Interrogativi irrisolti
Il 25 giugno di quest’anno ricorre il 20° anniversario dell’inizio del processo bellico che ha definitivamente disintegrato la Iugoslavia producendo atroci drammi umani e un enorme disastro politico/economico. In apparenza fu il trionfo del più autistico e brutale nazionalismo etnico/religioso; tuttavia – come spesso e volentieri accade nei Balcani - scavando scavando le cose si rivelano ben più complesse e si scopre che ogni apparenza va a occultare qualcosa di segno opposto. Si è parlato di lotta etnica e di lotta religiosa, attribuendo a ciascuna di esse una valenza vuoi qualificante vuoi causale. Tutto sommato non pare che si sia molto riflettuto sull’eventualità del loro carattere strumentale o – come si sarebbe detto un tempo – sovrastrutturale.
Attribuire certi fenomeni (apparentemente decisivi) alla sfera della sovrastruttura non implica alcun giudizio di valore riduttivo, bensì un risultato interpretativo che si conferma tanto più valido quando si parla di guerre. I conflitti armati presentano sempre cause e finalità strutturali di natura economica, ma è di tutta evidenza che i loro promotori devono prima indovinare la giusta “formula politica” (nazionale, religiosa, etnica ecc.) per mobilitare il necessario numero di persone disposte ad ammazzare (a parte i delinquenti attuali o potenziali)e a farsi ammazzare.
Certo, concentrare tutta l’attenzione sulla sovrastruttura è spesso politicamente comodo per molti, tra cui i mass-media della società dello spettacolo, agevolando poi il teatrino della demonizzazione di talune parti in causa o di tutte (magari accomunandole con l’etichetta della barbarie slava congenita, come infatti è accaduto per la Iugoslavia). Questa “comodità” produce sempre l’effetto di occultare la reale natura degli accadimenti, riducendo la storia dei conflitti ai fatti bellici invece di analisi e comprensione dei “perché dei perché”.
All’inizio dei noti eventi dissolutivi della Iugoslavia, credere alle interpretazioni sovrastrutturali poteva sembrare ovvio per la mancanza di adeguati strumenti interpretativi e per il contestuale bombardamento mediatico, tanto diffuso e assordante quanto superficiale. Ma poi si è potuto verificare che determinati eventi politico/militari non erano spiegabili con le interpretazioni fornite, quando non erano addirittura in contraddizione. Per esempio, riguardo allo scenario croato/bosniaco, la tesi della volontà di Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e loro sostenitori, di annientare i musulmani locali non quadra con l’irrazionalità militare del lungo assedio a Sarajevo, essendo chiaro fin dall’inizio che il fattore tempo non giocava a favore degli assedianti, mentre costoro con un’azione più decisa e rapida avrebbero potuto conquistare la città a motivo della scarsità di armamento degli assediati. La predetta tesi nemmeno spiega perché, nonostante la propaganda sulla “grande Serbia”, Belgrado abbia lasciato che i Serbi della Krajina siano stati rapidamente spazzati via da una riconquista croata che non incontrò resistenza militare alcuna né interventi dell’esercito serbo o dei bosniaci di Ratko Mladić. Neppure trova spiegazioni comemai la conquistabilissima Dubrovnik non sia mai stata obiettivo di una seria offensiva serba. Pure “misteriosa” può apparire, con tutto il ruolo che si è dato all’odio religioso, l’alleanza realizzatasi fra i Serbo-bosniaci di Mladić e i musulmani raccoltisi attorno a Fikret Abdić. Per non parlare, infine, dell’improvviso abbandono a se stessi dei Serbo-bosniaci di Pale da parte di Belgrado.
Apparentemente solo la Croazia di Franjo Tudjman ha realizzato i suoi obiettivi nazionalisti, ma non tanto grazie al suo esercito, quanto grazie all’appoggio vaticano, tedesco e poi statunitense. E allora? Qui salta tutto un paradigma consolidato e compare il problema inerente “a cosa mirassero”, con i vari pezzi collocati e mossi sulla scacchiera iugoslava, le dirigenze serba e croata. Erano progetti nazionalistico/religiosi? O si trattava d’altro?
