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domenica 29 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XVII, di Pier Francesco Zarcone


DA MISTER OBAMA ALL’EGITTO

Mister Obama e i confini del ‘67
Il fatto del giorno è indubbiamente la svolta verbale di Obama sulla necessità che Israele torni ai confini del 1967, cioè anteriori alla Guerra dei 6 giorni. Dal punto di vista formale è una virata di rotta notevole nel quadro della storia diplomatica statunitense sul problema palestinese poiché - per quanto nel merito corrisponda a precise risoluzioni dell’Onu - la questione dei confini del ’67 era stata ormai del tutto accantonata. Sicuramente Obama ha dato un certo dispiacere alla potente lobby sionista del suo paese, e quali potranno essere le ricadute sulle prossime elezioni presidenziali ancora non è determinabile.
Prima di entusiasmarsi, tuttavia, qualche riflessione s’impone. Obama è un grande comunicatore, cioè un chiacchierone notevole, e tutti siamo in attesa di vedere cosa farà di concreto. Diciamo subito che un ipotetico ritorno di Israele ai confini del ’67, per quanto considerabile un contributo serio al dialogo con i Palestinesi, tuttavia di per sé non è di tale portata da far pervenire al classico “scordiamoci del passato e vogliamoci bene”. Pur sapendo quanto il fatto giuridico della legittimità sia relativo, soprattutto nella sfera dei rapporti internazionali, resta comunque il fatto che il solo “titolo” giuridico legittimante l’esistenza dello Stato sionista nel contesto internazionale sta nella risoluzione dell’Onu del 1947 sulla spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. La risoluzione, ovviamente, era stata corredata da cartine con i rispettivi confini, mentre alla fine della Guerra dei 6 giorni i sionisti occuparono più territori di quelli loro assegnati dalle Nazioni Uniti: sono i famosi confini del ’67; confini armistiziali (quindi non stabili) privi di “titolo” giuridico.
Orbene, è ormai palese che il mondo Israele se lo deve tenere, anche perché i sionisti hanno l’arma atomica, ma altresì prima della realizzazione di questo strumento di distruzione di massa i bellicosi discorsi arabi sulla distruzione di Israele erano solo delle rodomontate, a uso e consumo interno. In teoria, l’eventuale ritiro israeliano dagli ulteriori territori occupati nel ’67 lascerebbe del tutto scoperto il problema del rientro in Palestina per gli arabi che ne furono cacciati dai sionisti, o che scapparono non “volontariamente” (come afferma la bugiarda propaganda israeliana) bensì per evitare i massacri messi in atto dalle formazioni armate ebraiche come l’Haganah, l’Irgun e la cosiddetta “Banda Stern”: furono massacri di uomini, donne e bambini di cui quello avvenuto a Deir Yassin è solo l’esempio più noto. Una teoria molto astratta perché squilibrerebbe la composizione della società israeliana in modo pesante per i sionisti, e poi perché quanti non volessero rientrare rivendicherebbero il risarcimento per le proprietà perdute. Comunque si tratta di due problemi che non avranno mai soluzione
Infatti, se ci sarà una fine del conflitto palestinese essa avverrà mediante lo schema che in diritto si chiama “transazione”: accordo con cui due (o più parti) risolvono una contesa attraverso reciproche rinunce alle loro pretese. Indeterminato rimane il tipo di possibili rinunce da parte israeliana poiché, anche per i sionisti atei, il solo titolo alla loro presenza in Palestina è di natura religiosa (il Vecchio Testamento); mentre è chiaro che nel possibile pacchetto delle rinunce arabe ci sono proprio il rientro dei profughi e/o il loro risarcimento.
Tutti bei discorsi, ma Israele ha già detto di no alla richiesta di Obama, eccependo la non-difendibilità militare dei confini del ’67. Sarà proprio l’atteggiamento israeliano a mostrare se davvero alle parole di Obama corrisponda o no a una decisione politica da realizzare. Si tratterà di vedere di quali mezzi disponga sulla carta Mister-we can per ridurre la lunga e insopportabile protervia israeliana e, soprattutto, se sia intenzionato a usarli – sempre tenuto conto della lobby ebraica che ha fra i piedi.
