Mentre si prolunga il sanguinoso intervento della Nato senza che se ne vedano risultati tangibili, approfittiamo per riflettere – e magari trovare qualche spiegazione – su un aspetto ogni tanto presente nei mass-media nostrani, senza però essere accompagnato da soverchie specificazioni: ci riferiamo alla possibilità che l’azione della Nato porti alla fine a una divisione della Libia. Poiché in genere la divisione di un paese o è artificialmente imposta oppure corrisponde a già esistenti fratture (economiche, sociali e politiche), è presumibile che qualcuno abbia la curiosità di sapere a quale tipo corrisponderebbe la fine dello Stato unitario libico. Per rispondere occorre fare un pochino di storia; essa ci aiuta a capire perché la Libia sia considerata un “paese senza Stato” (questione che include il già citato tribalismo, ma va al di là).
L’invenzione italiana della Libia
Prima dell’aggressione colonialista dell’Italietta giolittiana, nel 1911, nessun abitante della regione (formalmente appartenente all’Impero ottomano) immaginava di essere un libico. Il paese era suddiviso nelle tre villayet di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan: una ripartizione amministrativa intelligente perché salvaguardava il peculiare modo di essere di ciascuna provincia ormai storicamente consolidato. La Tripolitania era tradizionalmente orientata verso la Tunisia, soprattutto meridionale; nella Cirenaica era consistente l’influsso del confinante Egitto; e il Fezzan gravitava nell’orbita sahariana, con particolare riguardo al Ciad. Con la conquista italiana fu riesumato il nome romano di Libia per designare il governatorato unitario che alla fine inglobò tutto il territorio conquistato dall’Italia..
La grande resistenza beduina alla colonizzazione italiana ebbe come epicentro la Cirenaica, fu organizzata dalla confraternita religiosa dei Sanussi che vi costituì un emirato islamico, da vari storici considerato il primo vero e proprio embrione di Stato nella regione. A tale confraternita appartenne il grande eroe della resistenza antitaliana, ‘Umar al-Mukhtar.
Quando nel 1951 – terminata l’occupazione anglo-francese che fece seguito alla sconfitta dell’Asse in Nordafrica - l’ex colonia italiana ottenne l’indipendenza, Gran Bretagna e Stati Uniti optarono per la costituzione di uno Stato monarchico e ne dettero il trono a Idris al-Sanussi, l’ultimo capo della confraternita, riparato in Egitto durante l’occupazione italiana.
Dalla monarchia alla dittatura
Indipendentemente dal prestigio della Sanusía, non si trattò di una scelta felice, in particolare perché era troppo smaccatamente targata “Cirenaica”, in un paese ancora poco “libico” e in cui il 68% della popolazione era in Tripolitania, e solo il 27% in Cirenaica. Inoltre durante il suo breve regno (1951-1969) Idris commise a sua volta l’errore di favorire in modo eccessivo la Cirenaica, in cui era ubicato il cuore della Sanusía. Ma lo stesso Re era consapevole dei rischi inerenti a tale favoritismo tant’è che nel 1967, a un alto ufficiale britannico che si impegnava a costituirgli il migliore esercito del mondo arabo rispose di no, poiché questo gli avrebbe assicurato la detronizzazione. Poi avvenuta nel 1969 proprio a opera dell’esercito.
Il golpe antimonarchico riuscì grazie agli ufficiali appartenenti alla tribù degli Uarfala, che aveva come “cliente” (per così dire) la povera tribù dei Khaddafa, di cui è membro il famigerato raís di Tripoli. Verso la fine degli anni Novanta i rapporti fra queste due tribù si alterarono notevolmente, e oggi il Consiglio rivoluzionario di Bengasi accusa Gheddafi di tenere come ostaggi esponenti dei Uarfala per assicurarsi che tale tribù non lo colpisca alle spalle.