Il mito dei conflitti etnici
A noi sembra che di conflitti interetnici veri e propri non si possa parlare, se non al di fuori del semplificazionismo ufficiale iugoslavo che faceva automaticamente “croati” i cattolici, “serbi” gli ortodossi e “musulmani” i bosniaci musulmani. Al di fuori di ciò non vi è traccia di reali differenze etniche e linguistiche. Vi è poi da dire che a movimentare quasi un decennio di massacri non può essere stato solo il fattore religioso (che comunque un ruolo ha giocato). Si deve cercare qualcos’altro; un “altro” magari assai meno confessabile e – ahimé – trasversale alle fazioni (cioè comune ad esse), con tanti saluti agli idealisti che vengono attratti dalle mitologie politiche come le mosche dal miele.
Parlare dell’individuazione di questo “altro” implica un omaggio al lavoro di un giornalista vero e serio, Paolo Rumiz, del Piccolo di Trieste, le cui ricerche e approfondimenti hanno dato vita a una delle poche voci coraggiose in nome della verità, in contrasto con le interpretazioni correnti. Egli è riuscito infatti a dimostrare che dietro l’orchestrazione di un conflitto apparentemente etnico/religioso hanno operato concreti interessi non-geopolitici, ma criminali e di rapina funzionali all’ascesa al potere economico e politico di determinati gruppi d’interesse operanti in tutte le fazioni coinvolte.
Nel rimettere le cose a posto è indispensabile collegare eventi e interessi specifici delle classi dirigenti regionali di una Federazione ormai morta ancor prima della catastrofe. Indiscusso – ma non esplicativo della totalità di quanto è poi accaduto – risulta il ruolo di detonatore della dirigenza serba al potere potentemente aiutata da intellettuali (anche ex comunisti) diventati bardi nazionali; detonatore per lo scoppio di nazionalismi interni già in espansione, che avevano ripreso vigore riportando a contrapposizioni tipiche del periodo anteriore alla Seconda guerra mondiale. Facciamo un passo indietro indispensabile per capire.
Alla fine della guerra
Dopo il 1945 i partigiani vittoriosi diretti da Tito dovettero affrontare l’arduo compito di ricostruire un paese devastato e altresì di farlo in termini diversi da quelli che avevano modellato la Iugoslavia monarchica, la cui disgregazione con l’invasione tedesca era culminata nei terribili massacri di serbi a opera di catto-fascisti croati, musulmani bosniaci e albanesi kossovari, e poi nei contro-massacri di musulmani da parte dei cetnici serbi monarchici. La nuova Iugoslavia venne ricostruita nell’intento di superare i nazionalismi e gli egoismi locali, e non a caso l’epopea partigiana (dal ’41 al ’45) fu depurata da connotazioni regionali e sulla tragedia dei serbi fu fatta scendere un’ufficiale cortina d’oblio, per quanto nessuna famiglia serba fosse rimasta esente dai lutti. Pur tuttavia, in una fase in cui l’obiettivo primario era la costruzione del “socialismo” (cioè un regime burocratico stalinista analogo a quello dell’Urss, con alcune specificità balcaniche), irrisolta restava l’originaria storica contrapposizione fra Croati e Serbi, che la storia e la geografia hanno attestato sulle linee di confine tra i mondi culturali cattolico/asburgico e bizantino/ottomano, col risultato di porre in secondo o terzo piano la comune matrice slava.
