Nei giorni precedenti il 17 marzo, presunto 150° anniversario dell’unità d’Italia, mi ero limitato a indicare l’imbroglio riguardante la data: mancando la cacciata del Papa da Roma e mancando quindi la capitale naturale e storica di qualsiasi cosa si possa intendere per «Italia unita», nel 1861 non si realizzò affatto l’unità dello Stato italiano. Si fondò invece una versione «moderna» e allargata dello Stato monarchico sabaudo-piemontese, con tutte le sciagure storiche che ne conseguirono e ancora ne conseguono. La casata dei Savoia si annetteva gran parte della penisola, mentre i patrioti italiani continuavano a reclamare e lottare per la liberazione di Roma e mentre il Papato si confermava come il nemico dell’unità d’Italia più tenace e più duraturo nel tempo. Nemmeno dopo la liberazione di Roma (20 settembre del 1870) il Papato accetterà tale realtà e continuerà a rifiutarla fino all’accordo con Mussolini del 1929 (i famigerati Patti Lateranensi). Per questo, se proprio si sente il bisogno di celebrare il 150° dell’unità d’Italia, occorre aspettare il 20 settembre del 2020, preparandoci al peggio in campo filovaticano, visto che già in questa occasione i media e i provveditorati nelle scuole sono riusciti a distogliere l’attenzione dal contributo decisivo che il Papato diede al mancato raggiungimento dell’unità d’Italia nel 1861, negli anni precedenti e in quelli successivi. Figuriamoci cosa accadrà nel 2020 se il potere mediatico e politico della Chiesa sullo Stato italiano sarà ancora forte come lo è attualmente, se non addirittura più forte...
Accanto ai tanti e a volte interessanti articoli che sono stati pubblicati riguardo a vicende specifiche o pagine storiche dimenticate del moto unitario italiano, sono però comparsi anche articoli di sintesi (editoriali di giornali, commenti di noti intellettuali ecc.), che mi hanno colpito per la loro vuotezza, disinformazione voluta e incapacità per l’appunto a sintetizzare cosa fosse in gioco nel processo storico che riassumiamo convenzionalmente con il bel termine di «Risorgimento» (che per molti di noi fa rima con Rinascimento). Non citerò la lunga lista degli articoli di sintesi «cattivi» (e chissà quanti me ne sono sfuggiti), preferendo indicare due ottimi testi (con altri che forse mi sono sfuggiti) che invece consentono di operare tale sintesi mirabilmente. Mi riferisco all’articolo di Amadeo Bordiga («Alla gogna, non sugli altari», apparso il 7 aprile 1961 su Il programma comunista) ripubblicato meritoriamente in questi giorni da molti siti, e l’articolo di Michele Nobile («Sull’anniversario della cosiddetta unità d’Italia come forma di feticismo storico»), scritto per il blog di Utopia Rossa (www.utopiarossa.blogspot.com).
Accanto ai tanti e a volte interessanti articoli che sono stati pubblicati riguardo a vicende specifiche o pagine storiche dimenticate del moto unitario italiano, sono però comparsi anche articoli di sintesi (editoriali di giornali, commenti di noti intellettuali ecc.), che mi hanno colpito per la loro vuotezza, disinformazione voluta e incapacità per l’appunto a sintetizzare cosa fosse in gioco nel processo storico che riassumiamo convenzionalmente con il bel termine di «Risorgimento» (che per molti di noi fa rima con Rinascimento). Non citerò la lunga lista degli articoli di sintesi «cattivi» (e chissà quanti me ne sono sfuggiti), preferendo indicare due ottimi testi (con altri che forse mi sono sfuggiti) che invece consentono di operare tale sintesi mirabilmente. Mi riferisco all’articolo di Amadeo Bordiga («Alla gogna, non sugli altari», apparso il 7 aprile 1961 su Il programma comunista) ripubblicato meritoriamente in questi giorni da molti siti, e l’articolo di Michele Nobile («Sull’anniversario della cosiddetta unità d’Italia come forma di feticismo storico»), scritto per il blog di Utopia Rossa (www.utopiarossa.blogspot.com).
Allo stesso blog è indirizzato questo mio contributo che non contiene alcuna elaborazione originale, ma che vuole essere un complemento informativo per i due articoli citati, per quello di Michele soprattutto. Mi spiego.
