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martedì 31 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XVIII, di Pier Francesco Zarcone


BORGHESIA TURCA E BORGHESIE ARABE

La Turchia va alle elezioni politiche: perché preoccuparsi?
In ragione del già esposto ritorno della Turchia sullo scenario del Vicino Oriente ex ottomano, non è più il caso di motivare ulteriormente perché se ne parli in questa sede pur non essendo un paese arabo. Il 12 giugno i Turchi voteranno per il rinnovo del Parlamento. Grandi sorprese sul risultato finale non ce ne dovrebbero essere: si profila certa una nuova vittoria per il partito islamico Akp di Recep Tayyip Erdoğan (Adalet ve Kalkımna Partisi; Partito per la giustizia e lo sviluppo), il quale così otterrebbe un terzo mandato a governare. E questo rafforzerebbe nel mondo arabo la tendenza ad assumere la Turchia attuale come punto di riferimento per l’evoluzione democratico/parlamentare di un paese musulmano.
Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Milliyet (Nazionalità) il partito al governo si attesterebbe sul 45% dei consensi, con un leggero calo rispetto al 2007 (46,6%), mentre il suo grande oppositore – il laico e nazionalista Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi; Chp), fondato a suo tempo da Mustafá Kemal Atatürk – sarebbe sul 30% dei consensi con un incremento del 10% sempre rispetto al predetto anno.
Si ossserva però che una semplice vittoria numerica – quand’anche si tratti del 50% più uno - non basterebbe a Erdoğan, che vorrebbe varare una nuova Costituzione, sulla scia del referendum del 12 settembre 2010 che ha apportato significative modifiche al testo attuale, a maggior tutela dei diritti civili e politici e per adeguamento a quanto richiesto dall’Unione Europea. A questo fine, senza dover passare per un nuovo referendum popolare, egli ha bisogno di una maggioranza dei due terzi in Parlamento. Obiettivo che con tutta probabilità non verrà raggiunto, col risultato che sul progetto di nuova Costituzione Erdoğan dovrà impegnare una battaglia assai impegnativa, poiché già nel 2010 il fronte del “no” si era dimensionato sul 42% dei voti.
Ovviamente la partita è ancora tutta da giocare, e il panorama politico turco ha i suoi elementi di fluidità. Il Partito repubblicano del popolo non è più sotto la ventennale leadership di Deniz Baykal, messo fuori gioco da uno scandalo a sfondo sessuale tipo Berlusconi, e il suo successore, Kemal Kılıçdaroğlu (si legge più o meno “Klçdaroolu”) è di gran lunga più dinamico e ha mutato l’orientamento del partito su questioni prima combattute con rigidità dogmatiche, come i diritti della minoranza curda e la liberalizzazione nelle università del velo islamico sulla testa delle donne.
Nel quadro di questo nuovo dinamismo c’è un ulteriore fatto nuovo: secondo il quotidiano Yeni Şafak (Nuova Alba) il partito di Kemal Kılıçdaroğlu avrebbe raggiunto un accordo con il filocurdo Bdp (Barış ve Demokrasi Partisi; Partito pace e democrazia) per aiutarsi nella tornata elettorale. Manovra non priva di possibili controindicazioni poichè non tutti gli elettori del Partito repubblicano del popolo apprezzano l’oggettiva “vicinanza” del Bdp con il partito di Abdullah Öcalan, il Pkk (in curdo Partîa Karkerén Kurdîstan; e in turco Kürdistan İşçi Partisi; Partito dei lavoratori curdi). E nel partito kemalista il nazionalismo è notevolmente forte (al pari del secondo partito dell’opposizione, l’Akp, cioè il Partito di azione Nìnazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi; Mhp), legato ai Lupi grigi (Bozkurtlar).
In attesa dei risultati si può intanto considerare la partita come interna alla Turchia solo nel senso che - indipendentemente dalle eventuali simpatie personali - una nuova vittoria di Erdoğan può preoccupare in Occidente solo... chi non conosce il marxismo. E diciamo subito perché.

