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martedì 29 marzo 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA (VII), di Pier Francesco Zarcone

In questo articolo vengono messi sul tappeto degli argomenti di grande importanza, riguardanti i complessi rapporti culturali e politici dell’Occidente con il Mondo arabo, sui quali l’autore, Pier Francesco Zarcone, auspica un dibattito a più voci. [la Redazione]


In assenza di rivoluzione sociale, quali prospettive politiche?
Si vorrebbe ora effettuare una prima riflessione riguardo a una questione abbastanza complessa, senza avere l’ambizione di giungere a una vera e propria analisi esaustiva, a motivo del fatto che il mondo arabo (e nel termine vengono incluse anche le minoranze cristiane) obiettivamente costituisce una realtà “altra” rispetto a come  nel corso della storia si sono plasmate le società europee. Questo va innanzi tutto compreso, poiché sempre di più ci si dovrà confrontare. E mai come in questo caso vale l’inascoltata lezione di Vicenzo Cuoco il quale – in una lontana fase della storia della penisola italiana – mise in guardia contro le riforme astrattamente giuste, ma radicalmente estranee al contesto che le riceve, con la conseguenza di reazioni anche sanguinose. Potrebbe aggiungersi che nell’immediato una situazione del tipo di quella stigmatizzata da Cuoco può cambiare se i riformatori dispongono della forza per imporsi, costi quel che costi; e il risultato può anche durare a medio termine. Ma in seguito, se il quadro cambia, non ci si stupisca. Purtroppo l’azione politica non si cala sempre in ambienti molto “elastici”, cioè più o meno agevolmente plasmabili; il più delle volte l’impresa di rompere con assetti e modi di pensare millenari richiede molto tempo, da riempire con un lavoro duro e costante, senza paura per le difficoltà e per il rischio di dover ricominciare da capo varie volte. Ci si deve muovere fra una serie di limitazioni, da conoscere, ponderare e, laddove possibile, schivare; fermo tuttavia restando il vecchio detto ad impossibilia nemo tenetur.
Nella cultura occidentale – da cui comunque siamo determinati – non è facile sfuggire all’automatismo di attribuire allo sviluppo della nostra fetta di pianeta il ruolo (e il valore, soprattutto) di paradigma dello sviluppo di qualsiasi realtà socio/culturale umana. E quindi di considerare “naturali” (quindi, in un certo senso, necessitate) quelle che sono state le sue tappe evolutive, con la conseguenza di attribuire indiscriminati giudizi di arretratezza a tutte le società il cui sviluppo storico sia stato differente. Il che sovente causa tragedie (a volte non prive di aspetti comici). Questo atteggiamento porta ad agire con la classica “mancanza di psicologia”, consistente nel ritenere che tutti abbiano la stessa maniera di pensare. Si può ricordare, a mo’ di esempio, un fatto accaduto nel Vietnam del Sud durante l’intervento statunitense: si era tenuta un’elezione politica, vinta con maggioranza assoluta dal governo in carica, ma con pochi punti percentuali al di sopra del 50%. Gli Stati Uniti la considerarono un test positivo, mentre i sudvietnamiti vi videro una catastrofe per i governativi, e le conseguenze infatti lo dimostrarono. Il fatto era che - secondo la mentalità indocinese (derivata dalla cultura della Cina) - il potere politico è un mandato (revocabile) del Cielo, e allora il popolo (se non tutto, quasi) segue il mandatario; per gli yankees, invece, era il frutto di un calcolo aritmetico dei risultati elettorali.
Da noi esiste anche l’atteggiamento di quanti adottano dosi più o meno consistenti di relativismo nella sfera antropologico-culturale. Qui sono possibili due posizioni ulteriori: una è di relativismo assoluto, con il rischio di finire eticamente neutri rispetto al cannibalismo rituale, o alla condizione della donna nella dimensione talibana; l’altra invece assume come universalmente validi i valori inerenti alla dignità e alla libertà dell’essere umano, per cui non si sfocia nell’indifferenza morale. Un fattore importante: la mentalità occidentale risente dell’atmosfera creata da quel sistema economico/sociale/culturale che è il capitalismo – da noi fenomeno endogeno - dai costanti esiti sovvertitori e distruttori dovunque vada.

venerdì 25 marzo 2011

Dichiarazione di Giorgio Cremaschi e precisazione di Roberto Massari

La Redazione di questo blog ritiene utile che questa precisazione rivolta fraternamente a Giorgio Cremaschi (presidente del Comitato centrale della Fiom) sia resa pubblica, con preghiera di farla circolare affinché essa rimanga impressa nella memoria collettiva.

Un giorno triste per la democrazia italiana
di Giorgio Cremaschi (24 marzo 2011)

Oggi è un giorno tristissimo per la democrazia italiana. Per la prima volta nella storia della Repubblica il Parlamento decide all’unanimità la partecipazione dell’Italia a una guerra. Non era mai avvenuto. Sempre il dissenso pacifista, che sicuramente anima milioni di persone, aveva trovato una sua espressione parlamentare. Oggi non è più così, abbiamo un Parlamento che è estraneo a una parte importante del paese, che viene così posta fuori dal sistema istituzionale. Per questo è un giorno nero della democrazia e dovrebbe essere lo stesso Presidente della Repubblica a rilevare questa drammatica chiusura delle istituzioni alla società civile.

* * * 

Caro Giorgio, condivido il lutto per questo grave evento, che avviene tra l'altro proprio nel giorno anniversario delle Fosse Ardeatine (dove tra gli altri fu ucciso mio nonno materno in quanto comunista).
Ma devo purtroppo correggerti sull'affermazione che sia stata la prima volta nella storia della Repubblica. Come puoi dimenticare quel 19 luglio del 2006, quando fu approvata con voto plebiscitario la missione italiana in Afghanistan, prima alla Camera e poi al Senato?
Oltre a tutti i partiti della destra e del centrosinistra, votarono a favore Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi. Al Senato l'unanimità fu completa (votarono a favore anche Turigliatto e Malabarba, membri della Quarta internazionale). Alla Camera ci furono 5 voti non a favore (con la motivazione che alla Camera quel dissenso non aveva effetti sul voto, a differenza del Senato): ma si tratta di un dettaglio numerico insignificante rispetto alla somma complessiva dei parlamentari di Rifondazione, Pdci e Verdi (i famigerati 110 Forchettoni rossi come li definimmo in un celebre libro). Quei 110 (meno i 5 alla Camera) votarono plebiscitariamente perché riprendesse l'aggressione italiana all'Afghanistan. E la gravità di quel fatto è veramente senza precedenti.
Per i criteri etici ai quali ispiro la mia azione politica, fu molto più tragica quella unanimità del Parlamento italiano includente le tre formazioni della ex sinistra, che non l'attuale che mi sembra quasi logica e di routine, non avendo il Pd caratteristiche "di sinistra" ormai da molto tempo e avendo votato a favore di tutte le missioni militari all'estero, quando non le ha condotte in prima persona.
No, quel 19 luglio del 2006 ti invito a non dimenticarlo mai, se vogliamo aprire delle speranze di liberazione alle nuove generazioni e capire la realtà presente.
Un mesto saluto
Roberto Massari

Si consiglia anche la lettura di E' nato il nuovo blocco centrista, di Roberto Massari, sul sito Sotto le bandiere del marxismo e, naturalmente, I FORCHETTONI ROSSI. La sottocasta della “sinistra radicale”

giovedì 24 marzo 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA (VI), di Pier Francesco Zarcone