In molti articoli di provenienza «sinistra» ho visto una tendenza diffusa a gettare discredito su Garibaldi, considerandolo in genere corresponsabile dell’annessione piratesca che i Savoia realizzarono di gran parte della Penisola, all’ombra della nascente unificazione capitalistica dell’Italia e senza che questa borghesia riuscisse a portare a compimento una propria (peraltro tardiva) rivoluzione. Facendo di tutt’erba un fascio, su Garibaldi vengono scaricate le responsabilità del peggior mazzinianesimo (senza aver chiaro nemmeno cosa sia stata anche tale corrente politica nella sua grande varietà di posizioni, che arrivano fino a uno dei più grandi rivoluzionari della storia, cioè Carlo Pisacane), se non addirittura del cavourismo, vista la remissività con cui Garibaldi accettò momentaneamente e a un certo punto l’avvento della monarchia sabauda. E così, invece di attirare l’attenzione sul Garibaldi che lotta in America latina per l’indipendenza del Rio Grande do Sul o dell’Uruguay, che lotta in Francia per la Comune di Parigi, o in Sicilia contro i Borbone, o contro il Papato per ben due volte (1862 e 1867) - sempre armi alla mano e sempre rischiando in prima persona invece di accomodarsi sugli allori conseguiti - si richiamano le pagine più nere del garibaldinismo, a partire dai tragici fatti di Bronte (in Sicilia, sotto la diretta supervisione di Nino Bixio) e tutto il successivo sostegno che fu dato dalla spedizione dei Mille ai nuovi «padroni» siculo-calabri-campani.
È un modo vecchio e molto diffuso di semplificare i problemi della storia che, davanti a epopee spesso grandiose nella lotta di emancipazione dei popoli (condotta sempre e comunque sotto la direzione di qualcuno, bello o brutto che sia, interno o esterno al movimento), si preoccupa di ricercare la pecca, il fatto negativo (che immancabilmente esiste), per dedurne una negatività più generale del processo di liberazione esaminato o in corso. In generale questa metodologia, applicata al passato, serve a liberarsi sul piano individuale di ogni responsabilità storica rispetto al corso degli avvenimenti («nessuno ha incarnato concretamente i miei ideali e quindi me ne tiro fuori e anzi vi spiego come mi sarebbe piaciuto che fossero andate le cose») o, applicata al presente, serve a giustificare la condizione di isolamento dell’ossimoro incarnato sempre più spesso dall’«individuo politico» («nessuno incarna complessivamente i miei ideali e quindi me ne rimango solo, animo puro, a dirvi come dovrebbero andare le cose se ci fossero - a seconda dei gusti - un partito rivoluzionario, una rivista ben fatta, un’analisi adeguata, la mia direzione ecc.. Nell’attesa mi contento del mio blog, del mio giornaletto, del mio gruppetto, del mio leninismo a titolo personale, della mia carriera mediatica, universitaria ecc.»).
Io sono cresciuto diversamente e quindi non esito a confessarmi garibaldino. Sì, mi considero un garibaldino nel cuore (non da sempre, perché ho impiegato del tempo a capire la vera grandezza del movimento costruito da Garibaldi), un garibaldino sopravvissuto, ovviamente, ma certamente lo sarei stato nell’Italia di allora. Sarei stato un ammiratore e compagno di strada di Garibaldi per tutto ciò che di buono egli fece (in compagnia in questo delle migliori coscienze e intelligenze dell’epoca, non solo italiane - basti pensare a Bakunin); avrei combattuto con lui e, sperando di non aver lasciato la pelle sul campo, mi sarei differenziato rispetto ai suoi errori, magari tentando anche di convincere altre parti del movimento garibaldino ad aiutarmi. Dopo un periodaccio di dissidi e contestazioni, lo avrei però accompagnato nella sua appartenenza alla Prima internazionale e nella campagna per la Comune di Parigi; età e salute permettendo, avrei continuato la sua battaglia per la laicità dello Stato e dell’istruzione, l’indipendenza ideologica dal Papato, l’abolizione dell’esercito permanente, il decentramento comunale, la lotta contro la corruzione politica, il progresso delle classi lavoratrici ecc.
Questo è lo stato d’animo - di ex garibaldino-non-ancora-a-riposo - con cui mi sono messo a estrarre dalle Memorie di Garibaldi alcune parole sue, contenenti le indicazioni ideali che mi sembrano aver incarnato la sua grandezza in campo etico (senza dimenticare le molte debolezze e fragilità in campo politico, che però qui non potevano essere prese in considerazione: altri sicuramente provvederanno a farlo). E nel sottolineare questa grandezza etica del personaggio, non ho potuto tralasciare di indicare la sua refrattarietà alla gestione personale del potere, il suo rifiuto di trasformare in carriera politica la celebrità gigantesca di cui godeva in Italia e nel mondo (forse il primo politico mondialmente mass-mediatico della storia e a livello intercontinentale).
All’Italia attuale, dove decenni di trasformismo e carrierismo hanno distrutto alla radice la possibilità stessa che si organizzi un’area di pensiero e azione rivoluzionaria (vista la corruzione ideale che ha disintegrato la ex estrema sinistra fino a tempi recenti e ancora la disintegra), Garibaldi ha ancora molto da insegnare. Ma per capirlo occorre ripercorrere tutta la sua esistenza e ciò si può fare solo leggendo qualche biografia seria tra le molte scritte su di lui: le citazioni che seguono sono insufficienti.