Una dinamica classe imprenditoriale
Gli islamofobi dell’Europa e degli Usa – pronti ad applaudire quando i militari scendono in campo quali campioni della laicismo (quindi con scarso rispetto per la libertà di idee politiche) - spesso paragonano il partito di Erdoğan a una matrioska con la bambolina esterna dall’apparenza ancora liberaldemocratica che cela all’interno una diversa e terrificante bambolina con turbante e scimitarra. In realtà il dato strutturale da cui deriva la diversità dell’Akp rispetto ad altre formazioni islamiche - arabe e non - consiste nel suo essere egemonizzato da una classe imprenditoriale (cioè borghese) solidamente inserita nella globalità del capitalismo e il cui primario interesse non consiste nel sostituire con uno Stato islamico fondato sulla sharía l’attuale Repubblica, dall’ancora forte marchio kemalista; bensì nel fare affari cospicui avvalendosi strumentalmente anche del controllo dell’attuale Stato turco.
Per questi imprenditori, col Corano in una tasca e il prospetto dei profitti realizzati e realizzandi in un’altra, diventa un elemento importante anche la tutela dei diritti umani e politici, trattandosi di una specie di volano per la migliore presentazione/esportazione del made in Turkey poiché, facendo ben apparire il paese, favorisce il turismo e spiana la strada agli affari con gli stranieri. Affari di cui beneficia – ovviamente – anche la classe politica al potere. Forse non saranno del tutto felici di questo i trinariciuti e pii islamici locali, ma la cosa non ha molto rilievo, ben sapendo capitalisti e bottegai musulmani turchi quali sarebbero le conseguenze economiche e politiche di un’ipotetica svolta islamista in Anatolia, ragione per cui finiscono col collocarsi – proprio loro - su un versante di tipo dualista laico: il Corano per lo spirito e gli affari per il portafoglio.
L’intento non è quello di dir bene della borghesia turca - che sempre borghesia è, le cui connessioni mafiose e paramafiose non vanno trascurate, come pure le continue violazioni dei diritti sindacali con l’appoggio dei poteri pubblici - tuttavia non le si può negare un proprio dinamismo, talché sarebbe ingiusto inserirla tout court nella famigerata categoria della borghesia compradora, cioè essenzialmente parassitaria.
Pensare alla Turchia contemporanea induce a una riflessione di tipo materialistico: con tutta probabilità non farebbe male al mondo arabo – ai fini di un sempre maggiore contenimento del fanatismo religioso, e dell’estremismo salafita (fenomeni in buona parte di ripiego, a fronte di certe situazioni economiche, sociali e politiche) - l’avvento di borghesie vere e proprie al posto degli attuali ceti vampireschi che di nessuno stimolo sono allo sviluppo delle economie e delle culture nazionali. D’altro canto, in Europa l’oscurantismo religioso non fu sconfitto dai ponderosi scritti di filosofi e polemisti atei, agnostici, liberi pensatori ecc., quanto e soprattutto dagli effetti esistenziali della società borghese nelle sue varie fasi di sviluppo produttivo.
Sul piano culturale specifico dell’ambito turco, a quanto detto si aggiunga il grande e persistente influsso esercitato dall’Islām sufico che è lontano “varie galassie” dalla mentalità del radicalismo religioso (il che non vuole dire che esso non esista, solo che è tutt’altro che egemone e si scontra con una visione del’Islām più aperta e maggiormente culturale e sociale invece che politica).