Cresce l’aggressione imperialistica alla Libia
È ovvio che i ribelli libici, ormai attestati solo in una parte della Cirenaica, sull’orlo della disfatta e con la prospettiva certa di essere massacrati, abbiano respirato e giubilato dopo l’iniziativa militare dell’Occidente (di questo si tratta, poiché l’adesione araba sembra limitata al Qatar con qualche aereo; cioè nulla; l’Egitto si era rifiutato di partecipare), ma in quelle condizioni si tratta di un’inevitabile e umanissima reazione emotiva. La valutazione politica dal di fuori è invece d’altro segno.
Il tipo di intervento scelto è oltre tutto mostruosamente costoso: sono in ballo cifre enormi, spropositate, se si pensa che solo un missile Tomahawk tempo fa costava 750 milioni di dollari (sic). Ipotizzando che il prezzo non sia mutato (ma è difficile), ciò vuole dire che la sola prima bordata di missili statunitensi è costata niente popodimeno che 82.500.000.000 dollari! Gli immediati beneficiari di questo spreco immondo saranno ovviamente i complessi industriali/militari delle potenze intervenute, in virtù delle nuove commesse per la sostituzione di quanto consumato in Libia. Delle industrie del settore energetico già si è detto in precedenza. È il classico modo per poter vantare crediti pesanti verso la fazione “aiutata”. Il fatto, poi, che il citato editoriale dia quasi per scontata una divisione della Libia certifica – per così dire – il gioco di interessi imperialisti retrostanti, e le pesanti ipoteche già proiettate su un territorio che fa da cuneo nell’Africa del Nord ed è a ridosso dell’Egitto.
Non va sottaciuto che il predetto modo di ragionare dà per scontata l’inesistenza di altre forme di aiuto alla rivolta anti-Gheddafi. In una precedente corrispondenza, invece, se ne era già evidenziata una: aiuti militari arabi ai ribelli. Ma se ne potrebbe individuare anche un’altra, efficace, moralmente corretta, e meno idonea a creare rilevanti vincoli di dipendenza: essa ha il punto di partenza negli enormi beni libici esistenti nei paesi che hanno deciso l’intervento e che li hanno congelati. Trattandosi di soldi del popolo libico (per bilioni di dollari), sarebbe stato bello se il Consiglio rivoluzionario di Bengasi li avesse avuti a disposizione: con questo denaro sarebbe stato in grado di comprare – in un mercato che aspetta solo nuovi acquirenti – armi, munizioni, equipaggiamenti, medicinali e viveri. Così il popolo libico, con i suoi stessi beni, sarebbe stato messo in grado di vedersela alla pari con il colonnello e i suoi mercenari, con nuove prospettive di vittoria. In fondo si tratterebbe di un aiuto vitale a costo zero; oltre tutto ancora fattibile. Ma un’autoliberazione del popolo libico chi la vuole in fondo? E se poi questi Arabi si montano la testa? Meglio procedere alla vecchia maniera – che ha pur sempre delle proficuità, a breve termine – sperando che vada un po’ meglio del passato. Tenuto conto delle oggettive capacità di ricatto dell’Occidente, un altro consistente tipo di aiuto (più o meno disinteressato) sarebbe individuabile, e consisterebbe in una serie di effettive pressioni sui governi africani dei paesi da cui Gheddafi trae i propri mercenari affinché blocchino questo mercato di assassini. 
Tutte queste iniziative, però, vorrebbero dire “aiutare”, e non assumere la posizione del “salvatore” in extremis, strumento per tutt’altre prospettive e guadagni. Per finire una considerazione dal tenore puramente “realista”, e magari un po’ cinica: poiché, piaccia o no, serietà e professionalità sono requisiti fondamentali per ogni azione umana, anche per le porcate, è ovvio chiedersi se i governi imbarcatisi nell’iniziativa bellica dispongano di un progetto (quand’anche imperialista) su come concluderla e, se del caso, su come uscirne. Altrimenti le conseguenze saranno negative a vasto raggio e di lunga durata. L’amministrazione Obama fa sapere di non volere la caduta del regime di Tripoli. Ipocrisia yankee o stupidità, alla luce dei criteri della realpolitik? Qui è opportuno essere pratici: stante la piega globale assunta dagli avvenimenti, si ha chiaro che vorrebbe dire un Gheddafi padrone di mezza Libia e ansioso di vendetta? Evidentemente non ha insegnato nulla la nefasta scelta di Bush-padre, quando lasciò Saddam padrone dell’Iraq dopo la prima Guerra del Golfo. Quanti milioni di morti in meno ci sarebbero stati in Iraq, e quante sofferenze evitate ai vivi con una scelta più coerente (sia pure sempre all’interno di un quadro negativo)? Sempre “tecnicamente” parlando, resta vero il fatto che l’imperialismo di Londra era, ed è, altrettanto criminale di quello di Washington, ma meno autolesionista e fonte di guai per i terzi.
Il giudizio negativo sull’intervento in atto, e l’entusiasmo con cui i ribelli lo hanno accolto in un momento critico in cui erano drammaticamente soli, è suscettibile di provocare una riconsiderazione di quanto sta accadendo in Libia: cioè a dire, metterne in discussione il carattere di rivolta popolare contro il governo tripolino, assumendo che il popolo libico in realtà sia diviso fra oppositori e sostenitori di Gheddafi. Una tale interpretazione può trovare alimento nelle “rivelazioni” dei giornali berlusconiani circa la longa manus di Parigi già nell’organizzazione della rivolta. I dubbi sono sempre benvenuti poiché consentono di riflettere di più. Tuttavia sono sollevabili delle obiezioni. L’entità dell’appoggio popolare a Gheddafi è difficile da stabilire, e sulla genuinità/spontaneità di certe manifestazioni di massa nelle zone controllate da Gheddafi, con esibizioni di non meglio motivati e teatrali baci ai ritratti del dittatore, si potrebbe fare una tara e concludere che non esprimono granché visto che tutte le dittature sanno come fare per costringere la gente a scendere in piazza.
Che esista una parte della popolazione per vari motivi schierata con Gheddafi nessuno lo contesta, anche perché notoriamente una parte delle tribù non ha “mollato” il colonnello. Va inoltre osservato come non sia esistita pressoché mai una rivolta popolare con la partecipazione maggioritaria degli abitanti; nemmeno nei casi in cui ne è poi derivata una grande rivoluzione. Vedere, quindi, nei fatti libici qualcosa di diverso da una guerra fra il governo e il popolo e magari ridurli a scontro fra il governo e una fazione dalla dubbia identità è sì una lettura possibile, ma vuol dire dimenticare che una parte della popolazione è sempre diventata “popolo” nella misura in cui è giunta a esprimere l’interesse generale di un paese. Con la stessa ottica si ridusse la Rivoluzione d’Ottobre a uno scontro fra il governo provvisorio e la piccola fazione bolscevica. C’è poi il dato significativo che se Gheddafi non avesse avuto il supporto dei suoi mercenari ben addestrati a quest’ora sarebbe già stato sconfitto. Cambia le cose l’eventuale zampino francese nell’organizzare la rivolta, ammesso che ci sia stato? E al riguardo sia lecito osservare che se davvero i Francesi hanno organizzato la ribellione avrebbero potuto pure organizzarla un po’ meglio.
Ad avviso di chi scrive la cosa semmai sarebbe suscettibile di influire sulle valutazioni politiche circa gli occulti capi della rivolta, ma con un’avvertenza: è formalmente molto facile giudicare con rigorismo etico/politico standosene comodamente sistemati in un assetto in cui i tiranni ancora non hanno la necessità di fare del male ai cittadini. Fermo restando che di quei capi occulti non sappiamo nulla, nè conosciamo le loro intenzioni reali e la loro provenienza, va però detto che da che mondo è mondo chi vuole rovesciare il proprio despota sanguinario – e da solo non può farcela – tanto per il sottile non va, e se è il diavolo a dargli una mano, beh, ci si allea. E comunque, a prescindere dall’esistenza o meno di forze occulte retrostanti, sta di fatto che a scendere in piazza sono stati i soliti quisque de populo; il che dimostra che gli organizzatori avevano trovato un terreno già fertile. Infine un’ultima notazione, per lo meno sulla base di quel che è apparso: anche con il passaggio dalla parte dei ribelli di ufficiali dell’esercito libico, non è che costoro abbiano realizzato un minimo-minimo di coordinamento militare: tracce di organizzazioni nascoste non ce ne sono. Con tutto il rispetto, si era assistito ad azioni belliche di una “armata brancaleone” giovanile. Sulla catena di comando di questi combattenti improvvisati si sa poco e niente. Sulla linea del fronte rispondono al generale Abd al-Fattah Junis, ex ministro degli Interni di Gheddafi. C’è chi dice che costui, resosi conto della sproporzione delle forze in campo, sia tornato nel grembo del dittatore. Altri dicono che il capo militare sia il generale ‘Umar Arīri, e altri ancora che sia il dissidente Khalīfa Haftir. Chi lo sa con certezza?
Per tornare alla Francia, essa resta ancora una media potenza regionale imperialistica, con interessi consistenti proprio in Africa; è un mero dato di fatto. Scandalizzarsi é inutile. In teoria sarebbe compito delle “democrazie” europee operare compatte per bloccare le velleità francesi, ma c’è un ostacolo: proprio queste cosiddette “democrazie” sono a loro volta imperialiste, sia pure con interessi, forza politico/militare e nerbo di gradi diversi. Per cui contrastare la Francia si tradurrebbe nell’entrare in concorrenza con essa, ciascuno giocando in proprio e facendo della Libia una semplice occasione sulla scacchiera della politica e  dell’economia.

