firmatario e/o da uno o più residenti di uno Stato firmatario, nel caso però che lo Stato teatro dei crimini, o in cui siano residenti gli imputati, non possa o voglia agire in base alle proprie leggi.
Gli Stati aderenti sono più di cento ma – oltre a non farne parte Usa, Cina, Russia, Israele - non ne fa parte nemmeno la Libia! Qui evidentemente c’è qualcosa che non quadra sul piano della correttezza giuridica. Gheddafi ha forse commesso reati di competenza della Corte Penale Internazionale nel territorio di uno Stato firmatario? La domanda si impone poiché, non avendo aderito la Libia agli accordi sulla Corte, i reati commessi da Gheddafi in territorio libico non contano per farne scattare la giurisdizione. In astratto gli sconfinamenti e i cannoneggiamenti in territorio tunisino potrebbero essere presentati come atti di aggressione, ma al riguardo esistono due problemi: da quel che si sa in base ai mass-media le accuse a Gheddafi & C. riguardano la repressione in Libia; e poi c’è il fatto che anche la Tunisia non ha ancora riconosciuto la giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Dobbiamo concludere nel senso di una tragica sceneggiata? Non sarebbe una novità: si consideri che la Prima guerra del Golfo fu effettuata in totale dispregio dello Statuto dell’Onu sugli interventi militari per la tutela della pace; e la Seconda guerra ancor di più.
Alla fine dei conti resta valido il vecchio principio per cui è meglio o giustiziare i nemici sconfitti senza tante formalità o – quando conviene - sottoporli alla giustizia ordinaria del loro paese, piuttosto che impostare pesudoprocessi dalla dubbia o nulla giuridicità, con il rischio poi che qualcuno si impegni a spacciare degli autentici macellai come vittime di ingiustizie processuali.

Ha mai avuto qualcosa di socialista la Siria?
In Italia non manca chi ancora ritiene la Siria del Partito Socialista Bāth (“resurrezione”, in arabo) un paese socialista, e per qualcuno addirittura si tratterebbe di una piccola Cuba (evidentemente mantenendo un’idea positiva sul paese di Castro). Nulla di più sbagliato. Del motto programmatico del Bāth - “Unità araba, libertà socialismo” – sono rimaste solo le parole di una vuota “formula politica” da cui non proviene più alcuna forza legittimante. Vediamone i singoli elementi.
L’unità araba mettiamola da parte, poiché da un pezzo appartiene ai miti del secolo scorso, tant’è che nei fatti ormai risulta del tutto assente. La libertà resta un desiderio dei Siriani, di non facile realizzazione nel quadro del regime baathista e dell’attuale situazione internazionale. Il regime è sostanzialmente a partito unico, con al vertice un Presidente-dittatore; pratica una politica interna poliziesca sostenuta da una rete di servizi di sicurezza i quali – attraverso i collegamenti regionali con i locali segretari del partito e con i comandi di polizia - controllano un paese in cui dal 1963 è in vigore la legge marziale. Una cura particolare è stata conferita allo sviluppo delle forze armate e delle formazioni paramilitari, costituite da personale legato al clan del Presidente. Si va dalla brigata Sarayyat al-Difa‘ā (Brigata di Difesa), creata molti anni fa da Hafiz al-Assad, con 50.000 uomini e migliaia di mezzi blindati e armamenti nel complesso superiori a quelli dell’esercito regolare, fino alla potente Mukhabarat, la polizia segreta.. Come in tutte le dittature essere membri del partito è indispensabile, ma farsi strada al suo interno non è cosa per tutti, dipendendo dalla capacità di elargire le dovute “mazzette” (bakhshish) a chi di dovere; e spesso e volentieri il cittadino-suddito ottiene pagando quel che gli dovrebbe spettare senza spese.
Riguardo al socialismo, infine, è meglio lasciare perdere, giacché fino agli anni ’70, cioè fino all’epoca in cui Hafiz al-Assad salì al potere, si è trattato al massimo di statalizzazioni e dell’instaurazione di una forte centralizzazione del sistema economico, senza però che si sradicasse il capitalismo e che comparisse anche l’ombra di una democrazia del lavoro.