Turchia come Italia: due destre e niente sinistra
Spazzate via le formazioni di sinistra, particolarmente dopo i colpi di stato militari del 1971 e del 1980 – che hanno sferrato terribili e sanguinosi colpi alla sinistra turca, politica e sindacale, da cui non si sono ancora riprese - oggi in Turchia esistono due grosse formazioni definibili di destra, o centrodestra (termine che alla fin fine non dice molto di più rispetto al primo): il Partito repubblicano del popolo e l’Akp di Erdoğan. Il Prdp ha mantenuto vari tratti del kemalismo originario, e su questo aspetto vanno spese alcune parole illustrative. Mustafá Kemal ha realizzato un’opera gigantesca che va dall’abolizione del sultanato e del califfato all’occidentalizzazione del sistema giuridico, dall’introduzione dell’alfabeto latino in sostituzione dell’alfabeto arabo sacralizzato dal Corano all’emancipazione della donna e a questioni apparentemente di dettaglio, ma invece psicologicamente di rottura come l’abolizione del fez per gli uomini ecc. L’effetto più incisivo delle riforme fu però essenzialmente limitato alle grandi città e non penetrò in profondità nell’entroterra anatolico, rimasto arretrato e sottoposto al dispotismo della borghesia agraria kemalista (basta leggere i romanzi di Yaşar Kemal ambientati in quell’epoca per rendersene conto). Inoltre ha operato con somma brutalità presentando tratti affini al fascismo che si manifestano non da ultimo nell’aver creato uno Stato militare in cui l’esercito è pesantemente intervenuto nella vita politica ordinaria ben tre volte (1960, 1971 e 1980). In più ha lasciato vari problemi che risalgono all’epoca dei Giovani Turchi.
La turchizzazione linguistica era tappa obbligata a motivo della disomogeneità etnica della popolazione, ma è stata dogmatizzata e imposta con la forza: e i Curdi tali sono rimasti, anche linguisticamente al di là della mistificante categoria di “Turchi della montagna” inventata dalla propaganda ufficiale. L’espulsione di Armeni (superstiti) e Greci ha posto fine all’antico multiculturalismo della società ottomana, gli appartenenti alle minoranze sono state espulsi dagli impieghi governativi e la difesa brutale del laicismo kemalista è stata sovente presentata come segno di un inesistente progressismo, mentre più giustamente, proprio in Turchia, qualcuno ha parlato di occidentalizzazione con le baionette e di laicità giacobina..
Tutt’altro che di sinistra sono Erdoğan e l’Akp, ma sia il premier sia il suo partito si sono dimostrati meno ottusi del versante laico-kemalista e se ovviamente non hanno fatto “cose di sinistra”, si sono distinti per cose che avrebbe dovuto fare un partito progressista: dall’apertura all’Europa (mal vista da militari e kemalisti) fino alla riforma della Costituzione per togliere ai militari e alle corti marziali i poteri quali custodi della laicità dello Stato, e all’abolizione del divieto di celebrare il Primo Maggio e di manifestare per esso. Sui problemi sociali (disoccupazione, povertà, diritti del lavoro, ecc.) il Prdp finora si è distinto per il suo assordante silenzio, come si suol dire.
I curdi hanno il loro partito di riferimento, le altre minoranze (piccole a dire il vero, a parte gli aleviti) no, ma è sintomatico che dopo aver fatto l’esperienza del kemalismo, del postkemalismo e del partito islamico di Erdoğan, tra cristiani ed ebrei stia aumentando il favore proprio per l’Akp dal quale si aspettano (e non del tutto a torto) il miglioramento della loro situazione nel quadro di una linea politica che ormai viene definita da molti “neottomana”.

C’è borghesia e borghesia: quella turca lo è davvero.
Non va mai trascurato il fatto che l’ambito in Occidente definito “turco”, per la storia e cultura plurisecolare costituisce un mondo a sé stante rispetto ai paesi cosiddetti arabi, ragion per cui non dev’essere considerato ricorrendo a parametri e categorie utilizzabili per questi ultimi; né tantomeno gli vanno applicate analisi socio-economiche effettuate sulla base di contesti arabofoni. In primo luogo va tenuto conto che il processo – politico e sociale – di formazione della Repubblica turca in realtà trova i suoi albori nella più acuta fase di declino dell’Impero ottomano prima della Grande guerra.La rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 ne ha posto le premesse politiche. All’epoca l’Impero non era ancora dominato dal sistema economico capitalistico, ma possedeva una sua borghesia – commerciale ma anche industriale, seppure agli inizi – formatasi però essenzialmente nell’ambito delle minoranze armena e greca; non c’era una borghesia turca. Parallelamente, nella loro ribellione al potere del sultano Abdul Hamid, i Giovani Turchi contrapponevano alla sua politica sintetizzabile nello schema “ottomanismo e religione islamica” un nuovo corso basato sull’opposto binomio “nazionalismo turco e laicità”.