La penisola araba di fronte all’Iran
Sarebbe errato considerare l’intervento militare saudita in Bahrein come manifestazione di solidarietà fra monarchi assoluti contestati dalle loro polazioni. In realtà l’obiettivo dell’iniziativa è duplice: gli sciiti locali e l’antistante Iran degli ayatollāh. Il fatto è che le giuste rivendicazioni degli sciiti di quelle due monarchie non solo creano scompigli interni, ma altresì – anche a prescindere dall’essere o no soddisfatte – sono idonee a mettere in forse gli attuali equilibri geopolitici della regione, a tutto vantaggio dell’Iran. Si può pensare che proprio per questo la repressione in Bahrein e Arabia Saudita (ma anche nello Yemen) non sensibilizzi più di tanto gli Stati Uniti. Cerchiamo di delineare un quadro generale, premesso che Teheran al momento – e quand’anche senza propri meriti -  non può non trovare al suo attivo sulla bilancia politica del mondo islamico occidentale la caduta di due acerrimi nemici a Tunisi e al Cairo. Poi ci sono le attuali difficoltà dell’Arabia Saudita priva di confinanti (o vicini) su cui poter contare. Infatti abbiamo che:
a) al di là delle scarsissima amicizia fra i Sa’ūd e gli Hashimiti ai Amman, sta di fatto che il re di Giordania, ‘Abdallāh, ha i suoi problemi interni con cui confrontarsi;
b) il governo yemenita è bloccato da crescenti contestazioni di massa;
c) non si sa quale strada prenderà l’Egitto del post-Mubārak;
d) come finirà nel Bahrein non è chiaro;
e) la Siria vede crescere la rabbia popolare, ma il regime baathista – finché regge – è un alleato di Teheran;
f) l’Iraq, per le difficoltà interne causate dall’occupazione statunitense, è al momento fuori gioco, ma la maggioranza della sua popolazione è sciita.
Restano solo i piccoli emirati del Golfo, ricchissimi ma militarmente inesistenti. Sarebbe più che comprensibile se il governo saudita si facesse prendere dalla sindrome dell’accerchiamento.
Il regime degli ayatollāh ha forse vaccinato la gioventù iraniana dal virus dell’integralismo islamico, pur tuttavia esso è ancora forte e non è pensabile che la piazza lo rovesci a medio termine. Inoltre va tenuto presente che, a prescindere dal suo regime interno, l’Iran resta il punto di riferimento degli sciiti arabi e il titolare di propri interessi geopolitici in contrasto con quelli di chi domini la penisola araba. D’altro canto l’Iran (in quanto tale) negli scorsi anni ha ricevuto almeno due doni insperati dall’arcinemico statunitense, in quanto i suoi nemici regionali che bloccavano le aspirazioni ambiziose di Teheran sono stati eliminati dagli yankees  e non ci sono più: i Talibani a Kabul e Saddam a Baghdad. Anzi in Iraq, per la prima volta dalla creazione di questo Stato a opera dei Britannici dopo la Grande guerra, oggi sono gli sciiti a comandare. In Libano la longa manus iraniana è il potente Hezbollah (in arabo Hizballāh) che ha fatto cadere il governo filoccidentale di Sa’ad Hariri; l’Egitto attuale forse modificherà l’atteggiamento fortemente ostile di Mubārak nei confronti di Hamas, e Hamas é alleato dell’Iran. 
Tutto questo che vuole dire? Semplicemente che nella presente situazione i governi della penisola araba sono soli di fronte all’estensione dell’influenza iraniana, e quindi ci si deve aspettare che reagiscano con durezza. È ben difficile che gli Stati Uniti, apertosi il fronte libico, possano disinvoltamente impegnarsi anche contro l’Iran. Potrebbe farlo Israele (che probabilmente non aspetta altro), ma essere in qualche modo aiutati dai sionisti equivarrebbe a un disastro politico.

domenica 20 marzo 2011

L’AGGRESSIONE ALLA LIBIA, di Pier Francesco Zarcone

(20 marzo 2011)

L’Occidente è intervenuto nei cieli di Libia, su stimolo pressante del governo francese di Sarkozy e con l’accordo della Lega Araba. Il solitario riconoscimento francese al Consiglio rivoluzionario libico aveva già fatto capire che una svolta Parigi l’avrebbe comunque impressa. Sulla scena internazionale la Francia ha giocato formalmente un attivo ruolo da protagonista. Su di esso e su altri fatti c’è spazio per alcune considerazioni di fondo. Il segretariato generale dell’Onu come al solito è andato a rimorchio; l’Unione Europea ancora una volta ha dimostrato la sua inconsistenza in politica estera (e magari si trattasse solo di quella) e il governo italiano ha mantenuto salda una tradizione ormai più che secolare. Dai baciamano all’amico libico si è passati al tentennamento, poi al voltafaccia e infine alla messa a disposizione di basi e aerei agli alleati occidentali. Ancora una volta quello italiano si è rivelato un imperialismo straccione e vigliacco; perché gli imperialisti veri (e non gli aspiranti tali) oltre ad avere sulla coscienza tonnellate di “pelo”, normalmente pensano al perseguimento dei propri interessi, in modo più o meno efficace. Come la Francia, a cui dei diritti umani della popolazione libica importa meno che niente, mentre ha tutto l’evidente interesse a prenotarsi con il “numero 1” per proficue concessioni petrolifere da parte del governo provvisorio anti-Gheddafi, che ora alla Francia deve moltissimo. Oltre che ad avere un amico in loco che possa svolgere l’azione di controllo di migrazioni africane verso l’Europa. Inoltre ha dimostrato di essere ancora in grado di svolgere una funzione politico-militare da media potenza regionale.
Scena del film La battaglia di Algeri,
di Gillo Pontecorvo
Essendo ormai chiaro che i ribelli libici da soli non ce l’avrebbero fatta, chi scrive aveva già espresso [http://utopiarossa.blogspot.com/2011/03/mondo-arabo-in-rivolta-iv-di-pier.html] la propria preferenza per il rapido invio a essi di massicci armamenti da parte del mondo arabo (e non certo degli imperialismi che si affacciano sul Mediterraneo) in modo da compensare il gap in favore delle milizie di Gheddafi. Si tratta, ovviamente di una posizione personale, peraltro difficilissima da realizzare in termini pratici. Invece le potenze occidentali hanno puntato all’instaurazione di una no fly zone. La concretizzazione di questa scelta, fatta propria dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, implica veri e propri atti di guerra. In buona sostanza, in caso di violazione del divieto si tratta di distruggere impianti radar, postazioni antiaeree, aeroporti militari. E la protezione delle popolazioni attaccate dagli uomini di Gheddafi implica attacchi dal cielo alle truppe di terra.
Il problema è cosa succederà in seguito, sui piani militare e politico. Se i ribelli libici non verranno messi in grado di riprendere la loro offensiva autonoma verso Tripoli si andrà di fatto alla spartizione della Libia in due zone, facendo del provvisorio il definitivo. E poi? Innanzi tutto una situazione del genere avrebbe immediati esiti neocolonialisti, facendo dell’Occidente l’indispensabile protettore (e dominus) della Cirenaica, restando Gheddafi dittatore della parte occidentale. E ci sarebbe anche da chiedersi per quanto tempo il mondo arabo lo sopporterebbe.
Infine va introdotta una considerazione di tipo giuridico, per quello che vale, anche se si ritiene che politicamente qualcosa valga. Ancora una volta l’Onu ha violato il suo stesso Statuto (la prima volta fu in occasione della guerra di Bush-padre contro l’Iraq). Questo Statuto, infatti, prevedendo che in caso di minacce alla pace l’Onu possa decidere un proprio intervento militare, stabisce però che il comando delle truppe all’uopo messe a disposizione da Stati membri debba dipendere dal Consiglio di Sicurezza. Dov’è tutto questo? 

venerdì 18 marzo 2011

IL GARIBALDI SOVVERSIVO DA SALVARE, di Roberto Massari

Nei giorni precedenti il 17 marzo, presunto 150° anniversario dell’unità d’Italia, mi ero limitato a indicare l’imbroglio riguardante la data: mancando la cacciata del Papa da Roma e mancando quindi la capitale naturale e storica di qualsiasi cosa si possa intendere per «Italia unita», nel 1861 non si realizzò affatto l’unità dello Stato italiano. Si fondò invece una versione «moderna» e allargata dello Stato monarchico sabaudo-piemontese, con tutte le sciagure storiche che ne conseguirono e ancora ne conseguono. La casata dei Savoia si annetteva gran parte della penisola, mentre i patrioti italiani continuavano a reclamare e lottare per la liberazione di Roma e mentre il Papato si confermava come il nemico dell’unità d’Italia più tenace e più duraturo nel tempo. Nemmeno dopo la liberazione di Roma (20 settembre del 1870) il Papato accetterà tale realtà e continuerà a rifiutarla fino all’accordo con Mussolini del 1929 (i famigerati Patti Lateranensi). Per questo, se proprio si sente il bisogno di celebrare il 150° dell’unità d’Italia, occorre aspettare il 20 settembre del 2020, preparandoci al peggio in campo filovaticano, visto che già in questa occasione i media e i provveditorati nelle scuole sono riusciti a distogliere l’attenzione dal contributo decisivo che il Papato diede al mancato raggiungimento dell’unità d’Italia nel 1861, negli anni precedenti e in quelli successivi. Figuriamoci cosa accadrà nel 2020 se il potere mediatico e politico della Chiesa sullo Stato italiano sarà ancora forte come lo è attualmente, se non addirittura più forte...
   Accanto ai tanti e a volte interessanti articoli che sono stati pubblicati riguardo a vicende specifiche o pagine storiche dimenticate del moto unitario italiano, sono però comparsi anche articoli di sintesi (editoriali di giornali, commenti di noti intellettuali ecc.), che mi hanno colpito per la loro vuotezza, disinformazione voluta e incapacità per l’appunto a sintetizzare cosa fosse in gioco nel processo storico che riassumiamo convenzionalmente con il bel termine di «Risorgimento» (che per molti di noi fa rima con Rinascimento). Non citerò la lunga lista degli articoli di sintesi «cattivi» (e chissà quanti me ne sono sfuggiti), preferendo indicare due ottimi testi (con altri che forse mi sono sfuggiti) che invece consentono di operare tale sintesi mirabilmente. Mi riferisco all’articolo di Amadeo Bordiga («Alla gogna, non sugli altari», apparso il 7 aprile 1961 su Il programma comunista) ripubblicato meritoriamente in questi giorni da molti siti, e l’articolo di Michele Nobile («Sull’anniversario della cosiddetta unità d’Italia come forma di feticismo storico»), scritto per il blog di Utopia Rossa (www.utopiarossa.blogspot.com).