Stante la dimostrata inutilità della guerra, per chi non ama Israele la pace è fondamentale, e non solo nella speranza che con essa migliori la sorte dei Palestinesi. La fine del conflitto per Israele vorrebbe dire apertura di un nuovo ma delicato capitolo, della cui pericolosità sicuramente si rendono conto gli stessi dirigenti sionisti. Il ragionamento è il seguente: se si riuscisse a eliminare l’obiettiva situazione da fortino assediato in cui vive la società israeliana, allora sì che Israele dovrebbe vedersela con le sue pesanti e non facili contraddizioni interne - sociali, economiche ed etniche – che creerebbero molti più problemi e difficoltà degli sporadici razzi lanciati da Hamas o Hezbollah, perché suscettibili anche di produrre flussi emigratori, esiziali per il sogno sionista.

Dopo la rivolta si incrina il fronte imperialista sul Nilo
Per l’Egitto del dopo-Mubārak si può parlare di segnali di rottura del fronte filoimperialistico creato faticosamente dagli Stati Uniti nel mondo arabo, fronte di cui il paese faceva parte dall’avvento al potere di Anwar as-Sadāt. Le dichiarazioni, riprese dalla stampa araba il 17 maggio, dell’ex Direttore della Lega Araba – il settantaquattrenne Amr Mussa, considerato al momento il più favorito per le elezioni presidenziali egiziane del prossimo mese di novembre - sono di estremo interesse soprattutto se lette fra le righe poiché fanno intravedere che a parità di situazione l’Egitto è in via di abbandonare il ruolo di alleato-chiave degli Stati Uniti (ma anche di Israele) nell’areaa.
Ex ministro degli Esteri durante la presidenza di Mubārak, e poi da questi relegato alla Lega Araba per eccesso di popolarità interna, Mussa ha rivendicato l’esigenza che le relazioni con gli Stati Uniti assumano un carattere «rispettabile», e che non siano più caratterizzate da una delle due parti che segue l’altra. Se già questo è significativo, ancora di più lo è la sua successiva e veritiera affermazione per cui la politica estera egiziana finora svolta non ha avuto né la comprensione né l’appoggio da parte del popolo, per cui se l’Egitto è stato il primo paese arabo a stipulare la pace con Israele nel 1979, tuttavia lo Stato sionista resta impopolare fra le masse egiziane, al pari della politica di ostilità verso i Palestinesi realizzata da Mubārak. E pesanti come un macigno sono le parole «ogni politica che vada contro il sentimento e le opinioni popolari è cattiva, soprattutto se attinente a questioni delicate come la Palestina».
Altresì importante la conferma del suo appoggio –ma si può intendere che ci sarà anche quello dell’Egitto – all’iniziativa palestinese di rivolgersi a settembre all’Onu per il riconoscimento del loro Stato. Detto in termini chiari, se la politica statunitense sulla questione palestinese continuerà a ruotare attorno ai desiderata della lobby ebraica sionista, e se gli Stati Uniti continueranno a reputare più conveniente per loro appoggiare regimi arabi reazionari, potrebbe verificarsi il rischio che nella protesta araba si riduca lo spazio conquistato dalle rivendicazioni laico-democratiche finora prevalente, a favore di un maggiore spazio politico per l’estremismo islamico.
In relazione alla seconda delle due ipotesi testé fatte, non si devono trascurare le ombre oscure e preoccupanti che incombono, per esempio, sul versante arabo del Golfo Persico, e precisamente sugli Emirati Arabi Uniti, a prescindere dai bei discorsi di Obama. Lì la famigerata agenzia di mercenari Blackwater, diretta da Erik Prince, ha ricevuto l’incarico di organizzare un piccolo esercito di 800 mercenari, con un budget di 370.000.000 di euro, da utilizzare come puntello degli emiri minacciati da agitazioni popolari, per difendere le installazioni petrolifere e per compiere operazioni sporche sia dentro sia fuori dalla zona del Golfo. A novembre dello scorso anno è già arrivato ad ‘Abu Dhabi un folto gruppo di colombiani. Poiché sicuramente si tratta di professionisti, è lecito pensare che si siano formati nelle fila dei paramilitari della Colombia. cioè veri e propri assassini specializzati in autentiche macellerie. Ritenere che di ciò gli Stati Uniti siano all’oscuro o che non avrebbero potuto impedire la cosa, è un’ipotesi risibile, e non è azzardato pensare che dietro le belle parole di Obama ci siano centri del vero potere statunitenze interessati invece a battere le tradizionali e disastrose vie dellapolitica statunitense nel mondo arabo.