Il nazionalismo turco doveva per forza entrare in rotta di collisione con la borghesia armena e greca, e operare per la formazione di una borghesia nazionale che fosse definibile turca, quanto meno linguisticamente (sull’individuazione di un’etnia turca nell’Impero ottomano ci sarebbe molto da discutere, ma non è questa la sede). Da qui anche la politica di forte restrizione nei confronti delle varie minoranze del paese, etniche e linguistiche (le minoranze etniche sono Curdi, Lazi, Albanesi, Circassi, Arabi, Armeni, Greci, Ebrei; a parte i Curdi, molti dei quali non parlano turco, le altre minoranze hanno conservato come seconda lingua la propria originaria; così oggi in Turchia si parla anche abcaso, albanese, arabo, armeno, azero, bosniaco, bulgaro, circasso, georgiano, greco, giudeo-spagnolo, laz, macedone, polacco, russo e zazako).
Sul piano politico la differenza fra borghesia greca e armena stava nel fatto che la prima - soprattutto dopo la formazione del regno di Grecia - godeva di appoggi internazionali, ma quella armena no. L’accumulazione primitiva per la nuova borghesia turca fu cominciata grazie allo Stato ancora ottomano durante la Grande guerra, mediante il massacro degli Armeni in Anatolia e Siria. Quanti si accaparrarono i beni degli Armeni andarono a formare il primo nucleo della borghesia turca, che si rafforzò con la fine del sultanato e l’avvento della Repubblica kemalista. La riscossa kemalista comportò l’accaparramento dei beni anche della borghesia greca, i cui membri dovettero fuggire per salvare almeno la pelle. Questa accumulazione avvenne anche nelle campagne anatoliche, grazia al fatto che nell’Impero ottomano - detenendo il potere sultanile l’autorità suprema sulla terra - non si era formato un fenomeno similare a quello del feudalesimo occidentale (strutture parafeudali si ebbero solo in regioni del Kurdistan e del Libano); per cui anche nel retroterra anatolico si formò un ceto borghese agrario.
Inizialmente il nuovo Stato turco fu una repubblica socio-economicamente squilibrata, per la mancanza di ceti medi e con un vasto ceto di contadini poveri, rimasti tagliati fuori dall’ondata di occidentalizzazione voluta da Mustafá Kemal. Ma questa situazione non si è cristallizzata, e oggi la Turchia è a tutti gli effetti un paese capitalistico nel quale, da Kemal in poi, è stata realizzata una sorta di rivoluzione borghese mediante la costituzione di un moderno Stato nazionale, politiche di modernizzazione e di trasformazione capitalistica.
Questa Turchia capitalistica, con la sua borghesia, classi medie, aziende che esportano in Europa occidentale e in Russia – ceti e realtà maggiormente interessati alla stabilità politica e al proseguimento dello sviluppo economico che non alla creazione di uno Stato islamico – ha finito con l’incidere anche sull’islamismo locale (gli estremisti sono ovunque) determinandolo maggiormente (come dianzi detto) in senso sociale e culturale. In definitiva, per il momento la borghesia ha battuto la sinistra turca proprio sul terreno in cui quest’ultima pensava di innescare un discorso rivoluzionario: il piano del nazionalismo e dello sviluppo.
Dal golpe militare del 1980 il capitalismo si è sviluppato e ristrutturato (grazie anche all’eliminazione, fra uccisioni e lunghi periodi di carcere, di migliaia di rivoluzionari e militanti di sinistra) ed è avvenuta l’industrializzazione del paese – essenzialmente concentrata fra Istanbul, Bursa e Izmir, ma con importanti insediamenti in Egeo, Anatolia Centrale e Sudest; seppure in agricoltura sia ancora impiegato il 45% della mano d’opera. Comunque l’avvio dell’industrializzazione risale già agli anni ’30 (quindi sotto Atatürk), con il settore alimentare e quello tessile. Oggi l’economia turca è per il 60% nelle mani dei privati e per in restante 40% in mani statali o genericamente pubbliche (nei settori chiave dell’industria pesante, tessile, petrolchimica, siderurgica e metalmeccanica). Il settore agricolo tira che è una meraviglia, se si considera che la Turchia è uno dei pochi paesi al mondo ad aver realizzato l’autosufficienza alimentare e a continuare l’esportazione dei prodotti della terra. L’80% della produzione globale, però, è dovuto all’industria.