SULL’ANNIVERSARIO DELLA COSIDDETTA UNITÀ D’ITALIA COME FORMA DI FETICISMO STORICO, di Michele Nobile


Le autocelebrazioni ufficiali sono sempre mistificanti perché volte a far apparire «vissute» e «popolari» istituzioni che della vita sociale sono pietrificazioni, concrezioni di apparati burocratici che ad essa si sovrappongono nel tentativo di dominarne e governarne le contraddizioni.
Massimamente mistificante sarà dunque l’autocelebrazione dell’apparato degli apparati, cioè dello Stato: qui la mistificazione coincide con la rappresentazione della forma-Stato come un feticcio che assorbe e congela il vissuto storico reale, che lo restituisce in una forma da cui le contraddizioni sono espunte o neutralizzate.
L’autocelebrazione dell’unità d’Italia che ha luogo in questi giorni è mistificante nella sua stessa concezione e denominazione.
Quel che accadde il 17 marzo 1861 non fu affatto il compimento dell’unificazione italiana ma la promulgazione della legge che faceva di Vittorio Emanuele il re d’Italia (legge , approvata il 26 febbraio dal Senato e il 14 marzo dalla Camera). Si tratta della nascita del Regno d’Italia, costituito in seguito ai plebisciti ed alle annessioni che, nell’arco dei diciotto mesi precedenti, avevano progressivamente esteso il regno di casa Savoia fino a comprendere la Lombardia, l’Italia centrale tranne il Lazio, il Mezzogiorno.
Ma, senza trascurare quel che di artificiale o di convenzionale o di mitico si annida nella definizione di un’entità nazionale, al compimento dell’unità d’Italia mancavano ancora il Veneto e, specialmente, il Lazio e Roma. Nessun autentico patriota, né tra i monarchici e liberali e men che mai i democratici italiani (ed europei), considerava compiuta l’unificazione nazionale senza Roma. Neanche il liberale Cavour o il primo dei grandi «trasformisti» italiani, Urbano Rattazzi: la «questione romana» nel 1861 restava ben aperta. Tanto aperta che Garibaldi tentò, dopo la proclamazione dell’«unità», due operazioni per la liberazione di Roma.
La prima nell’agosto 1862, quando venne fermato e ferito dai soldati del neonato Regno d’Italia sull’Aspromonte: quella fu una guerra civile in miniatura, che non ebbe più gravi esiti solo perché il Generale impose alle sue truppe, in inferiorità numerica ma ben attestate, di cessare il fuoco.
Il secondo tentativo fu nell’ottobre 1867, quando Garibaldi invase il Lazio con circa 7 mila volontari, ma dovette ripiegare a causa del fallimento dell’insurrezione romana, per essere poi sconfitto dai franco-papalini a Mentana e, varcato il confine, essere nuovamente arrestato dai soldati dello Stato regio e «unitario». Tra i tanti che caddero a Roma si ricordano i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, Francesco Arquati, la sua eccezionale moglie Giuditta Tavani, patriota figlia di un combattente della repubblica romana del 1848, e il loro figlio dodicenne Francesco, uccisi nell’assalto papalino in un lanificio in cui si erano asserragliati. Si devono ricordare anche Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, che avevano fatto saltare in aria una caserma pontificia: questi furono cattolicamente ghigliottinati l’anno seguente.

Infine, la questione romana si concluse quando, approfittando della caduta di Napoleone III ad opera delle truppe tedesche e della Comune parigina, le truppe del Regno d’Italia invasero quel che restava dei domini del Papa-re e irruppero in Roma attraverso la celebre breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870. Il tiranno pontificio oppose debole resistenza militare, giusto per dimostrare agli italiani ed al mondo che egli non cedeva pacificamente e cristianamente il suo dominio temporale. Nondimeno, cannonate e fucilate ci furono, con morti (68 complessivi) e feriti.
Di una cosa bisogna prendere atto: che i liberali del 1870, per quanto monarchici e moderati, osarono un’azione di tale portata il qui equivalente sul piano ideale e della normativa è, per i nostri politicanti «laici» contemporanei, così pronti alla genuflessione e al baciamano, pura fantastoria.
Dunque, il compimento dell’unificazione italiana si diede nel 1870 e, neanche troppo figurativamente, «sparando sul Papa-re». Questi a sua volta, pur detronizzato, confermò arrogantemente il divieto ai cattolici di partecipare alla vita politica del nuovo Stato, divieto che rimase formalmente in vigore per un altro mezzo secolo.

Pare un paradosso che la Repubblica festeggi la proclamazione del Regno.
Ma forse non è tale.
Quel che le istituzioni e lo spettacolo mediatico festeggiano realmente è la continuità della forma-Stato. Perché, attraverso il Regno, poi il fascismo, infine la Repubblica, esiste una continuità reale, che è appunto, quella del dominio dello Stato e delle classi dominanti sulle classi dominate italiane. È il feticcio dello Stato che viene celebrato e, con esso, la continuità del potere di classe attraverso le diverse trasformazioni della forma del regime politico.

Nel festeggiamento feticistico risuona l’invocazione ai «valori condivisi» che, finalmente, facciano dell’Italia un paese «normale». Si tratta del tentativo, espresso come aspirazione normativa, di neutralizzazione delle contraddizioni che fin dall’inizio contraddistinsero il processo di unificazione politica.
Ricordare il 1870 e la caduta della tirannia papale certamente non faciliterebbe il distillare di questi «valori condivisi»: non fosse altro perché allora coerenza vorrebbe che si ponesse fine a tutti i privilegi materiali ed anche «ideali» che la Chiesa seppe mantenere ed accrescere, dalle guarentigie del Regno al Concordato col fascismo, fino alla Costituzione repubblicana.

La proclamazione del 17 marzo 1861 fu risultato e sanzione dell’inesistenza di una rivoluzione popolare, giacobina e democratico-borghese, in Italia. In effetti l’epoca delle «rivoluzioni borghesi» era già tramontata da un pezzo e in Italia il rischio forte era che una coerente linea «giacobina» venisse scavalcata da un moto «sanculotto» ancor più radicale. Questo fu uno degli argomenti forti della politica estera cavouriana, volta a guadagnarsi il sostegno della Francia e la benevola neutralità dell’Inghilterra, operazione complementare a quella della cooptazione di buona parte del partito d’azione nella prospettiva dell’unità come allargamento dello Stato dei Savoia.
Fatto è che la proclamazione del Regno può essere assunta non come evento che richiede l’elaborazione di presunti «valori condivisi» all’insegna dell’italianità ma, al contrario, come momento cruciale di un processo, precedente e seguente il 1861, da cui sono sorti problemi irriducibili, difficili da relegare nel pozzo nero della smemoratezza per il semplice fatto che essi sono ancora presenti e vivi sotto i nostri occhi, a contraddistinguere le peculiarità della storia e delle trasformazioni dell’Italia, regia, fascista, repubblicana, e sempre borghese, e che necessariamente devono dividere. Anzi, il fatto è che su questi politicamente non ci si divide abbastanza. Si può solo tentare di neutralizzarli astraendo una data dal contesto reale.
Indico solo due questioni macroscopiche, la cui genesi si radica nei modi del processo di unificazione e nella gestione dello Stato dal Regno in avanti.
La prima è la «questione meridionale». Quello italiano è unico tra gli Stati europei a presentare una spaccatura socioeconomica in due parti, non in singole aree, del territorio (l’articolazione in più «italie» non altera sostanzialmente il dato di fondo). Il confronto più pertinente si potrebbe forse fare con il Regno Unito quando esso comprendeva anche tutta l’Irlanda. Ma l’Irlanda era a tutti gli effetti un’altra nazione, che oppose una fiera resistenza.
Il caso del Mezzogiorno italiano fu diverso. Lì il popolo non difese affatto il Regno borbonico ed anzi, fece del suo meglio per abbatterlo, in concomitanza con lo sbarco e le operazioni di Garibaldi. Il punto è che quel moto popolare, urbano e rurale, venne contenuto e soffocato perché una rivoluzione «giacobina» e «sanculotta» era ovviamente incompatibile con l’unione al Regno di Sardegna. Quella fu la base politica per la formazione di un nesso strutturale e funzionale tra la modernizzazione, concentrata in alcune aree del Nord, e la relativa conservazione dei rapporti sociali dati nel Mezzogiorno, a cui lo stato d’assedio e la connivenza di «cappelli» e «galantuomini» con la mafia e della camorra, antiche e nuove, non sono estranee. Con un prestito dalla teoria della dipendenza, lo Stato e il capitalismo italiani si nutrono tuttora di una dialettica tra sviluppo e (relativo) sottosviluppo, da non intendersi come immobilità o assenza di qualsiasi sviluppo capitalistico.
Il contrasto così fortemente territorializzato tra modernizzazione capitalistica e ineguaglianza dei ritmi e dei modi è una delle ragioni del perenne discorrere sulle «tare» italiane, sull’insufficiente modernizzazione, sul peso della rendita (oggi meno, a dire il vero), sul «parassitismo pubblico», illegalismo, familismo e via elencando fino al cosiddetto «populismo» berlusconiano. Una discussione infinita e inconcludente perché quel che non si riesce a digerire è che è esattamente questa la forma d’esistenza dello Stato italiano, a partire dal 1861, ed il modo in cui si è realizzata e si realizza in Italia la modernizzazione capitalistica. Che da nessuna parte, e meno che mai a livello mondiale, è qualcosa di lineare e omogeneizzante: la riproduzione dei differenziali di sviluppo (capitalistico) e delle differenze di regime politico (qui parlamentarismo liberale, lì dittatura militare, altrove la «democradura») è la forma e la sostanza della modernizzazione capitalistica.

