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giovedì 19 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XVI, di Pier Francesco Zarcone

GHEDDAFI ALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE - SIRIA “SOCIALISTA”

Preliminarmente, e senza attinenza con quel che segue, una notizia simpatica legata alla morte di Usāma bin Lādin: il 6 maggio si è saputo che un magistrato di Amburgo - Heinz Uthmann - ha denunciato, per violazione dell’articolo del Codice Penale tedesco che sanziona gli atti di approvazione di delitti, la cancelliera Angela Merkel per essersi congratulata con la Casa Bianca a causa della morte di bin Lādin; e nella denuncia ha sottolineato che quelle affermazioni violano la dignità umana e i valori dello Stato di diritto. Viene da pensare a quel contadino prussiano che, litigando col re Federico il Grande per un suo arbitrio, a un certo punto ammonì il sovrano dicendo «ci sarà pure un giudice a Berlino!». Washington invece, con tutta evidenza, ne è carente.

Gheddafi all'Aja
L’uomo della strada, dotato del suo “buon senso” pratico che comunque non sempre opera a 360°, quasi automaticamente vede con soddisfazione giustizialistica il deferimento di Gheddafi, di suo figlio Saif al-Islām e del capo dello spionaggio libico ‘Abdallāh al-Senussi alla Corte Penale Internazionale, magari concludendo che “almeno per qualcuno c´è giustizia a questo mondo”. Purtroppo le cose non sono così semplici, sul piano della coerenza etica e su quello giuridico. Il primo di essi ci fa subito osservare che quando la spinta a quel deferimento proviene dal mondo imperialistico (che ne ha fatte, ne fa e ne farà di cotte e di crude) è un’ulteriore somma manifestazione di ipocrisia propagandistica da parte di chi si ritiene il “Bene” per antonomasia. Ma tant’è! Forti perplessità intervengono sul piano giuridico in quanto qui stiamo parlando del diritto internazionale borghese e non della giustizia rivoluzionaria: il primo ha i suoi formalismi volti a tutelare l’inquisito e a dare trasparenza e linearità all’iter processuale; mentre la seconda punta a difendere le classi oppresse, e in ragione del fine ha una diversa ontologia giuridica e anche il suo aspetto formale è rapportato al fine perseguito. Al di fuori da quest’ultimo ambito i profili riguardanti giurisdizione e competenza sono i primi a essere fondamentali per la correttezza del procedimento. Ciò detto, veniamo alle perplessità, osservando preliminarmente che la Corte Penale Internazionale non va confusa con la Corte Internazionale dell’Aja, che dipende dall’Onu.
Infatti l’organismo che dovrebbe giudicare Gheddafi è nato da un’iniziativa pattizia di alcuni Stati promotori, a cui poi hanno aderito altri paesi. Come per tutti i trattati internazionali il processo di adesione passa per due fasi: la firma e poi la ratifica del parlamento nazionale. Lo Statuto della Corte é entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010. La Corte è dotata di giurisdizione sovranazionale - accettata dagli Stati aderenti – riguardante individui (non già gli Stati come soggetti) sospettati di essere responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l'umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, aggressione. Non si tratta della totalità di siffatti crimini, cioè ovunque e da chiunque compiuti, bensì di quelli commessi sul territorio di uno Stato firmatario e/o da uno o più residenti di uno Stato firmatario, nel caso però che lo Stato teatro dei crimini, o in cui siano residenti gli imputati, non possa o voglia agire in base alle proprie leggi.
Gli Stati aderenti sono più di cento ma – oltre a non farne parte Usa, Cina, Russia, Israele - non ne fa parte nemmeno la Libia! Qui evidentemente c’è qualcosa che non quadra sul piano della correttezza giuridica. Gheddafi ha forse commesso reati di competenza della Corte Penale Internazionale nel territorio di uno Stato firmatario? La domanda si impone poiché, non avendo aderito la Libia agli accordi sulla Corte, i reati commessi da Gheddafi in territorio libico non contano per farne scattare la giurisdizione. In astratto gli sconfinamenti e i cannoneggiamenti in territorio tunisino potrebbero essere presentati come atti di aggressione, ma al riguardo esistono due problemi: da quel che si sa in base ai mass-media le accuse a Gheddafi & C. riguardano la repressione in Libia; e poi c’è il fatto che anche la Tunisia non ha ancora riconosciuto la giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Dobbiamo concludere nel senso di una tragica sceneggiata? Non sarebbe una novità: si consideri che la Prima guerra del Golfo fu effettuata in totale dispregio dello Statuto dell’Onu sugli interventi militari per la tutela della pace; e la Seconda guerra ancor di più.
Alla fine dei conti resta valido il vecchio principio per cui è meglio o giustiziare i nemici sconfitti senza tante formalità o – quando conviene - sottoporli alla giustizia ordinaria del loro paese, piuttosto che impostare pesudoprocessi dalla dubbia o nulla giuridicità, con il rischio poi che qualcuno si impegni a spacciare degli autentici macellai come vittime di ingiustizie processuali.