Per la borghesia turca – musulmana o laica che sia – l’integrazione nell’Unione Europea è importante per l’incremento degli scambi e per una maggiore integrazione nella globalizzazione capitalistica. Se riuscirà a entrare nell’Ue sarà un concorrente di rispetto per le economie degli altri paesi europei, e non solo per il controllo sui conflitti sociali che ha coattivamente realizzato grazie all’aiuto dei militari. Ovviamente questa borghesia, per ragioni economiche nazionali (solidità del mercato interno) e internazionali fa parte del fronte interno contrario all’indipendentismo curdo (sull’autonomia quanto meno culturale la Turchia dovrà dare spazi maggiori come prezzo di ingresso nell’Ue). È questo il motivo per cui i Curdi iracheni, pur avendo conquistato un’enorme autonomia (quasi da para-Stato) dopo la caduta di Saddam, mantengono un basso profilo nei confronti dei connazionali di Turchia. Essi ben sanno che la politica e l’economia turca non ammetteranno mai la secessione del loro Kurdistan, e che aiutare il Pkk vorrebbe dire vedere il loro territorio invaso dall’esercito turco, magari in nome di un’ottima scusa: proteggere dai Curdi la minoranza dei Turcomanni

Mondo arabo: prevalenza della borghesia “compradora”
Tutt’altra, rispetto alla Turchia, è la situazione delle borghesie arabe.
Nei paesi del Nordafrica e della “Mezzaluna Fertile” le locali borghesie si presentano infatti con connotati ben diversi (un’eccezione, quanto meno parziale, la si può trovare in Siria). Atteggiamenti nazionalisti a parte, abbondano le borghesie prone al potere politico ed economico delle potenze occidentali, unitamente a dirigenti politici – i cui interessi sono strettamente intrecciati a quelli delle borghesie nazionali, di guisa che ai nostri fini immediati possiamo accomunare tutti sotto la nota categoria di borghesie “compradoras”. Senza l’intreccio fra potere politico ed oligarchie economiche non sarebbero possibili il saccheggio delle risorse locali, il collocamento di capitali e merci esteri secondo lo scambio ineguale, l’offerta di mano d’opera a basso costo. Tutto questo fa decollare – eccome – i conti bancari di oligarchi e politici arabi, ma non le economie nazionali. Infatti ben scarso è il tasso di produzione di ricchezza per il proprio paese da parte di queste borghesie, che semmai brillano per la mancanza di visioni specifiche sullo sviluppo economico, giacché esso nutrono un’interesse relativo.
Per meglio comprendere come si sia arrivati a tale situazione si deve ricordare ancora una volta il “differenziale turco”. La repubblica fondata da Mustafá Kemal non soggiacque alla colonizzazione occidentale, né rimase nella situazione di paese dipendente dal capitale straniero che aveva caratterizzato l’Impero ottomano del secolo XIX e del primo ventennio del secolo successivo. A tale risultato molto contribuì quella che per vari aspetti può essere definita la “ombrosa chiusura nazionalista” imposta dal kemalismo.
Completamente diversa, invece, la sorte del mondo arabo a motivo delle colonizzazioni anteriori e successive al periodo ottomano; col risultato che il capitale straniero, grazie alla sua incidenza sulle economie e le politiche locali, ha fatto in modo che queste rimanessero dipendenti, sfruttabili per le risorse e la mano d’opera, e senza che si formasse una vera e propria borghesia alla maniera occidentale, in quanto alla fine avrebbe svolto un proprio ruolo concorrente. Ovviamente si sono formate le oligarchie economiche ma, senza l’appoggio interessato del capitale straniero, dei governi imperialisti e dei governi locali, più o meno militarizzati, questi ceti - tanto privilegiati quanto parassitari - non avrebbero conseguito la base materiale (economica) dei loro privilegi.