La svolta di Hafiz al-Assad
Nel decennio precedente all’avvento di Hafiz al-Assad, in Siria era stata attuata una politica impostata sulla rigida statalizzazione del settore industriale, sulla pianificazione e sulla riforma agraria, con la conseguente riduzione ai minimi termini della grande borghesia industriale. Si erano però aperti spazi che consentirono alla piccola borghesia artigiana e commerciale di acquisire un ruolo emergente destinato poi a svilupparsi, diventando questo ceto una consistente base di appoggio per il regime, grazie al sostegno di Hafiz al-Assad. Egli inoltre interruppe il processo di riforma agraria, consentendo anche nelle zone rurali la riformazione di una borghesia agraria che protesse burocraticamente mediante l’accesso agevolato al credito, e riservando un trattamento diverso ai contadini beneficiari della riforma agraria i quali, privi dei necessari capitali e meno favoriti nel loro conseguimento, spesso e volentieri hanno dovuto cedere o affittare le terre attribuite loro.
Queste due borghesie – l’urbana e la terriera (in buona parte cristiane e sunnite) - si sono legate alle strutture del regime attraverso un vasto circuito di reti clientelari. Al di là delle parole d’ordine socialiste, l’assetto politico/materiale della Siria è dominato da una cuspide sultanal/patriarcal/dittatoriale incarnata dal Presidente della Repubblica, oggetto di un diffuso culto della personalità, che si avvale di forze armate e apparati repressivi, clientele (personali, di clan, di gruppo religioso, etc.) e centri di corruzione. Lo strumento della pianificazione economica (sancito dalla Costituzione del 1973, che definisce l’economia siriana “socialista pianificata” con l’obiettivo di eliminare in radice ogni forma di sfruttamento) in concreto ha operato più nel senso del rafforzamento del potere e della captazione di consensi sociali, che non come fonte di impulso per lo sviluppo economico.
Morto nel 2000 Hafiz al-Assad, ne ha preso il posto il figlio Bashar che si è trovato a governare uno Stato con un settore pubblico sovradimensionato ma poco efficiente, con un’industria non competitiva, con una massa crescente di cittadini in giovane età e in prospettiva con forti problemi di disoccupazione. A quel punto o si riprendeva la strada abbandonata dal vecchio Assad, o si puntava a un socialismo diverso e più effettivo, oppure ci si orientava verso forme di liberalizzazione dell’economia.

La "liberalizzazione" di Bashar al-Assad
Bashar al-Assad ha scelto la terza soluzione avviando un vasto programma di privatizzazioni, pur mantenendo il sistema economico sotto il controllo statale. A tutt’oggi la maggior parte degli investimenti sono pubblici e nella pianificazione economica un posto di primaria importanza spetta all’agricoltura (che occupa il 30% della popolazione, e copre almeno il 22% del Pil), perseguendo il governo l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare. Gli investimenti stranieri hanno riguardato – oltre al settore turistico – l’industria meccanica ed elettrica e poco l’agricoltura. Le delocalizzazioni dall’estero verso la Siria hanno interessato la componentistica elettronica e meccanica, e la casa automobilistica iraniana Saba vi ha anche aperto alcune fabbriche.
Bashar al-Assad è diventato Presidente nel 2000, e già nel 2001 aveva aperto ai privati il sistema bancario – monopolio statale ai tempi del padre – e agli stranieri per quote di capitale non superiori al 49%, ma lasciando allo Stato un controllo statale alquanto stretto (lo Stato ha mantenuto la proprietà di 2 banche, la Banca Commerciale e la Banca Industriale). Comunque è rimasto il deficit di capitalizzazione delle banche siriane con ricadute negative sulle linee di credito, tanto che per molti imprenditori è preferibile rivolgersi alle vicine banche libanesi. Aprire l’economia all’esterno, oltre a consentire investimenti stranieri, implica sempre mettere le proprie merci in concorrenza con quelle estere, cosa non sempre positiva, come nel caso siriano. La Siria, poi, ha un grosso problema in campo energetico: il paese infatti non è un grande produttore di petrolio, e oltre tutto si prevede l’esaurimento delle sue risorse fra una quindicina d’anni. Pur essendo stata una fonte di introiti di rilievo l’esportazione di petrolio, oggi la contrazione nelle vendite all’estero dipende dalle maggiori necessità del mercato interno.
La riduzione di questi introiti ha inciso molto negativamente sul sistema di sussidi sociali che aveva caratterizzato il regime baathista garantendogli ampi margini di appoggio e coesione sociale. Parallelamente, l’apertura dell’economia siriana verso l’esterno e il negativo confronto con i prezzi del mercato internazionale hanno creato una situazione socio-economica critica: di gran lunga ridottasi l’erogazione degli incentivi statali, e aumentati i prezzi interni in modo rilevante, il risultato è che stipendi prima  sufficienti a mantenere una famiglia (la media era di 100 dollari al mese) hanno perso gran parte del precedente potere di acquisto; inoltre in un paese la cui crescita demografica si aggira sul 3% annuo, è aumentata la pressione sul mercato del lavoro mentre la crescita economica negli ultimi anni si è bloccata al contrario del debito estero e oggi almeno il 30% della popolazione vive sotto il livello di povertà (il 50% dei poveri si trova nelle campagne).
L’afflusso di profughi dall’Iraq – molti dei quali ricchi – ha contribuito a fare alzare i prezzi del mercato interno. Il governo cerca di mantenere la politica dei sussidi per i ceti più poveri, ma quanto sopra detto, nonché gli effetti della crisi economica capitalista mondiale, l’aumento della disoccupazione (specie giovanile) e gli elevati livelli di corruzione – spesso con tipicità paramafiose – hanno creato una situazione sociale assai delicata.