La seconda questione è quella del trasformismo e del gattopardismo politico. Neanche questa è esclusività dell’Italia, ma nella sua storia ha un peso eccezionale, tanto da giustificare l’uso internazionale dei termini italiani. Anche in questo caso si può ben risalire alle vicende risorgimentali, dal connubio tra Cavour e il connubio tra Cavour e il centrosinistra di Urbano Rattazzi, alla Società nazionale ed al motto «Italia e Vittorio Emanuele» fatto proprio anche da tanta parte della Sinistra storica. Il trasformismo, parente del consociativismo, è uno dei modi attraverso i quali in Italia si riesce a impedire, quando l’esclusione a priori non riesce a reggere più, la persistenza di un’opposizione politica che sia degna di questo nome, idealmente e programmaticamente qualificata.
Ebbene, questo centocinquantesimo anniversario della proclamazione del regno d’Italia cade nella fase in cui trasformismo e gattopardismo italici raggiunto livelli ineguagliati di diffusione e di cinismo morale e politico. Le pretese patriottarde di questo anniversario regio-repubblicano ne sono un esempio.

giovedì 17 marzo 2011

LA CGIL DEVE STARE FUORI DAL CORO INTERVENTISTA IN LIBIA

Quanto sta accadendo in questi giorni intorno alla vicenda libica deve essere per la Cgil fonte di profonda riflessione e di obiettiva valutazione. Una sottovalutazione dei fatti porterebbe la confederazione ad assumere posizioni che invece di andare a sostegno delle popolazioni in rivolta, agevolerebbero la conservazione del dominio dei paesi occidentali e dei fantocci al potere in diversi stati arabi. Il rischio ci sembra presente in CGIL dalla lettura di comunicati e da diversi interventi dove si è affermato che di fronte ad un dittatore che spara sui civili inermi non è possibile mantenere un atteggiamento equidistante e che in qualche modo Gheddafi va fermato.
Gli avvenimenti in Libia si sono innescati su quelli della Tunisia e dell'Egitto ed in concomitanza con una serie di proteste e rivolte popolari in altri paesi del Maghreb e della penisola arabica. Non è possibile in poche righe approfondire le cause, i risultati ottenuti ed i possibili sviluppi di questi importanti fenomeni sociali, analisi che comunque andrebbero fatte all’interno della Cgil. A nostro modo di vedere è importante evidenziare alcune palesi differenze tra la situazione libica e le altre vicende dell’area. Negli altri paesi abbiamo assistito ad un crescendo di manifestazioni popolari, composte da differenti strati sociali e per la maggior parte disarmate che sempre più numerose invadevano le piazze. Ciò è avvenuto con particolare evidenza in Tunisia ed in Egitto, dove l'inizio delle proteste veniva da almeno due anni prima, con l’intensificazione di importanti scioperi degli operai nei centri industriali prontamente repressi nel sangue dai rispettivi regimi amici dell’occidente. In Libia non abbiamo assistito ad un escalation di questo tipo, non ci sono resoconti di proteste di massa nelle piazze delle principali città del paese, in particolare della regione Tripolitania, né tantomeno di scioperi da parte degli operai. Dai resoconti più attendibili che abbiamo a disposizione quella in atto sembra più un'operazione armata di una parte della popolazione, in particolare quella residente in Cirenaica e appartenente ai clan tribali presenti in quella zona, nei confronti dei clan tribali facenti capo a Gheddafi (la tribù è ancora struttura portante della società libica). Da sottolineare è che il tenore di vita medio dei libici è più elevato di quello dei tunisini o degli egiziani. Tanto è vero che i cittadini libici normalmente non emigrano in cerca di lavoro in altri paesi. Il movimento di protesta appare spinto da diverse motivazioni: gestione del petrolio, secessione della Cirenaica dal dominio dei clan Gheddafi, volontà da parte dei giovani, numerosissimi come negli altri paesi arabi, di costruire una vera nazione liberandola definitivamente dal dominio dei clan familiari. Questo forte desiderio è trasversale all’appartenenza tribale, non è concentrato da una sola parte e questo è l’aspetto che più ci dovrebbe coinvolgere in questa vicenda. Dentro il movimento però si inseriscono anche i tentativi di controllo e strumentalizzazione da parte dei paesi dominanti e delle rispettive multinazionali, in particolare occidentali. Si tratta di un conflitto che in ogni caso si inserisce nel quadro generale che ha alla sua radice la crescente lotta concorrenziale, acuita dalla grave crisi economica, tra nazioni e tra aziende multinazionali per la spartizione delle materie prime nel mondo. Se partiamo da queste considerazioni, l’appiattimento mostrato dal nostro sindacato sulle posizioni tenute dai governi europei, americano e di parte dei paesi arabi appare molto pericoloso, perché  rischia di avallare nella sostanza le loro politiche di ingerenza.
Una grande organizzazione sindacale non può limitarsi alla totale disinformazione propinata da televisioni e giornali. Ad esempio, le sanzioni Onu ed il deferimento di Gheddafi al Tribunale penale internazionale, sono state assunte sull’onda della notizia, poi smentita, di 10.000 morti procurati dai bombardamenti aerei del regime libico su civili inermi e dalla diffusione di foto di fosse comuni rivelatesi in seguito un preesistente cimitero della periferia di Tripoli. In questo modo la macchina bellico-mediatica ha ottenuto il suo scopo: creare nell’opinione pubblica un forte risentimento nei confronti del dittatore e precostituire le possibilità per l’intervento militare che se fin ad oggi non è avvenuto è dovuto soltanto ai contrasti tra i vari galli nel pollaio per decidere chi si debba sobbarcare l’onere della missione, al fatto che i ribelli non sembrano poi così facilmente controllabili dai paesi occidentali e non ultimo al timore di suscitare nuovi sentimenti anti imperialistici in un’area caldissima. Queste manovre le abbiamo già viste in passato, la più clamorosa è stata quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam, e non possiamo continuare a non riconoscerle. Questo non significa appoggiare l’attuale regime libico, anzi, se vogliamo sostenere la rivolta libica dobbiamo appoggiare l’elemento comune alle altre situazioni, cioè l’esplosiva volontà dei giovani di liberarsi non solo di Gheddafi ma anche di una struttura sociale atavica che impedisce loro di vedere un futuro certo. Ma esistono delle difficoltà reali che indeboliscono la lotta e sono le tribù e l’organizzazione sociale arretrata.  In Egitto e in Tunisia invece l’estensione e la compattezza della protesta hanno avuto la meglio su apparati repressivi, non meno feroci di quelli libici. Gli stati occidentali  hanno dovuto prenderne atto ed abbandonare Ben Alì e Mubarak, loro grandi alleati.
Invece sulla Libia dopo soli tre giorni di notizie fasulle e roboanti è partito il tam tam politico-mediatico: “fermiamo il crudele dittatore”; “Gheddafi è un criminale che spara sul suo popolo” (frasi echeggiate anche dentro la Cgil) ed ecco arrivare subito le sanzioni Onu e il deferimento al tribunale penale, con una velocità inaudita per organismi di solito molto lenti o incapaci di decidere come è avvenuto nel caso dell’invasione di Gaza e prima ancora del Libano decretata dai governi israeliani e nel corso delle quali i militari bombardarono tranquillamente uomini, donne e bambini, procurando qualche migliaio di morti certificati.  O come quando si è trattato delle “guerre umanitarie, per la democrazia, contro il terrorismo ecc. ecc.” portate in giro per il mondo dalle coalizioni Usa-Nato e che ormai assommano milioni di vittime civili dirette ed indirette.
 Perché Gheddafi è un criminale e gli altri no?  I Bush, Blair, Sharon non sono stati mai incriminati né è mai stata invocata la loro deposizione. Lo stesso Obama continua più del predecessore a fare guerre in giro per il mondo, vanto che gli è valso l'assegnazione del Nobel per la pace. Mentre in Egitto sono state uccise almeno 400 persone e Mubarak se ne sta a Sharm tranquillo. Così come nello Yemen, in Arabia Saudita, in Bahrein si spara sulla folla disarmata e non si dice nulla.
In conclusione, le parole d’ordine della Cgil non possono essere simili a quelle adottate dai politici degli Stati che molto più degli altri hanno le mani in pasta. Non si può invocare la non equidistanza rischiando di appoggiare un nuovo intervento militare che non avrebbe niente di umanitario. Così come non si deve essere equidistanti quando non si dovrebbe. Per l’Afghanistan si è invocata l’"exit strategy" senza denunciare apertamente che si tratta di una guerra di aggressione svolta anche dall’Italia e senza chiedere a gran voce l’immediato ritiro dei militari. La Cgil deve saper distinguere le diverse situazioni, difendere apertamente le rivendicazioni popolari che nascono dal basso ed evitare di schierarsi senza accorgersene con le manovre dei paesi ricchi e delle multinazionali che mirano proprio a conservare, invece, lo status quo. Solo in questo modo possiamo aiutare e prendere esempio dalle lotte medio orientali e nordafricane, dove tante persone a cominciare dagli operai hanno preso in mano la propria vita ed hanno aperto una stagione di vera conquista sociale e di resistenza, contro i potenti locali ed internazionali. Se non ora, quando?