L’intento titino di eliminare o ridurre almeno gli attriti interni nazionalistici risulta dalla ripartizione del territorio iugoslavo tra le repubbliche della federazione: nella Croazia furono inseriti territori a maggioranza serba, e nell’Erzegovina zone a maggioranza croata. Vale a dire, nel nuovo Stato non si era voluto lasciare spazio né per la “grande Serbia” né per la “grande Croazia”. Ovviamente la dirigenza titina più volte dovette fare fronte a divaricazioni fra serbi e croati, e uno dei momenti più delicati si ebbe nel 1966 con la destituzione del potente Alexandar Ranković, serbo e ministro dell’Interno. La marea umana che nel 1983 accorse a Belgrado per i suoi funerali avrebbe dovuto far capire che le tessere di quel mosaico balcanico potevano restare al loro posto solo fino a che avesse tenuto un collant supernazionale. Ma questa condizione di base stava perdendo la sua forza.
La rinascita dei nazionalismi
A quest’ultimo proposito va ricordato che negli anni ’80 era già avvenuta la rinascita dei nazionalismi nella Federazione iugoslava ed erano ricorrenti le contestazioni riguardo alle scelte del governo centrale (il presunto “socialismo iugoslavo”) e allo stesso ruolo svolto da Tito. Una particolare virulenza manifestava il nazionalismo serbo, per cui nessuno si stupì quando nel 1986 il quotidiano di Belgrado Večernje Novosti pubblicò degli estratti del Memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze redatto da un gruppo di intellettuali capeggiati dall.o scrittore Dobrica Ćosić: si trattava di un vero e proprio atto di accusa contro il regime comunista e contro Tito (peraltro di origine croata), accusandolo di attività antiserba e addirittura di avere progettato l’eliminazione dei serbi dal Kóssovo, cioè la culla storica del popolo serbo, e luogo di svolgimento della battaglia di Kóssovo Polje contro gli ottomani. Fu un testo incendiario per i suoi effetti antiunitari, e moltissimi autorevoli esponenti serbi rifiutarono di allinearvisi, tranne Slobodan Milošević, che di lì a poco si sarebbe mosso proprio secondo le linee contenute nel Memorandum.
La Slovenia fu la prima repubblica a staccarsi dalla Federazione, per motivi basati sull’egoismo economico. Questa secessione però non trovò per nulla ostile la Serbia, non interessando quella regione a Milošević e ai suoi, come dimostrò il veto serbo del 30 giugno 1991 all’invasione della Slovenia da parte dell’allora Yugoslovenska Narodna Armjia (l’esercito federale). Fece poi seguito la Croazia, e l’esercito federale – umiliato in Slovenia – si trovò a dover fare causa comune con la Serbia: da qui il precipitare degli eventi. Questo “precipitare”, tuttavia, avvenne sotto stretto controllo dei burattinai di Belgrado e Zagabria. I fatti a sostegno di quanto detto non mancano.
Caduta Vukovar nelle mani dei soldati federali, il loro comandante, generale Panić, avrebbe potuto occupare senza alcun problema anche la città di Osijek, ma fu fermato da Milošević. Tudjman dal canto suo poco e nulla fece per Vukovar, preferendo invece aprire un nuovo fronte nella bosniaca Mostar contro i musulmani.
Successivamente, per l’offensiva volta a riconquistare la Krajina di Knin, le truppe croate ricevettero rifornimenti da parte dei serbo-bosniaci di Karadžić, rimasti inerti mentre da quella zona fuggivano più di 200.000 serbi. Nemmeno le famigerate “Tigri” di Arkan si mossero. La contropartita stava nel mantenimento del controllo serbo sulla maggior parte della Bosnia e infatti i croati non hanno mai attaccato il corridoio di Brčko, che collega le due parti della Bosnia serba, anche se tagliarlo era un obiettivo realizzabile senza grossi problemi militari. Ulteriore segno della gratitudine di Tudjman si ha nel fatto che le sue truppe hanno consentito la fuga dei profughi serbi verso la Bosnia mentre massacrarli sarebbe stato uno scherzo: difatti, a Pale, Karadžić e Mladić avevano un vitale bisogno di incrementare in Bosnia popolazione serba e combattenti. In contropartita essi non hanno mai disturbarto le mire croate sull’Erzegovina. Spesso i croati hanno ricevuto rifornimenti di gasolio dai serbo-bosniaci; e questi ultimi non hanno avuto pregiudizi antislamici che impedissero loro di vendere al sindaco musulmano di Mostar obici e munizioni, come pure a fornire appoggio tattico di artiglieria contro l’attacco croato.