L’ipotesi a rischio a cui accennavamo va inquadrata nello stato generale – tutt’altro che positivo - delle agitazioni popolari nell’area. Per quanto il fermento sia ampiamente diffuso in maggiore o minore misura, tuttavia non si hanno segnali di sfondamento in altri paesi dopo Tunisia ed Egitto. In Libia la rivolta si è trasformata in guerra civile, con intervento militare imperialistico, apparentemente in appoggio ai ribelli, ma con la non dissipata eventualità della spartizione del paese – tanto il petrolio sta soprattutto nella zona orientale, e alle brutte si potrebbe lasciare a Gheddafi la parte occidentale nel cui deserto il raís di Tripoli tornerebbe a fare il beduino per davvero; in Siria è in atto la repressione sanguinosa di un’opposizione abbastanza disorganizzata, con la possibilità che il regime alla fine la spunti; nello Yemen la repressione continua, l’opposizione sembra sempre sul punto di cacciare il presidente Salāh, ma finora lui resta dove stava anche prima; in Bahrain l’opposizione non ce l’ha fatta; in Marocco, Algeria e Giordania non sembra che le manifestazioni – avvenute su scala minore – abbiano prodotto chissà quali grandi risultati riformatori.
A parole in Occidente tutti sono democratici, ma a nessun serio custode dell’ordine imperialistico sfuggono i pericoli inerenti a un effettivo sviluppo della democrazia rappresentativa nei paesi arabi, giacché uno dei risultati sarebbe la riduzione del numero degli Stati vassalli di Washington e il totale smascheramento delle mistificazioni di Israele. Infine molti degli Stati in predicato sono importantissimi per le esigenze geostrategiche militari ed economiche a motivo delle risorse ivi esistenti.

Parliamo ora d’Israele
Si tratta dell’unico Stato del Vicino Oriente con un accettabile assetto democratico-rappresentativo – a parte il Libano, caso peculiare per il carattere pluriconfessionale istituzionalizzato del suo sistema politico. Questo modo di essere di Israele ha sempre costituito un leit-motiv della propaganda sionista, e non solo a fini di vanagloria. Infatti su questo dato fa leva la propaganda per giustificare la sua politica tutt’altro che favorevole alla pace, in base a un semplice ragionamento giustificativo: se gli Stati arabi fossero democratrici non ci sarebbe guerra, perché le vere democrazie non si fanno la guerra fra di loro.
Ora, a parte l’opinabilità di tale ultimo assunto, non vi è dubbio che atteggiamenti bellicistici e azioni militari per lo più sconclusionate da parte degli Arabi hanno solo favorito Israele, diventata abilissima a farsi passare per vittima di fronte a un’opinione pubblica disattenta, priva di conoscenza storica e condizionata dalla cattiva coscienza dell’antisemitismo occidentale. Se viene meno l’alibi, Israele resta col suo vero volto: quello del colonialismo razzista del sionismo.
L’eventuale arresto delle rivolte arabe con il più o meno malcelato contributo statunitense, senza dubbio farebbe nascere un’ulteriore frustrazione in quanti vogliono fare uscire il mondo arabo dalle sue arretratezze condizionanti. E allora l’estremismo islamico, messo in secondo piano dalle attuali rivendicazioni popolari, potrebbe ripresentarsi come la vera alternativa a mali imputati solo all’influenza occidentale. Ricordiamoci una cosa: tutte le grandi potenze hanno sempre utilizzato il divide et impera della politica imperiale romana; più o meno bene, e con maggiore o minore fortuna. Forse la classe dirigente Usa l’ha imparato dai Britannici, ma non è mai stata una buona allieva, giacché spesso e volentieri non ha calcolato conseguenze e contromosse. Alla luce delle precedenti castronerie, non è irragionevole pensare che in certi ambienti imperialistici si preferisca proprio il predetto disastroso esito, per un duplice effetto: riportare in auge il pregiudizio antiarabo e ridare a Israele l’incondizionato appoggio di sempre; nonché optare di nuovo per dittatori locali con funzione di contenimento interno e con i quali concludere lucrosi affari.