     Simona Barbiani  (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
     Luca Berrettini (Direttivo Fisac-Cgil Roma Nordest)
     Maurizio Bisegna (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
     Antonella Bonvini  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
     Alessandro Castrichella (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
     Leonardo De Angelis  (Direttivo Camera del Lavoro Cgil Roma sud)
     Antonio Formichella  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
     Andrea Furlan  (Direttivo Regionale Filcams-Cgil Lazio)
     Luigi Giannini  (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
     Giuseppe Legnante  (Direttivo Fisac-Cgil Roma Sudovest)
     Antonio Maiorano (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
     Maurizio Mancuso  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
     Pasquale Panìco (Segretario Rsa Filcams Cgil)
     Riccardo Tranquilli  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)

ARABIA SAUDITA E SIRIA (MONDO ARABO IN RIVOLTA V), di Pier Francesco Zarcone


L’oscurantismo e l’assolutismo dell’Arabia Saudita

È uno Stato noto per essere uno dei maggiori produttori di petrolio, per avere una monarchia assolutista fra le più oscurantiste, per il fatto di relegare le donne in una subordinazione/esclusione indegna (anche del buon senso), per la straordinaria ricchezza del re e degli sceicchi - pari solo alla loro insensibiltà sociale - e per essere un importante e fedele alleato di Washington nell’area (cosa che, nell’insieme, è forse il minore dei mali sauditi). Di questo poco popolato paese, luogo di nascita del Profeta dell’Islam, terra di deserti e beduini, si può dire anche altro, generalmente sottaciuto dai grandi mezzi di (dis)informazione di massa (al riguardo va detto che giocano interessi petroliferi e interessi statunitensi).
Anche il presente saudita viene spiegato dal suo passato, i cui momenti cardine stanno nel XVIII secolo e subito dopo la Grande guerra del ‘14-’18. La lontananza temporale è priva di rilievo, stante la linea di continuità che lega eventi antichi alla contemporaneità. Orbene, nel 1744 si realizzò un’alleanza strategica - mai più rotta - fra la dinastia beduina dei Saud e una specie di “restauratore della purezza originaria dell’Islam” dal nome Muhammad Ibn Adb al-Whhab. Costui, ispirandosi ai contenuti elaborati nel XIII secolo della nostra era da una scuola giuridica musulmana, si fece banditore di un’interpretazione assolutamente restrittiva e puritana del Corano e della legge islamica, detta appunto wahhabita, mediante la forza delle armi. In quell’epoca i wahhabiti furono sonoramente sconfitti, ma non furono distrutte né la famiglia saudita né la sua adesione a quel movimento (religioso e giuridico allo stesso tempo). Il ritorno offensivo e vendicativo dei Saud sulla scena araba si ebbe dopo la disintegrazione dell’impero ottomano nel 1918, ed ebbe il suo momento-chiave nella cacciata dalla Mecca dello Sceriffo Husayn Ibn Ali, della famiglia Hashimita e quindi discendente del Profeta. I vincitori si impadronirono di quasi tutta la penisola araba, imposero il loro credo e Ibn Saud divenne il primo monarca dell’Arabia Saudita wahhabita. Vale a dire (e questo è importante) del primo Stato islamico definibile (a seconda del sistema concettuale a cui si aderisce) integralista, fondamentalista, radicale, oscurantista da Medio Evo ecc.
La scoperta di immensi giacimenti petroliferi fece sì che i Saud, da signori di uno scatolone di sabbia di scarsa importanza (anche perché chiuso a nord dalle dinastie nemiche degli Hashimiti di Transgiordania e Iraq, e a sud dai possedimenti britannici) diventassero strategicamente importanti per l’imperialismo statunitense. L’alluvione di ricchezza - che ha interessato essenzialmente la famiglia reale, tanto numerosa (22.000 membri) da essere paragonabile a una legione (di parassiti) - per molto tempo non modificò di molto la cultura e la mentalità arcaica e chiusa di quell’angolo di mondo. Cioè di una società beduina rimasta per secoli poco collegata con l’esterno. Sulle difficoltà affrontate da Ibn Saud - con il boom petrolifero - per evitare reazioni popolari violente contro l’avvento di manifestazioni diaboliche come il telefono e la radio esiste una vasta aneddotica. Vale la pena ricordare che eventi drammatici legati all’inaugurazione del primo canale televisivo saudita in lingua inglese portarono all’uccisione di re Faisal nella seconda metà degli anni ’70.

martedì 15 marzo 2011

QUALUNQUEMENTE (Giulio Manfredonia, 2011), di Pino Bertelli

La stupidità, in generale, non è una qualità naturale,
ma un prodotto sociale e socialmente rafforzato.
(Theodor W. Adorno)

I. Il cinema della stupidità

Il cinema italiano ai tempi della stupidità spettacolare ha il successo che si merita... frotte di imbecilli decretano il consenso (non solo) economico ai cinepanettoni di Neri Parenti, Aldo Giovanni e Giacomo o ai deliri calcolati di Antonio Albanese, diretto (male) da Guido Manfredonia in Qualunquemente. A vedere bene queste operazioni commerciali è difficile non accorgersi che tanta sciatteria espressiva è figlia dello spettacolo televisivo che imperversa nelle case degli italiani... puttane, papponi, politici e ruffiani circolano impunemente nell’immaginario collettivo e fanno dimenticare le lotte sociali degli studenti, dei precari, dei disoccupati, dei migranti... attanagliati nell’infelicità della nostra epoca.
Il linguaggio dell’humour, l’ironia o il cinismo intelligente non sembra conosciuto a questi vassalli dello spettacolo integrato e nulla emerge dai loro film, se non l’apoteosi del vuoto o la promessa obbligatoria di ridere sul crepuscolo della comicità che morde il potere e non l’assolve dai suoi peccati seriali. La società dello spettacolo celebra la demenza accettata e i mezzi di comunicazione di massa organizzano magistralmente l’ignoranza con pseudo-avvenimenti mondani... l’impero della comunicazione accresce i propri sudditi nel mercantilismo globale e solo i poeti, i bambini o gli insorti della Rete... si chiamano fuori dal dominio dell’economia spettacolare, che ridotto gli uomini a merce.
Il cinema giovanilista e quello demenziale segnano i parametri ricettivi dell’analfabetismo cinematografico dei nostri tempi... il peggio non sta nell’ignoranza, ma nell’illusione di sapere... poiché il cinema degli imbecilli è innanzitutto un verminaio di sciocchezze e strumento di lusinga ininterrotta del potere (specie quando finge di morderlo alla gola), l’ubriacatura delle masse continua a riprodurre l’ineguaglianza sociale e il trionfo del dispotismo non teme incrinature. In questo senso i buffoni con la faccia da boia in attività, come Sergio Marchionne, possono avere ragione sui diritti calpestati dei lavoratori, in buona pace (e complicità) della sinistra (tutta) connivente con i crimini della politica istituzionale. Chi controlla la memoria degli ultimi, controlla il futuro... chi controlla il presente, alza la ghigliottina della disoccupazione, della carcerazione e dell’esclusione delle giovani generazioni. Una minoranza di caimani in doppio petto mercanteggia sulla sopravvivenza di una maggioranza asservita e non sono mai abbastanza le ondate di rivolta che scuotono alla base l’intero edificio sociale e vogliano dare fuoco ai palazzi del potere, non per cambiarlo, ma per distruggerlo dalla faccia della terra.
Qualunquemente è un film stupido... molto stupido... i loro realizzatori lo sanno di certo... gli interpreti anche. L’ambientazione “sudista” è congeniale... circoscritta a un piccolo comune della Calabria... il che vuol dire che in altri posti, altre città, la politica si fa con altri mezzi... tutto falso... i politici dell’italietta berlusconiana (sinistra inclusa), com’è nel costume di questo paese catto-fascista, sono sempre stati intrecciati e complici con mafierie d’ogni sorta... del resto, anche i loro elettori sono ben coscienti di sostenere questi pagliacci dell’ordine e contenti di sostenere il crimine nell’alveo del “buon governo”.
La stupidità è il pane quotidiano degli oppressi che permettono a chi dispone dei mezzi di produzione di trattarli da schiavi e non da uomini liberi... i padroni si sono accorti di valere quanto i loro porci, soltanto quando una rivoluzione sociale li ha appesi per il collo ai cancelli delle fabbriche... la sottomissione è gradita al potere. La paura, il disagio, il silenzio crescono in base alle costrizioni, alle limitazioni imposte e all’assurda continuazione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. I fautori della tolleranza sono sempre inclini alla sopraffazione verso i dominati che non si adattano alla servitù volontaria... partiti, sindacati, chiese... invitano alla cancellazione della personalità e la sola coerenza che allevano è quella della genuflessione... la storia del terrorismo è scritta dallo Stato (l’assassinio di Giuseppe “Pino” Pinelli è un esempio per tutti) e la disinformazione è il cattivo uso della verità.
Il governo dello spettacolo canta le sue armi e falsifica l’immondezzaio dei bisogni... è padrone assoluto della memoria storica e terrorista incontrollato dei progetti vessatori che plasmano il divenire della sopravvivenza... i regnanti sono aggrappati agli scranni del parlamento e senza mezzi termini eseguono le loro sentenze sommarie... chi non sta al giogo è escluso dai banchetti e dai festini, la potenza della merce organizza magistralmente il falso di ciò che succede e, nel contempo, trasferisce tutto ciò che è menzogna e putridume, in una rappresentazione televisiva che tutto assolve e tutto conferma. Nessuno vive più secondo i propri piaceri o la propria creatività, ma è oggetto speculare della merce o della politica che consuma... i dominatori hanno bisogno della miseria per perpetuarsi e la mantengono per dare sempre più forza e risalto ai loro crimini impuniti... solo il ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato ha la capacità di fare uscire gli sfruttati dal proprio stato di sottomissione e proiettarli verso la ricerca della felicità... non ci sono poteri buoni, ci sono servi imbecilli! La vera libertà è al di sopra delle leggi, del diritto e delle istanze sociali... si chiamino, patria, religione, stato o famiglia... si è uomini prima di essere studenti, precari, disoccupati, migranti o sfruttati... violenza aiuta dove violenza regna.