Le difficoltà pratiche
Abbandonata ogni opzione socialista, i governanti si sono trovati alle prese con difficoltà di ordine tecnico e dalle implicazioni politico/-sociali il cui superamento appare alquanto arduo. Passare da un assetto impostato su una sorta di capitalismo di Stato e assistenzialista a una politica di liberalizzazione economica vuole dire, inevitabilmente, incidere sui consolidati interessi di ceti sociali da cui il regime trae un appoggio fondamentale. Infatti, gli strumenti repressivi servono appunto per reprimere sommosse e agitazioni, ma a basarsi solo su di essi non si ha nessuna stabilità politica e sociale. E qui Assad deve stare attentissimo, tenuto conto dell’essere espressione di una minoranza egemone (il gruppo religioso alauita) collegata con altre minoranze (cristiani, ismailiti, drusi) e con appoggi parziali (una parte della borghesia) nella maggioranza della popolazione che è sunnita.
Si pensi ad una conseguenza di fondo della politica di maggiore liberalizzazione del sistema economico: Aleppo e Damasco sono tornati a essere i maggiori centri dell'attività economica siriana, incrementando il peso di settori della borghesia sunnita, per cui è tornata a essere periferia economica la zona costiera, maggioritariamente abitata da alauiti, che aveva beneficiato di vasti finanziamenti statali col duplice scopo di rafforzare l’appoggio al regime e di integrare nell’economia siriana quella regione prima sottosviluppata ma di grande importanza geografica. Nell’insieme, oltre a ciò, c’è il fatto che voler incidere quantitativamente e qualitativamente sul settore pubblico – altro bastione del regime, perché pieno di membri e protetti degli Assad, del gruppo alauita e delle altre minoranze religiose al potere, spesso provenienti da ceti sociali poco favoriti – implica riduzioni e riconversioni di forza lavoro con effetti destabilizzanti. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la sovraesposizione del debole apparato economico siriano alla competizione esterna.

La favola dell’economia “sociale” di mercato
Al fine di rimediare allo stallo dell’economia siriana, al congresso del Bāth tenutosi a giugno del 2005 quei bravi “socialisti” hanno pensato bene di fare ricorso alla cosiddetta economia “sociale” di mercato ispirandosi a un illustre modello capitalista, quello elaborato dal tedesco Ludwig Erhard per la ricostruzione nel secondo dopoguerra. Si tratta di un modello di mercato libero rispetto al quale il ruolo dello Stato consiste fondamentalmente nel proteggere la concorrenza dalle tendenze monopolistiche e oligopolistiche. L’uso dell’aggettivo “sociale” serve a fare credere che si tratterebbe di un sistema il cui fine non è di favorire solo i ricchi, ma anche di aiutare i ceti “meno favoriti”. In base alle esperienze europee si può parlare di una bella favola che nasconde una truffa.
Ma le parole non sono mai neutre, e in politica il significato apparente serve a nascondere quello effettivo. Così, “economia sociale di mercato” è un’espressione che ha permesso ad al-Assad di abbandonare ogni riferimento sostanziale e formale al socialismo senza tuttavia pronunciare la fatale parola “capitalismo” che fa a cazzotti con la citata disposizione costituzionale. Due anni dopo gli economisti del partito “socialista” Bāth hanno pensato bene di perfezionare la formula scoprendo la partnership fra sfera pubblica e sfera privata (tašārikiyya) accomunandole in un unico settore economico nazionale “armonico”. A prescindere dal carattere illusorio di questo modello, sta di fatto che i baathisti non si sono affatto organizzati per la sua concretizzazione. Ad ogni modo il regime è riuscito nel 2010 a ridurre al 27% il debito pubblico che nel 2003 era al 127%, e per il quinquennio in corso si prevede – agitazioni politiche permettendo – una crescita del 5,5%.