Il conflitto tra le classi
Varie cose invece si chiariscono col prendere in considerazione gli aspetti in un certo senso di tipo “classista” presenti nel conflitto. Nessuna lotta di classe rivoluzionaria, si badi bene, semmai lotta di classe per rapine individuali e di gruppo, nell’interesse politico-economico delle cricche al potere a Belgrado e Zagabria (ma anche a Sarajevo), e per la loro stabilità. A questo proposito è stato fondamentale il contributo analitico di Rumiz nell’individuazione dei soggetti sociali attivi e della loro prassi bellica.
Nel merito va rimarcato il conflitto geo-socioeconomico-culturale fra montanari e valligiani (e/o cittadini urbani), spesso entrambi appartenenti allo stesso gruppo cosiddetto etnico; come è accaduto a Sarajevo, dove i serbi della città si sono opposti anche con le armi ai serbi assedianti, per lo più montanari. Nelle città a questo conflitto si è affiancato quello fra gli abitanti di vecchia data (gli starosedoci) e gli inurbati di recente, venuti da altre zone più povere (i došliaci), che non si erano affatto integrati fra di loro, anzi. In particolare montanari e neoinurbati si caratterizzavano per un’accentuata chiusura “tribalistica” e per un astio arcaico – a volte diventato odio – verso valligiani e cittadini. Al che viene da interrogarsi su cosa sia stato fatto nei 35 anni precedenti per favorire nel paese la formazione massiva di una comun e coscienza socialista e per combattere le chiusure culturali e sociali tradizionali.
A un’attenta analisi della prassi bellica risulta che nella ex Iugoslavia la “pulizia etnica” è stata in realtà la copertura per una vasta “pulizia sociale” nel corso della quale montanari e neoinurbati hanno effettuato una loro “accumulazione primitiva” criminale, con la conseguenza di far scomparire dalla scena sociale ceti medi poco propensi a fungere da massa di manovra per gli interessi delle dirigenze di Croazia e Serbia. Non si tratta di una novità storica, perché a ben vedere un’ccumulazione primitiva del genere fu fatta in Anatolia durante la Grande guerra con il massacro degli Armeni, e negli anni successivi a questo conflitto con l’espulsione dei Greci: lì e all’epoca si trattava di fare nascere una borghesia turca che prendesse il posto che, nell’Impero ottomano, avevano tenuto le borghesie armena e greca.
In concreto è stata frantumata e dispersa tutta una possibile classe dirigente alternativa; certo non avanguardia di una rivoluzione sociale, ma comunque alternativa alle esistenti nomenklature boiarde (a suo tempo definite la “nuova classe” da Milovan Đilas). Si è quindi concretizzato un vasto fenomeno di espulsione di ceti produttivi e intellettuali serbi a opera di serbi, e croati a opera di croati, se refrattari alla mobilitazione attorno al “duce” locale (Tudjman o Milošević). Per contro è sorto un nuovo ceto emergente arricchitosi d’improvviso e in modo enorme. Nuovi ricchi divenuti tali grazie a rapine, espropri illegali e omicidi entro il gruppo di origine e al di fuori. Da qui anche il proliferare delle mafie impegnate a realizzare profitti ultramiliardari col traffico di armi, combustibili e materiali vari anche con gruppi armati, teoricamente nemici a oltranza. Si pensi alla mafia croato-erzegovinese, o alla mafia serba arricchitasi con gli aiuti agli assediati di Sarajevo. Si pensi che il lungo e inconcludente assedio serbo a Dubrovnik è stato preziosissimo per l’entourage di Tudjman: infatti in quel periodo, crollato il turismo, si ebbe un ovvio crollo del locale prezzo degli immobili, in seguito comprati a quattro soldi dai finanziatori della campagna elettorale dello stesso Tudjman.