II. Qualunquemente

Qualunquemente celebra il qualunquismo e la politica mafiosa... a una lettura superficiale sembrerebbe il contrario... non è così. Cetto La Qualunque (Antonio Albanese) si candida sindaco di un paesino calabrese, è appoggiato dalla mafia locale... i cittadini lo vedono come l’“uomo della provvidenza” e lui, appena uscito di galera, è fiero delle sue amicizie criminali. Ha una moglie italiana un po’ stupida e un figlio idiota... una compagna brasiliana bella e inutile, e una bambina vestita come una bambola... ha una casa deliziosamente kitsch (di cattivo gusto) e un’azienda turistica tenuta (in sua assenza forzata) dalla cosca. I mafiosi scelgono Cetto La Qualunque per le elezioni a sindaco della città... per avvertire l’altro candidato di che pasta sono fatti, fanno saltare in aria la sua auto... Cetto La Qualunque, tra frizzi e lazzi insopportabili, elogia l’inquinamento del mare, saccheggia reperti archeologici, si appropria di terreni demaniali... fa comizi nelle strade, in chiesa, al bar... per vincere le elezioni ricorre a brogli elettorali e infine assume uno specialista del “nord” (Sergio Rubini) che lo educa all’acquisizione del consenso... non mancano nemmeno il bagno in piscina con un nugolo di ragazze nude e la carcerazione del figlio in sua vece... si vede, e bene, che Albanese e il regista allungano a dismisura gli spazi-temporali delle gag televisive e ne viene fuori una noia im/mortale.
La comicità di Albanese è ripetitiva, anche volgare... e il personaggio è piuttosto svilito e ugualmente futile di quello televisivo... non ci sono battute fulminanti né le facce dei comprimari sostengono Albanese nella sua furibonda sequela di luoghi comuni... non si ride né si piange, viene voglia anzi di uscire dal cinema, e in fretta. Il qualunquismo impera. E pensare che qualche critico lo ha scambiato per un film “impegnato”, di “denuncia” che ha scelto la via della satira anziché quella della tragedia. Vero niente. Qualunquemente è una bassa operazione commerciale che va ad alimentare la mediocrità splendente del cinema italiano, più ancora, e questo ci addolora, raffigura la gente del “Sud” alla stregua di coglioni al servizio della mafia.
La regia di Manfredonia è banale, adatta all’indirizzo televisivo per il quale il film è stato fatto... gli interpreti principali sono poco più di bozzetti, macchiette che poco hanno a che fare con l’afflato cinematografico... non c’è cattiveria epica ma solo artifici di benevolenza dispensata e dosata per il pubblico domenicale... Albanese esprime quanto di più triviale si possa vedere sullo schermo o in politica, ma non fa ridere... ci pare perfino la brutta copia di “Fantozzi”... ma l’intelligenza autoriale di Paolo Villaggio è su altri piani della comicità surreale. La sceneggiatura di Albanese e Piero Guerrera è sciatta e lo schermo la rigetta impietosamente... la fotografia di Roberto Forza è inesistente, sovraesposta, scialba come lo sono la scenografia, i costumi e il montaggio... la musica della Banda Osiris è roba da campeggiatori... gli autori si sono guardati bene di indirizzare il film nella provincia calabrese e non andare a sfiorare la casta dei politici... non si ride di Berlusconi, né di Fini, né di D’Alema e nemmeno del cane di La Russa... questa è gente senza scrupoli, buona per tutte le stagioni della politica autoritaria, sono capaci di farti sparare in bocca se qualcuno attenta alla loro apparente dignità... tuttavia l’assenza di talento non giustifica tanta cretineria vezzeggiata, né l’abuso di una presunzione estetica che non c’è... basta cambiare mestiere... tutti i lavori sono buoni, e specie in Calabria la mafia sa come utilizzare a basto costo e con il fucile puntato ad altezza d’uomo i migranti d’ogni arte... proprio quella mafia che Qualunquemente assolve in piena regola... ci vuole coraggio a vedere per intero questo film... o una buona dose d’inedia o d’imbecillità.
Qualunquemente, va detto, esprime tutto il male del cinema d’intrattenimento italiano... il cinema è un’altra cosa... un film che vale — comico, drammatico, documentario — lega il piacere col dolore, la gioia con la malinconia, la bellezza con la verità... e si accorda con l’inguaribile epifania del meraviglioso che lo contiene... l’ammirazione e lo stupore della “Lanterna magica” abitano i nostri sogni e nel dispendio magnifico della sala buia ci restituiscono l’incanto di un’infanzia eidetica mai perduta. Il cinema non è altro che il linguaggio simbolico delle passioni o un dispositivo mercantile che uccide il ludico senza grazia. Il cinema o mostra l’innocenza del divenire o non è niente. Col cinema non si fanno le rivoluzioni, ma il cinema può contribuire a crescere uomini migliori!

26 volte gennaio 2011

domenica 13 marzo 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA IV, di Pier Francesco Zarcone


Un requiem per la rivolta libica?
Pur sperando che non vada a finire così, indubbiamente in questo paese il quadro è cambiato. Gheddafi è in marcia su Bengasi e ha “ripulito” la parte occidentale della costa. Una rivolta all’inizio apparentemente inarrestabile ora ha di fronte a sé la prospettiva della disfatta e della più crudele repressione. Cinicamente parlando, il Colonnello ha avuto il “buon senso” di utilizzare il mare di denaro su cui naviga per fondare la forza armata del suo regime su corpi scelti di membri della sua tribù e su un robusto corpo di mercenari stranieri assai ben pagati e armati.
Ormai è certo che i ribelli libici da soli – cioè senza almeno adeguati rifornimenti di armi e munizioni - non ce la fanno. Sull’ipotesi teorica di un intervento diretto di potenze imperialiste già ci si è espressi in senso negativo e motivato. Però i ribelli hanno bisogno di aiuti esterni, altrimenti Gheddafi vince. Resta la domanda su cosa si dovrebbe fare in siffatta situazione? Al di là della verbale e reiterata esistenza di più opzioni, e dei vuoti inviti a Gheddafi perché se ne vada, le potenze imperialiste non stanno andando. Così evitano di combinare ulteriori guai. Si capisce pure la ragione dell’inattività, al di là dell’iniziativa diplomatica francese concretizzatasi nel riconoscimento del consiglio rivoluzionario di Bengasi (iniziativa unilaterale dal sapore di prenotazione di concessioni petrilifere in caso di vittoria, o resistenza, dei ribelli; ma nulla di più).
Già impegnate in Iraq e Afghanistan, le potenze occidentali non se la sentono (anche economicamente) di aprire un terzo fronte, pur sapendo che un Gheddafi vittorioso presenterà il conto a chi lo ha “mollato” dopo aver fatto affari con lui e averlo coccolato. In base all’atteggiamento complessivo di tali potenze, e alle cose da loro dette e non dette, si può pensare che siano in gioco alcuni fattori senza i quali si capirebbe poco: la diffidenza per i ribelli libici dei quali non si sa molto e la loro appartenenza a un mondo fortemente tribalizzato (col rischio di una ripetizione del caos somalo); la presunzione/speranza che la fine della crisi libica normalizzi i prezzi petroliferi; e per finire l’interesse ad avere qualcuno disposto a essere il disumano (ma utile) custode della costa sud in funzione anti-immigrazione verso l’Europa.
In fondo è l’ennesima dimostrazione di come per l’imperialismo i dittatori di un certo colore, pur se figli di puttana, siano sempre “i propri” figli di puttana, e di come risulti più “proficuo” che la democrazia borghese resti confinata nel “primo mondo” e i diritti umani siano alibi per operazioni economicamente proficue.
Questa critica non è necessariamente in contraddizione con il giudizio negativo circa un intervento diretto dell’Occidente, se procediamo nel senso di dare una risposta alla domanda sul “che fare”. In realtà il soggetto collettivo suscettibile di agire, e a cui potrebbero essere forniti i necessari supporti, ci sarebbe: la Lega Araba. Questo organismo alla fine ha chiesto all’Onu l’instaurazione di una no fly zone. Si tratta di un’iniziativa non riducibile alla mera dichiarazione di interdizione di uno spazio aereo, poiché senza una rapida e adeguata preparazione militare - distruzione dei sistemi radar e contrarei, e della capacità operativa dell’aviazione locale - tutto rimarrebbe senza effetto. Ma ancora non si capisce chi vi dovrebbe provvedere? Forse gli occidentali? Un’ulteriore dimostrazione di ipocrisia, perché prima che l’Onu si muova (e noi sappiamo da sempre che l’Onu si muove solo per sedare le rivolte, non per incoraggiarle), e che dopo il suo “via” lo facciano gli incaricati dell’esecuzione, Gheddafi avrà già vinto.
In  realtà ben pochi griderebbero allo scandalo se la Lega Araba avesse deciso di provvedere essa stessa alla bisogna, ricevendo dagli occidentali tutte le informazioni idonee a preparare la no fly zone. E in concreto si potrebbe dare l’incarico esecutivo all’Egitto, dotato di un’aviazione rispettabile. Parallelamente non dovrebbe essere difficile rifornire celermente i ribelli degli armamenti di cui necessitano, giacché se è l’aviazione di Tripoli ad “ammorbidirne” le posizioni, in concreto sono gli armati di Gheddafi a conquistarle. Ma si può tranquillamente scommettere che ciò non accadrà. Le conseguenze non si limiteranno al territorio libico o alle reazioni vendicative di Gheddafi all’esterno del suo paese, bensì il fatto stesso della sua vittoria avrebbe conseguenze pesanti e negative nei paesi – come lo Yemen, per esempio – in cui da settimane il popolo cerca di mandare a casa il dittatore locale. Sarà quindi la Libia lo scoglio su cui si infrangerà l’ondata della ribellione araba che, nel suo complesso e nella sua pericolosa dinamica, non è stata mai vista di buon occhio dall’Occidente?
 