Tripoli e Bengasi
Il contrasto fra Tripoli e Bengasi (il maggior centro della Cirenaica) ha costituito una costante della storia libica dall’indipendenza in poi, e contrasto vuole dire rancori. Infatti, a partire dal 1973 Gheddafi ha praticato una violenta politica anticirenaica, cercando di distruggerne la memoria storica sanusita. Libri, documenti e archivi della confraternita furono bruciati (terribile per la storia della cultura la distruzione di almeno 8.000 manoscritti contenuti nella Biblioteca Sanusita di Jarabub), e l’epurazione non lasciò indenni nemmeno le Università di Tripoli e Bengasi né la Biblioteca Nazionale.
La stessa venerazione per ‘Umar al-Mukhtar fu manipolata da Gheddafi, come risulta dal film Il leone del deserto voluto dallo stesso dittatore libico (film che la censura ha negato al pubblico italiano per vilipendio delle gloriose Forze armate nostrane). In un’opera storicamente abbastanza fedele colpiscono il silenzio più totale sull’appartenenza del Mukhtar alla Sanusía e alcuni falsi per mettere in cattiva luce la confraternita. E in più lo stesso Gheddafi presentatosi a Berlusconi ostentando sul petto la foto di ‘Umar al-Mukhtar, a luglio del 2000 ne aveva fatto distruggere il santuario a Bengasi per punire quella città che era stata teatro di agitazioni.
C’è quindi da chiedersi se l’adozione dell’antica bandiera della monarchia sanusita da parte dei ribelli cirenaici sia espressione di una rinnovata vocazione monarchica oppure di un intento egemonizzante, suscettibile di trasformarsi in separatismo.
Ombre sulle prospettive unitarie
La definizione di “Paese senza Stato” funziona non solo per la forte frammentazione tribale della società libica, o per la debolezza delle strutture statali dell’entità politico/istituzionale creata da Gheddafi, ma anche per la disunione fra Tripolitania e Cirenaica (dove esiste la maggior parte del petrolio libico). In questo contesto l’apertura di un’ambasciata di Francia a Bengasi e la decisione dell’ente petrolifero Agoco (con sede in quella città) di esportare petrolio per finanziare la rivolta possono costituire altrettante tappe centrifughe a cui altre se ne potrebbero aggiungere se la caduta della Tripolitania dovesse ulteriormente essere procrastinata, ovvero se al posto di Gheddafi si instaurasse un potere tripolitano sufficientemente forte.
Cosa sta combinando la Nato?
Qui non parliamo della mancata sconfitta di Gheddafi dopo più di 8.400 attacchi occidentali, bensì del fatto che nel 40% di essi – secondo quanto riferito da Rolando Segura, inviato del canale tv sudamericano TeleSUR - sarebbero state usate le famigerate bombe all’uranio impoverito, come in Iraq e nell’attacco alla Iugoslavia per appoggiare i Kossovari.
Se la cosa fosse vera, ancora una volta l’ipocrisia dell’imperialismo opererebbe a tutto campo in termini criminali. Infatti, l’intervento non era finalizzato alla difesa delle popolazioni civili? Ebbene, bombe e munizioni all’uranio impoverito sono armi i cui effetti colpiscono a lungo proprio le popolazioni civili. Esplodendo producono una temperatura di almeno 10.000 gradi centrigradi e liberano polveri radioattive notevolmente tossiche suscettibili di viaggiare per migliaia di chilometri, contaminando l’ambiente per milioni di anni (secondo gli esperti) e colpendo le popolazioni per generazioni e generazioni con cancro ai polmoni e alle ossa, lesioni all’apparato renale e a quello digestivo, malattie neurovegetative e malformazioni congenite.
Non esiste un trattato per la messa al bando di questo munizionamento. Ma seppure esistesse gli Stati Uniti non lo sottoscriverebbero. Tuttavia, anche a prescindere da ciò, Carla dal Ponte (nota come Procuratore capo del Tribunale Penale per la ex Iugoslavia) giustamente sostenne che nella sostanza l’uso bellico dell’uranio impoverito configurava gli estremi del crimine di guerra. Purtroppo fa ancora parte dei sogni l’eventualità di assistere a una “Norimberga” per gli Usa.