Ecco perché riesce difficile dare torto a Rumiz quando – dopo un’ampia visione del declino morale in cui erano cadute le dirigenze (regionali e nazionali) della Iugoslavia ancora ufficialmente “comunista” – ha definito la guerra, dal ’91 in poi, il prolungamento di una precedente tangentopoli diffusa; cioè la parte integrante di una vasta operazione gattopardesca - ma criminale in sé e nei metodi - per un radicale cambiamento affinché nulla cambiasse negli assetti di potere. I dati a suffragio ci sono, perché dopo l’enorme arricchimento per rapina degli anni ’80, dal ‘90 in poi le nomenklature iugoslave si erano arricchite in modo spropositato grazie a un clima idoneo ad attribuire copertura patriotica al crimine economico-finanziario.
Senza vincitori o vinti
Alla fine del discorso di vincitori non è che se ne vedano molti, a parte le cricche locali che non hanno più problemi da parte delle cricche di altre repubbliche. I musulmani bosniaci sono i più disastrati, dopo aver dovuto combattere contro serbi e croati; il loro Stato è ora forzatamente federato (dagli accordi di Dayton del 1985) con i nemici di ieri (ma anche di oggi e probabilmente di domani) ed essi usciranno dall’arretratezza solo con un intervento divino. La Serbia ha visto crollare il suo sogno di unità fra i Serbi, è parzialmente isolata e la sua sola consolazione sta nel fatto che le varie ondate di profughi dalla Croazia, dalla Bosnia e poi dal Kóssovo, l’hanno meglio compattata in termini di omogeneità della popolazione. Ma al momento non ha un ruolo politico di rilievo nell’area.
Le forze armate iugoslave non ci sono più, ma il loro insieme è sfuggito a processi di ridimensionamento altrimenti inevitabili: semplicemente si sono divise fra i nuovi Stati indipendenti, ma senza che nessun settore abbia perso alcunché in termini di risorse e carriere. Per la gioia spirituale del Vaticano, ed economica della Germania, a vincere è stata la “grande Croazia” che si è in concreto realizzata con l’espulsione dei serbi dal suo territorio e per il fatto che la repubblica croata della cosiddetta Federazione bosniaca è un fantoccio nelle mani di Zagabria.
Resta però il fatto che a perdere è stata l’intera parte slava meridonale dei Balcani, in quanto dopo tanto sangue versato ora esiste una pleiade di Stati mafiosi, a cui di recente si è aggiunto il Kóssovo dell’Uck,e dalla Iugoslavia si è passati alla frantumazione in tanti micromercati dalle ben scarse prospettive autonome. Comunque il futuro è sempre pieno di incognite e nei Balcani, oltre che per i paesi stranieri intervenuti nel conflitto iugoslavo, c’è sempre spazio per i giochi di altre potenze, fra cui oggi Russia e Turchia.
Fra le molte amarezze c’è, non da ultima, anche quella derivante dall’assenza di significative difese di qualsivoglia opzione socialista nel corso del conflitto. Poco é durato il sogno incarnato da Tito, e ancora manca una seria analisi valutativa di quanto sia stato fatto e non sia stato fatto per dargli reale consistenza. Al riguardo il mero buon senso porta a dire – nulla nascendo dal nulla – che quando i progetti di costruzione di un mondo nuovo crollano malamente, e torna nella sua forma peggiore il passato come se nulla fosse poi accaduto, allora dev’esserci una qualche corrispondenza fra il cattivo – o addirittura inesistente - raccolto finale e la semina prima effettuata.
Foto tratte dal sito http://laguerradeyugoslavia.wordpress.com/