Ha mai avuto qualcosa di socialista la Siria?
In Italia non manca chi ancora ritiene la Siria del Partito Socialista Bāth (“resurrezione”, in arabo) un paese socialista, e per qualcuno addirittura si tratterebbe di una piccola Cuba (evidentemente mantenendo un’idea positiva sul paese di Castro). Nulla di più sbagliato. Del motto programmatico del Bāth - “Unità araba, libertà socialismo” – sono rimaste solo le parole di una vuota “formula politica” da cui non proviene più alcuna forza legittimante. Vediamone i singoli elementi.
L’unità araba mettiamola da parte, poiché da un pezzo appartiene ai miti del secolo scorso, tant’è che nei fatti ormai risulta del tutto assente. La libertà resta un desiderio dei Siriani, di non facile realizzazione nel quadro del regime baathista e dell’attuale situazione internazionale. Il regime è sostanzialmente a partito unico, con al vertice un Presidente-dittatore; pratica una politica interna poliziesca sostenuta da una rete di servizi di sicurezza i quali – attraverso i collegamenti regionali con i locali segretari del partito e con i comandi di polizia - controllano un paese in cui dal 1963 è in vigore la legge marziale. Una cura particolare è stata conferita allo sviluppo delle forze armate e delle formazioni paramilitari, costituite da personale legato al clan del Presidente. Si va dalla brigata Sarayyat al-Difa‘ā (Brigata di Difesa), creata molti anni fa da Hafiz al-Assad, con 50.000 uomini e migliaia di mezzi blindati e armamenti nel complesso superiori a quelli dell’esercito regolare, fino alla potente Mukhabarat, la polizia segreta.. Come in tutte le dittature essere membri del partito è indispensabile, ma farsi strada al suo interno non è cosa per tutti, dipendendo dalla capacità di elargire le dovute “mazzette” (bakhshish) a chi di dovere; e spesso e volentieri il cittadino-suddito ottiene pagando quel che gli dovrebbe spettare senza spese.
Riguardo al socialismo, infine, è meglio lasciare perdere, giacché fino agli anni ’70, cioè fino all’epoca in cui Hafiz al-Assad salì al potere, si è trattato al massimo di statalizzazioni e dell’instaurazione di una forte centralizzazione del sistema economico, senza però che si sradicasse il capitalismo e che comparisse anche l’ombra di una democrazia del lavoro.

La svolta di Hafiz al-Assad
Nel decennio precedente all’avvento di Hafiz al-Assad, in Siria era stata attuata una politica impostata sulla rigida statalizzazione del settore industriale, sulla pianificazione e sulla riforma agraria, con la conseguente riduzione ai minimi termini della grande borghesia industriale. Si erano però aperti spazi che consentirono alla piccola borghesia artigiana e commerciale di acquisire un ruolo emergente destinato poi a svilupparsi, diventando questo ceto una consistente base di appoggio per il regime, grazie al sostegno di Hafiz al-Assad. Egli inoltre interruppe il processo di riforma agraria, consentendo anche nelle zone rurali la riformazione di una borghesia agraria che protesse burocraticamente mediante l’accesso agevolato al credito, e riservando un trattamento diverso ai contadini beneficiari della riforma agraria i quali, privi dei necessari capitali e meno favoriti nel loro conseguimento, spesso e volentieri hanno dovuto cedere o affittare le terre attribuite loro.
Queste due borghesie – l’urbana e la terriera (in buona parte cristiane e sunnite) - si sono legate alle strutture del regime attraverso un vasto circuito di reti clientelari. Al di là delle parole d’ordine socialiste, l’assetto politico/materiale della Siria è dominato da una cuspide sultanal/patriarcal/dittatoriale incarnata dal Presidente della Repubblica, oggetto di un diffuso culto della personalità, che si avvale di forze armate e apparati repressivi, clientele (personali, di clan, di gruppo religioso, etc.) e centri di corruzione. Lo strumento della pianificazione economica (sancito dalla Costituzione del 1973, che definisce l’economia siriana “socialista pianificata” con l’obiettivo di eliminare in radice ogni forma di sfruttamento) in concreto ha operato più nel senso del rafforzamento del potere e della captazione di consensi sociali, che non come fonte di impulso per lo sviluppo economico.
Morto nel 2000 Hafiz al-Assad, ne ha preso il posto il figlio Bashar che si è trovato a governare uno Stato con un settore pubblico sovradimensionato ma poco efficiente, con un’industria non competitiva, con una massa crescente di cittadini in giovane età e in prospettiva con forti problemi di disoccupazione. A quel punto o si riprendeva la strada abbandonata dal vecchio Assad, o si puntava a un socialismo diverso e più effettivo, oppure ci si orientava verso forme di liberalizzazione dell’economia.