Se cade o viene ucciso Gheddafi, godranno anche le banche estere
Al riguardo l’agenzia d’informazione portoghese Lusa ha interpellato esperti in flussi monetari, riciclaggi e occultamenti di capitali ottenendo risposte univoche per l’ipotesi di morte o incarceramento di Gheddafi: vale a dire che in questa ipotesi per il popolo libico si verificherebbe un “ammanco perfetto” stante l’impossibilità pratica di individuare e recuperare i fondi investiti da Gheddafi all’estero se non si mettono le mani sull’archivo finanziario del raís o, in alternativa, sul responsabile dei suoi investimenti, facendolo parlare; ma a condizione che egli sia a conoscenza della totalità delle operazioni effettuate e quindi dei loro singoli passaggi: cioè a dire, semprecché non abbia affidato a un apposito responsabile la parte esecutiva. Infatti, è stato fatto presente alla Lusa che gli investimenti libici sono stati effettuati su prodotti finanziari molto complessi a cui si uniscono successive e articolate operazioni di depistaggio.
Ciò vuole dire che se scompaiono l’investitore e il suo agente principale e controllore del processo – tanto più se le relative operazioni sono state effettuate in segreto – allora i soldi investiti restano senza padrone e a fruirne senza controlli di sorta saranno le banche depositarie.
Anche il dittatore yemenita se ne va; tuttavia...
L’uscita di scena del presidente Ali Abd Allah Saleh, insieme al primo ministro e al presidente del parlamento, non viene salutata serenamente e con gioia fuori dallo Yemen, per il semplice motivo che segna l’inizio di una pericolosa decomposizione armata di quel paese. In un articolo apparso sul quotidiano portoghese Público il 6 giugno Ana Gomes Ferreira ha utilizzato una definizione sintetica ma precisa di quello che è da lunghissimo tempo lo Yemen: un insieme di «tribù con una bandiera». Il vero problema del paese sta qui. La monarchia prima, e le dittature repubblicane poi, hanno sì contribuito ad aumentarne la fragilità sociale ed economica e quindi l’instabilità ma, se le cause di questa situazione fossero tutte e solo lì, la caduta di Saleh vorrebbe dire inizio di un processo risolutivo.
Ma così non sarà a motivo della riottosità delle tribù a vivere sotto una legge che non sia la loro. Intanto, nonostante la partenza di Saleh, gli appelli al cessate il fuoco da parte del presidente interinale Abd Rabbih Mansur Hadi non hanno avuto esito, e non si possono escludere – in prospettiva – né un golpe militare per cercare di salvare il salvabile, né lo scatenarsi di lotte per il potere in seno alle Forze armate che, intrecciandosi con le rivolte tribali, finirebbero con la somalizzazione del paese. Sul quale incombe nitida l’ombra di al-Qaida.
I problemi politici yemeniti
Parlare di possibile somalizzazione del paese vuol dire esprimere un possibile risultato reale che i problemi politici yemeniti prefigurano, almeno a parità di situazione. Si tratta di problemi enormi e dotati di un potenziale distruttivo di rilievo: al sud (malamente unito al nord) il movimento separatista è in espansione; al nord infuria la rivolta sciita della tribù degli Houthi; al di fuori delle città le tribù inglobano il 75% della popolazione, e sono egemonizzate (ma non unificate) da due potenti confederazioni, quella degli Hashid – capeggiata da Sadiq al-Ahmar, fratello del massimo esponente del partito islamista Islah, Hamid al-Ahmar, del quale sono note le ambizioni presidenziali - e quella dei Bakīl, finora entrambe sul fronte anti-Saleh. Ma dopo? I Bakīl appoggeranno o combatteranno le aspirazioni di Hamid al-Ahmar?
Tutto questo, però, non completa il quadro: ci sono in campo i capi delle tribù che subiscono l’egemonia degli Hashid e dei Bakīl, e che vorranno accrescere il loro potere; i generali schieratisi con l’opposizione che ambiscono al posto lasciato vacante di Saleh; i partiti politici (ma essenzialmente urbani); e per finire le velleità del primogenito di Saleh, rimasto appositamente in Yemen per cercare di incidere sulla transizione in senso “continuista”.
Come si vede, la “carne al fuoco” è tanta, come pure il rischio che si bruci tutto.