Riflessioni provvisorie (forse) sugli eventuali sbocchi “democratici” nei paesi arabi liberati
In una precedente corrispondenza si era parlato dell’assenza, a breve o medio termine, di prospettive di rivoluzione sociale (in senso proprio) nei paesi arabi in cui la rivolta ha avuto successo e in quelli dove è ancora in corso. Sembrano essere in atto processi volti all’instaurazione di formali democrazie rappresentative di tipo borghese, magari più effettive dei sistemi fasulli messi in atto dai dittatori deposti o da deporre. Meglio che niente, si potrebbe dire, e restano nell’angolo i favorevoli (come chi scrive) a quella che una volta si chiamava “democrazia diretta” (detta pure dai comunisti greci nel secolo scorso “laocrazia”). Certamente l’avvento della democrazia rappresentativa costituisce un miglioramento rispetto alle tiranniche e sanguinarie autocrazie arabe; pur tuttavia dal punto di vista della sinistra rivoluzionaria ben se ne conoscono insufficienze, limiti e anche pericoli per l’emancipazione popolare. Resta comunque il fatto che non tutti i sistemi rientranti nella categoria “democrazia rappresentativa” sono uguali fra loro: alcuni sono meglio, altri peggio.
A questo punto si impone una riflessione (sia pur sommaria) su alcuni fondamentali problemi con cui avranno pesantemente a che fare i processi politici nel mondo arabo - a prescindere dal fattore “radicalismo islamico” – tenuto conto di un elemento fondamentale: la democrazia rappresentativa contraddice se stessa (ovvero è di pura facciata) quando mancano il rispetto per gli avversari (sui nemici si potrebbe fare un discorso a parte) e lo spazio per la cosiddetta “dialettica politica”. In un linguaggio meno aulico ciò significa che prendere a mazzate per strada (o peggio) gli avversari è fuori dalla normale logica democratica. Quindi, la manifestazione delle donne cairote dell’8 marzo, interrotta dall’arrivo di un’orda di uomini minacciosi e pronti a usare le mani, non è una bella premessa per l’avvento di uno stato di cose diverso dal passato..
Veniamo ora al resto dei problemi in campo. La prima questione è che nei due paesi liberatisi del proprio dittatore la cosa è riuscita grazie all’atteggiamento assunto dai rispettivi eserciti (per quanto si trattasse di dittatori di estrazione militare, passati dalla caserma al palazzo presidenziale). Pensare a un prossimo futuro libero da pretese politiche dei militari pare un po’ azzardato, soprattutto in Egitto (ma non solo), dove generali e alti ufficiali gestiscono anche un rilevante potere economico, in buona parte autonomo. Nell’equazione politica da risolvere in un futuro prossimo venturo si tratta di un fattore M di un certo peso.
Ma altre incognite sussistono, e provengono dalle realtà socio/culturali dei vari paesi arabi. In primo luogo, si deve considerare un elemento comune sia alle dittature sia ai vertici delle democrazie borghesi corrotte: gli apparati repressivi, cioè, non svolgono mai un ruolo esclusivo per il mantenimento “dell’ordine”; esiste infatti uno strumento aggiuntivo dall’importanza non trascurabile, il cui nome è mantenimento della popolazione nel degrado culturale e/o nell’oscurantismo. E si tratta di una situazione definibile di massa.
Si tenga poi presente che – nel bene o nel male – la democrazia rappresentativa (di matrice borghese, non dimentichiamolo) si basa sull’atomizzazione individuale. Sempre attuali restano le pagine di Marx sul significato di metafora socio/economica del mito del “buon selvaggio” coniato nella fase iniziale del capitalismo. Non pare proprio che ciò operi nelle società arabe. Questo ci porta a un dato che non sarebbe specifico del mondo arabo se lì non si presentasse con una particolare valenza quantitativa e qualitativa: si tratta della particolare disomogeneità interna a dette società, pur essendo queste realtà collettive differenti fra di loro se singolarmente considerate in modo globale. Non si tratta, certo, di una caratteristica esclusiva a questa parte di mondo, presentandosi ogni società al suo interno disomogenea in modo maggiore o minore. Basti pensare all’incidenza delle diversità regionali sui piani economico, sociale e culturale; alla diversità fra grandi città, città di provincia e campagne; nonché alle interrelazioni fra tutti questi fattori.
Nel mondo arabo troviamo disomogeneità che esprimono il coesistere di realtà sociali (con tutto quanto l’aggettivo implica) addirittura appartenenti a ciò che per noi occidentali sarebbero epoche storiche differenti. Oppure esprimono la commistione, in singoli settori sociali, di elementi e situazioni definibili tipiche sia dei secoli XX e XXI sia dei secoli precedenti; di un “passato” immobile, si potrebbe dire. Non ci si deve fermare alla diversità urbana esistente, per esempio, tra la yemenita Sanaa e la siriaca Damasco, perché poco significativa, ma si deve evidenziare come rapporti socio/economici di tipo “medievale” (per intenderci alla buona) e i corrispondenti orizzonti culturali non esistono solo nelle campagne, sulle montagne o nelle oasi, ma anche all’interno dei grandi contesti urbani (come Il Cairo, Algeri, o Rabat). Questi rapporti sociali arcaici appartengono al tribalismo e/o a forme di clientelismo “parafeudale” economico e politico. A ciò si aggiungano i fortissimi vincoli che fanno dipendere le persone dalla famiglia (rarissimamente mononucleare) e dal clan a cui la famiglia appartiene. E famiglie e clan in certe società arabe fanno ancora parte di una tribù. Tutti questi assetti producono una strutturazione piramidale della società al cui vertice si pongono ceti privilegiati, rimasti inalterati in Tunisia come in Egitto.
Un elemento di novità (ma dal peso ancora non determinabile) emerge oggi dalla consistente quantità di giovani i cui orizzonti in qualche modo sono stati ampliati dall’uso delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Qui sta un’incognita X che potrebbe essere rilevante, almeno in termini potenziali. Il fenomeno va seguito con attenzione, poiché le società arabe – a differenza di quelle europee – sono maggioritariamente composte da giovani. Prendiamo l’Arabia Saudita (di cui ci si riserva di parlare nella prossima corrispondenza con maggiore ampiezza), dove il 60% degli abitanti ha meno di 30 anni, l’età media dei giovani è di 19 anni, l’uso di internet nel 2010 ha avuto un aumento del 240% e riguarda almeno 3 milioni di persone.
E dulcis in fundo ci sono le chiusure e i fanatismi religiosi, da non assimilare al solito radicalismo islamico oscurantista e bombarolo. Ci si riferisce a un fattore specifico, “tradizionale” per così dire, da leggere alla luce del principio: “forse la religione non è necessariamente l’oppio dei popoli, ma presa a forti dosi fa malissimo, a chi la assume e al prossimo suo”. È un fattore che non riguarda solo i musulmani, ma anche certe minoranze cristiane. I paesi arabi ad avere tali minoranze religiose di un qualche rilevo sono Palestina, Siria, Iraq (forse ancora per poco) ed Egitto (qui addirittura si tratta del 10% circa della popolazione). Proprio in Egitto coabitano due chiusure religiose: la musulmana (ben nota) e la copta, assai meno nota ma non meno dura. Se negli ultimi giorni di lotta al Cairo si sono visti affiancati a piazza Tahir croci copte e Corani, di recente abbiamo avuto, sempre al Cairo in un quartiere popolare, una contrastata storia d’amore fra un giovane copto e una giovane musulmana sfociata in tumulti di piazza a cui hanno preso parte centinaia e centinaia di persone, finiti con la bellezza di 14 morti e qualche centinaio di feriti. Ancora un pessimo segnale.
Questo coacervo di fattori appare di tale portata da far apparire molto arduo il cammino verso sistemi democratico/rappresentativi come li intendiamo in Europa. A seconda delle forze che prevarranno, gli scenari al momento più probabili sono quello di “democrazie totalitarie” se prevalessero le chiusure di matrice religiosa, e quello di sistemi parlamentari autoritari, in particolar modo se i militari ponessero la loro ipoteca sugli attuali processi politici. Con l’aggiunta che, restando inalterata la struttura dei ceti privilegiati (in maggioranza o parassiti agrari o borghesia compradora), indipendentemente da “chi” li componga, in ambo i casi la persistenza della corruzione diffusa sarebbe tutt’altro che sorprendente. Con quel che segue.
Abbattere dittatori non è mai facile, ma ad un certo punto diventa possibile, mentre dimensionare in modo diverso le società liberatesi di costoro non è cosa fattibile dall’oggi al domani. Inoltre sussiste sempre il rischio che lo slancio popolare si spenga (anche per il popolo c’è la difficoltà del passaggio dalla condizione di sudditi a quella di cittadini) e la delusione di massa riapra la via agli autocrati del domani.

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