La "liberalizzazione" di Bashar al-Assad
Bashar al-Assad ha scelto la terza soluzione avviando un vasto programma di privatizzazioni, pur mantenendo il sistema economico sotto il controllo statale. A tutt’oggi la maggior parte degli investimenti sono pubblici e nella pianificazione economica un posto di primaria importanza spetta all’agricoltura (che occupa il 30% della popolazione, e copre almeno il 22% del Pil), perseguendo il governo l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare. Gli investimenti stranieri hanno riguardato – oltre al settore turistico – l’industria meccanica ed elettrica e poco l’agricoltura. Le delocalizzazioni dall’estero verso la Siria hanno interessato la componentistica elettronica e meccanica, e la casa automobilistica iraniana Saba vi ha anche aperto alcune fabbriche.
Bashar al-Assad è diventato Presidente nel 2000, e già nel 2001 aveva aperto ai privati il sistema bancario – monopolio statale ai tempi del padre – e agli stranieri per quote di capitale non superiori al 49%, ma lasciando allo Stato un controllo statale alquanto stretto (lo Stato ha mantenuto la proprietà di 2 banche, la Banca Commerciale e la Banca Industriale). Comunque è rimasto il deficit di capitalizzazione delle banche siriane con ricadute negative sulle linee di credito, tanto che per molti imprenditori è preferibile rivolgersi alle vicine banche libanesi. Aprire l’economia all’esterno, oltre a consentire investimenti stranieri, implica sempre mettere le proprie merci in concorrenza con quelle estere, cosa non sempre positiva, come nel caso siriano. La Siria, poi, ha un grosso problema in campo energetico: il paese infatti non è un grande produttore di petrolio, e oltre tutto si prevede l’esaurimento delle sue risorse fra una quindicina d’anni. Pur essendo stata una fonte di introiti di rilievo l’esportazione di petrolio, oggi la contrazione nelle vendite all’estero dipende dalle maggiori necessità del mercato interno.
La riduzione di questi introiti ha inciso molto negativamente sul sistema di sussidi sociali che aveva caratterizzato il regime baathista garantendogli ampi margini di appoggio e coesione sociale. Parallelamente, l’apertura dell’economia siriana verso l’esterno e il negativo confronto con i prezzi del mercato internazionale hanno creato una situazione socio-economica critica: di gran lunga ridottasi l’erogazione degli incentivi statali, e aumentati i prezzi interni in modo rilevante, il risultato è che stipendi prima  sufficienti a mantenere una famiglia (la media era di 100 dollari al mese) hanno perso gran parte del precedente potere di acquisto; inoltre in un paese la cui crescita demografica si aggira sul 3% annuo, è aumentata la pressione sul mercato del lavoro mentre la crescita economica negli ultimi anni si è bloccata al contrario del debito estero e oggi almeno il 30% della popolazione vive sotto il livello di povertà (il 50% dei poveri si trova nelle campagne).
L’afflusso di profughi dall’Iraq – molti dei quali ricchi – ha contribuito a fare alzare i prezzi del mercato interno. Il governo cerca di mantenere la politica dei sussidi per i ceti più poveri, ma quanto sopra detto, nonché gli effetti della crisi economica capitalista mondiale, l’aumento della disoccupazione (specie giovanile) e gli elevati livelli di corruzione – spesso con tipicità paramafiose – hanno creato una situazione sociale assai delicata.