I “sorprendenti” Fratelli Musulmani egiziani
La Fratellanza Musulmana dell’Egitto – tanto demonizzata dagli imperialisti per i loro fini, quanto poco conosciuta – si prepara ad essere, inevitabilmente, uno dei soggetti dell’auspicato nuovo corso politico del paese. Intanto nel paese da un po’ di tempo è in atto una recrudescenza degli sconti interconfessionali (leggasi assalti di fanatici musulmani a cristiani e loro chiese); scontri in cui molti vedono, oltre al dato visibile del ritorno all’aggressività delle frange più estreme dell’islamismo locale, la lunga mano manovrante vuoi di sostenitori del regime di Mubārak, vuoi di centri comunque ostili all’avvento di una democrazia rappresentativa più seria del passato. In effetti, cosa di meglio del far intravedere lo spettro dell’estremismo religioso in agguato fra le urne e pronto a fare in Egitto il bis dell’Iran? Ebbene, le ultime notizie circa l’organizzarsi dei Fratelli Musulmani in partito fanno pensare che in ordine agli scontri islamo-cristiani abbiano ragione proprio i “dietrologi” sospettosi.
Succede che la Fratellanza Musulmana, nella documentazione presentata per la legalizzazione di un partito a essa vicino, denominato “Libertà e Giustizia”, ha indicato come vicepresidente un intellettuale cristiano copto – Rafiq Habib – e tra gli 8.821 di elettori a corredo dell’ufficializzazione del partito ve ne sono 978 di donne e 93 di copti. È un po’ difficile pensare che Habib e i suoi 93 correligionari siano stati presi da una botta di masochismo acuto, mentre risulta più facile ritenere che forse ci sfugge qualcosa della situazione egiziana. Vero è che in politica (e in Oriente in particolare) non è sempre facile distinguere fra le maschere e i volti; e vero è che la legge sui partiti, riformata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (organismo con cui tutti i soggetti politici devono fare i conti e competente a pronunciarsi sulla legalizzazione del nuovo partito), mantiene il divieto di formare entità basate «su princìpi religiosi, di classe, geografici, di sesso, idioma, religione o credo»; pur tuttavia il portavoce di “Libertà e Giustizia”, Sād Katatni, ha rilasciato alla stampa dichiarazioni molto chiare e non suscettibili di interpretazioni di comodo: «il partito è aperto a tutti gli egiziani, sia musulmani sia copti», il suo presidente Muhāmmad Mursi si è pronunciato in termini favorevoli verso «le nazioni moderne e la libertà delle persone»; e l’altro vicepresidente di “Libertà e Giustizia”, Rashad al-Bayumi in un’intervista al quotidiano spagnolo El Mundo, oltre ad aver garantito che il partito non sarà la cinghia di trasmissione della Fratellanza Musulmana, ha opportunamente ricordato un aspetto del tutto trascurato dagli estremisti islamici, e cioè che «il Corano dice che nessuno può essere obbligato a diventare musulmano», e che la rivendicazione della «giustizia per ogni persona, a prescindere dalla sua religione o dal suo colore (...) sta alla base (....) del partito».
Mai in politica prendere tutto per oro colato, ma del pari sarebbe erroneo usare solo e sempre l’ottica opposta. Se si tratta di bugie per rassicurare gli elettori la verifica sarà dopo le elezioni, fermo restando che in Egitto, a differenza dell’Iran della rivoluzione khomeinista, si dovranno fare i conti con l’esercito. Ma se non fossero bugie, allora si dovrebbe dire che in Egitto si profilano novità di tipo turco, e problemi per gli imperialisti. Di Turchia dovremo riparlare nella prossima corrispondenza.