Se la Turchia gioca con i Fratelli Musulmani, la Siria gioca con i Curdi
Nell’attuale subbuglio siriano gli osservatori internazionali più avveduti sono colpiti dal sostanziale silenzio della minoranza curda esistente nel paese, a parte alcune sporadiche manifestazioni di scarsa rilevanza pratica. Eppure questa comunità – sempre guardata con sospetto dalle autorità di Damasco per il fatto di non essere araba e per il pericolo di coltivare velleità separatistiche – in passato aveva dimostrato una buona capacità di mobilitazione nei confronti del regime; ma è pur vero che in questi casi ha pagato più volte il sanguinoso prezzo della repressione. Questo recente atteggiamento ha deluso anche l’opposizione anti-Assad, che per rafforzarsi contava sul contributo dei Curdi forse dandolo per scontato.
Questa ulteriore minoranza nel mosaico siriano è sicuramente di seconda categoria, trovandosi nel territorio di uno Stato che per definizione è “Repubblica Araba Siriana” ed è dominato da un partito dalla forte ideologia nazionalista. Nel 1962 il governo siriano effettuò arbitrariamente, da un giorno all’altro e senza un effettivo criterio logico, la divisione dei Curdi della regione nord-orientale di Jazireh in tre categorie di persone: una parte di essi fu dichiarata siriana a tutti gli effetti; gli esclusi dalla nazionalità vennero divisi in due gruppi ulteriori, gli “stranieri” – iscritti nei registri dello stato civile riservati ai non siriani residenti – e i “dimenticati”, in quanto non iscritti da nessuna parte.
In aprile Bashar al-Assad – dopo aver coccolato questa minoranza fin dal mese di febbraio e avere addirittura inviato personalità del regime alle celebrazioni del nawruz, il capodanno curdo, che negli anni precedenti erano state ostacolate dalle forze di repressione - ha concesso la cittadinanza siriana ai Curdi prima considerati “stranieri”. Tuttavia, molto astutamente, non ha emesso un provvedimento con efficacia immediata: cioè a dire, i beneficiari devono effettuare una serie di pratiche burocratiche presso gli uffici dello stato civile e, ai fini del positivo esito del procedimento amministrativo, è necessario l’avallo... dei servizi di sicurezza. Un ottimo deterrente contro le eventuali velleità di unirsi al variegato fronte dell’opposizione.
Esistono anche altri segnali ad attestare un mutamento (forse temporaneo) della politica di Damasco verso i suoi Curdi, e si tratta dell’autorizzazione al rientro in Siria dall’esilio del dirigente curdo Saleh Muslim Muhāmmad, presidente del Partito dell’Unione Democratica (Pyd), cioè la branca siriana – sottoposta a opportuna cosmesi onomastica – del Pkk di Abdallah Ocalan (si legge Ogialan). Inoltre Saleh Muslim ha tenuto un raduno politico senza alcun ostacolo da prte dei servizi di sicurezza siriani.
L’iniziativa di Damasco ha una valenza specifica, oltre che di politica interna, altresì nei confronti della Turchia: è il segnale rivolto al premier Recep Erdoğan affinché non dia troppo spazio in territorio turco all’opposizione siriana e soprattutto ai Fratelli Musulmani che in Siria sono fuori legge, poiché a sua volte il governo siriano può dare ai Curdi collegati col Pkk uno spazio politico sicuramente non gradito ad Ankara, e quindi fare saltare gli Accordi di Adana, conclusi fra i due paesi nel 1998 per la lotta comune contro le “organizzazioni terroriste”. Questo rappresentare alla Turchia il concetto “se tu giochi col mio nemico, io gioco col tuo” fornisce sicuramente una dimostrazione ulteriore delle ferme intenzioni di al-Assad in ordine all’attuale crisi interna, e pone un interrogativo motivato altresì dal fatto che con la Turchia è sempre consigliabile non scherzare: Bashar al-Assad sta dando prova di debolezza, o al contrario di forza?

E comunque il regime ha i suoi punti di forza
Pur con tutte le sue contraddizioni e problematiche economico/sociali, e con una serie di sommosse in atto, il regime baathista si presenta meglio piazzato dei precedenti regimi di Tunisia ed Egitto, nonché di quello libico. Innanzitutto lo statalismo e l’economia dirigista fanno sì che il paese abbia molti più dipendenti pubblici, e questo vuole dire molta più gente con posto di lavoro fisso e salario garantito; e minore é ancora oggi la massa di disoccupati, cosicché il regime può evitare situazioni come quella di Piazza Tahrir al Cairo, occupata in permanenza da una marea di gente priva, evidentemente, di incombenze lavorative cogenti.
Molto maggiore è anche il grado di coesione della classe dirigente, civile e militare, grazie al cartello delle “minoranze religiose” non sunnite e non musulmane a guida alauita già realizzato da Hafiz al-Assad. Riguardo all’ambito militare, la nutrita presenza di alauiti nelle Forze armate – che è praticamente maggioritaria tra gli ufficiali – fa sì che l’apparato repressivo “tenga”, evitando la possibilità di pericolosi embrassons nous fra militari e manifestanti. Per il suo collaudato sistema repressivo e di difesa il regime dispone di vaste risorse, considerato che per tutta la durata dell’occupazione siriana del Libano per questo apparato non si è speso praticamente nulla, essendo state caricate alla Lega Araba gli oneri di occupazione adeguatamente gonfiati per coprire le spese dell’esercito. L’ulteriore elemento su cui si basa il regime è psicologico: la paura di fare la fine di Libano e Iraq.

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