Le difficoltà pratiche
Abbandonata ogni opzione socialista, i governanti si sono trovati alle prese con difficoltà di ordine tecnico e dalle implicazioni politico/-sociali il cui superamento appare alquanto arduo. Passare da un assetto impostato su una sorta di capitalismo di Stato e assistenzialista a una politica di liberalizzazione economica vuole dire, inevitabilmente, incidere sui consolidati interessi di ceti sociali da cui il regime trae un appoggio fondamentale. Infatti, gli strumenti repressivi servono appunto per reprimere sommosse e agitazioni, ma a basarsi solo su di essi non si ha nessuna stabilità politica e sociale. E qui Assad deve stare attentissimo, tenuto conto dell’essere espressione di una minoranza egemone (il gruppo religioso alauita) collegata con altre minoranze (cristiani, ismailiti, drusi) e con appoggi parziali (una parte della borghesia) nella maggioranza della popolazione che è sunnita.
Si pensi ad una conseguenza di fondo della politica di maggiore liberalizzazione del sistema economico: Aleppo e Damasco sono tornati a essere i maggiori centri dell'attività economica siriana, incrementando il peso di settori della borghesia sunnita, per cui è tornata a essere periferia economica la zona costiera, maggioritariamente abitata da alauiti, che aveva beneficiato di vasti finanziamenti statali col duplice scopo di rafforzare l’appoggio al regime e di integrare nell’economia siriana quella regione prima sottosviluppata ma di grande importanza geografica. Nell’insieme, oltre a ciò, c’è il fatto che voler incidere quantitativamente e qualitativamente sul settore pubblico – altro bastione del regime, perché pieno di membri e protetti degli Assad, del gruppo alauita e delle altre minoranze religiose al potere, spesso provenienti da ceti sociali poco favoriti – implica riduzioni e riconversioni di forza lavoro con effetti destabilizzanti. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la sovraesposizione del debole apparato economico siriano alla competizione esterna.

La favola dell’economia “sociale” di mercato
Al fine di rimediare allo stallo dell’economia siriana, al congresso del Bāth tenutosi a giugno del 2005 quei bravi “socialisti” hanno pensato bene di fare ricorso alla cosiddetta economia “sociale” di mercato ispirandosi a un illustre modello capitalista, quello elaborato dal tedesco Ludwig Erhard per la ricostruzione nel secondo dopoguerra. Si tratta di un modello di mercato libero rispetto al quale il ruolo dello Stato consiste fondamentalmente nel proteggere la concorrenza dalle tendenze monopolistiche e oligopolistiche. L’uso dell’aggettivo “sociale” serve a fare credere che si tratterebbe di un sistema il cui fine non è di favorire solo i ricchi, ma anche di aiutare i ceti “meno favoriti”. In base alle esperienze europee si può parlare di una bella favola che nasconde una truffa.
Ma le parole non sono mai neutre, e in politica il significato apparente serve a nascondere quello effettivo. Così, “economia sociale di mercato” è un’espressione che ha permesso ad al-Assad di abbandonare ogni riferimento sostanziale e formale al socialismo senza tuttavia pronunciare la fatale parola “capitalismo” che fa a cazzotti con la citata disposizione costituzionale. Due anni dopo gli economisti del partito “socialista” Bāth hanno pensato bene di perfezionare la formula scoprendo la partnership fra sfera pubblica e sfera privata (tašārikiyya) accomunandole in un unico settore economico nazionale “armonico”. A prescindere dal carattere illusorio di questo modello, sta di fatto che i baathisti non si sono affatto organizzati per la sua concretizzazione. Ad ogni modo il regime è riuscito nel 2010 a ridurre al 27% il debito pubblico che nel 2003 era al 127%, e per il quinquennio in corso si prevede – agitazioni politiche permettendo – una crescita del 5,5%.

Se la Turchia gioca con i Fratelli Musulmani, la Siria gioca con i Curdi
Nell’attuale subbuglio siriano gli osservatori internazionali più avveduti sono colpiti dal sostanziale silenzio della minoranza curda esistente nel paese, a parte alcune sporadiche manifestazioni di scarsa rilevanza pratica. Eppure questa comunità – sempre guardata con sospetto dalle autorità di Damasco per il fatto di non essere araba e per il pericolo di coltivare velleità separatistiche – in passato aveva dimostrato una buona capacità di mobilitazione nei confronti del regime; ma è pur vero che in questi casi ha pagato più volte il sanguinoso prezzo della repressione. Questo recente atteggiamento ha deluso anche l’opposizione anti-Assad, che per rafforzarsi contava sul contributo dei Curdi forse dandolo per scontato.
Questa ulteriore minoranza nel mosaico siriano è sicuramente di seconda categoria, trovandosi nel territorio di uno Stato che per definizione è “Repubblica Araba Siriana” ed è dominato da un partito dalla forte ideologia nazionalista. Nel 1962 il governo siriano effettuò arbitrariamente, da un giorno all’altro e senza un effettivo criterio logico, la divisione dei Curdi della regione nord-orientale di Jazireh in tre categorie di persone: una parte di essi fu dichiarata siriana a tutti gli effetti; gli esclusi dalla nazionalità vennero divisi in due gruppi ulteriori, gli “stranieri” – iscritti nei registri dello stato civile riservati ai non siriani residenti – e i “dimenticati”, in quanto non iscritti da nessuna parte.
In aprile Bashar al-Assad – dopo aver coccolato questa minoranza fin dal mese di febbraio e avere addirittura inviato personalità del regime alle celebrazioni del nawruz, il capodanno curdo, che negli anni precedenti erano state ostacolate dalle forze di repressione - ha concesso la cittadinanza siriana ai Curdi prima considerati “stranieri”. Tuttavia, molto astutamente, non ha emesso un provvedimento con efficacia immediata: cioè a dire, i beneficiari devono effettuare una serie di pratiche burocratiche presso gli uffici dello stato civile e, ai fini del positivo esito del procedimento amministrativo, è necessario l’avallo... dei servizi di sicurezza. Un ottimo deterrente contro le eventuali velleità di unirsi al variegato fronte dell’opposizione.
Esistono anche altri segnali ad attestare un mutamento (forse temporaneo) della politica di Damasco verso i suoi Curdi, e si tratta dell’autorizzazione al rientro in Siria dall’esilio del dirigente curdo Saleh Muslim Muhāmmad, presidente del Partito dell’Unione Democratica (Pyd), cioè la branca siriana – sottoposta a opportuna cosmesi onomastica – del Pkk di Abdallah Ocalan (si legge Ogialan). Inoltre Saleh Muslim ha tenuto un raduno politico senza alcun ostacolo da prte dei servizi di sicurezza siriani.
L’iniziativa di Damasco ha una valenza specifica, oltre che di politica interna, altresì nei confronti della Turchia: è il segnale rivolto al premier Recep Erdoğan affinché non dia troppo spazio in territorio turco all’opposizione siriana e soprattutto ai Fratelli Musulmani che in Siria sono fuori legge, poiché a sua volte il governo siriano può dare ai Curdi collegati col Pkk uno spazio politico sicuramente non gradito ad Ankara, e quindi fare saltare gli Accordi di Adana, conclusi fra i due paesi nel 1998 per la lotta comune contro le “organizzazioni terroriste”. Questo rappresentare alla Turchia il concetto “se tu giochi col mio nemico, io gioco col tuo” fornisce sicuramente una dimostrazione ulteriore delle ferme intenzioni di al-Assad in ordine all’attuale crisi interna, e pone un interrogativo motivato altresì dal fatto che con la Turchia è sempre consigliabile non scherzare: Bashar al-Assad sta dando prova di debolezza, o al contrario di forza?

E comunque il regime ha i suoi punti di forza
Pur con tutte le sue contraddizioni e problematiche economico/sociali, e con una serie di sommosse in atto, il regime baathista si presenta meglio piazzato dei precedenti regimi di Tunisia ed Egitto, nonché di quello libico. Innanzitutto lo statalismo e l’economia dirigista fanno sì che il paese abbia molti più dipendenti pubblici, e questo vuole dire molta più gente con posto di lavoro fisso e salario garantito; e minore é ancora oggi la massa di disoccupati, cosicché il regime può evitare situazioni come quella di Piazza Tahrir al Cairo, occupata in permanenza da una marea di gente priva, evidentemente, di incombenze lavorative cogenti.
Molto maggiore è anche il grado di coesione della classe dirigente, civile e militare, grazie al cartello delle “minoranze religiose” non sunnite e non musulmane a guida alauita già realizzato da Hafiz al-Assad. Riguardo all’ambito militare, la nutrita presenza di alauiti nelle Forze armate – che è praticamente maggioritaria tra gli ufficiali – fa sì che l’apparato repressivo “tenga”, evitando la possibilità di pericolosi embrassons nous fra militari e manifestanti. Per il suo collaudato sistema repressivo e di difesa il regime dispone di vaste risorse, considerato che per tutta la durata dell’occupazione siriana del Libano per questo apparato non si è speso praticamente nulla, essendo state caricate alla Lega Araba gli oneri di occupazione adeguatamente gonfiati per coprire le spese dell’esercito. L’ulteriore elemento su cui si basa il regime è psicologico: la paura di fare la fine di Libano e Iraq.

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