Infine, una considerazione importante da parte di un guevarista guevarologo quale mi considero da sempre: lasciando da parte qualsiasi parallelismo politico (storicamente insussistente, anche se già proposto nel passato) tra Garibaldi e Guevara, rimane incontestabile la somiglianza umana fra i due personaggi: in campo etico, nel rifiuto della carriera politica a titolo personale, nella visione operativa e combattentistica degli ideali, nel rischio personale della vita, nella sfiducia verso gli apparati partitici o militari che fossero. Il lettore o la lettrice vedranno nelle citazioni che seguono l’entità delle somiglianze che indico o altre che si potrebbero scorgere. Invito questo lettore e questa lettrice a vigilare d’ora in avanti perché si impedisca ai detrattori di Garibaldi e degli ideali di emancipazione che egli incarnò, che insieme alle sue indiscutibili responsabilità negative si gettino a mare anche il suo internazionalismo, il suo cosmopolitismo, il suo senso laico della vita sociale, il suo anticlericalismo, la sua etica dell’abnegazione personale e, consentitemelo, la sua (loro) grande umanità.
In attesa di riprendere il discorso in preparazione del 20 settembre 2020, invio a tutte e tutti un caro saluto, ripetendo un celebere grido risorgimentale che conserva ancora tutta la sua validità e anzi vieppiù ne va acquistando nel tempo:
Roma o morte
Roberto Massari
(17-18 marzo 2011)
Le citazioni senza indicazione sono tratte dalle Memorie di Garibaldi (scritte tra il 1860 e il 1872). I numeri di pagina rinviano all’edizione della Rizzoli del 2006 (prima edizione del 1982). Gli articoli politici citati sono in appendice a detta edizione.
SULL’INTERNAZIONALISMO E L’INTERNAZIONALE
«...internarci nel cuore dell’Austria e gettare il tizzone del risorgimento alle dieci nazionalità che compongono quel corpo eterogeneo e mostruoso» (p. 306).
«L’Internazionale avrà tuttavia a fondamento del suo programma:
1. Il suo titolo, che non deve far punto differenza fra l’africano e l’americano, fra l’europeo e l’asiatico, e che perciò proclama la fratellanza degli uomini, a qualunque nazione appartengano;
2. L’Internazionale non vuole preti, né per conseguenza menzogna;
3. Non vuole eserciti permanenti a perpetuare la guerra, ma una milizia cittadina per mantenere l’ordine interno;
4. Vuole il governo amministrativo della Comune» (lettera del 20 sett. 1871, p. 370).
«Io appartengo all’Internazionale da quando serviva la repubblica del Rio Grande e di Montevideo, cioè molto prima di essersi costituita in Europa tale società; ho fatto atto pubblico di appartenere alla stessa in Francia nell’ultima guerra (...). Nessuna ingerenza ho io nell’Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma, sarà motivo, per i capi, a tenermi escluso. Ma se l’Internazionale, come la intendo io, sarà una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operaia, laboriosa ed onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi, e massime degli odierni, in conflitto col sibaritismo della autocrazia, teocrazia, e l’ingorda pleiade che s’arricchisce con le miserie altrui, io sarò coll’Internazionale. L’Internazionale è un fatto, a dispetto di chi lo nega. Essa proviene particolarmente dallo stato anormale in cui si trova la società nel mondo» (lettera del 14 nov. 1871, pp. 371-2).
«Il mio cosmopolitismo, caro Giorgio, nulla toglie all’immenso amor mio per l’Italia e ne puoi esser certo» (ibid., p. 373).
«“Tutti gli uomini sono fratelli”. Ed i preti hanno fatto delle nazioni tante belve che si distruggono barbaramente a vicenda» (discorso a Frascati del 14 giugno 1875, p. 378).
SULLA COMUNE
«[L’Internazionale] vuole il governo amministrativo della Comune. E questa è una delle maggiori glorie di Parigi...» (lettera del 20 sett. 1871, p. 370).
[Garibaldi fu eletto deputato all’Assemblea repubblicana francese e membro onorario della Comune, per la quale andò a combattere in Francia.]
«Garibaldi invece prende un atteggiamento di spregiudicata difesa della Comune, polemizzando apertamente e vivacemente con Mazzini e giustificando persino l’uso del tanto aborrito petrolio come mezzo di difesa contro gli eserciti versagliesi» (cit. da Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani, Rizzoli 1974, p. 47).
[Masini cita la lettera di Garibaldi a Giuseppe Petroni del 21 ott. 1871, riportata nell’antologia di Garibaldi - Lettere e proclami - a cura di Renato Zangheri, Milano 1954. Il libro di Masini è peraltro essenziale per ricostruire il cammino di amicizia e collaborazione che percorsero Bakunin e Garibaldi (messo in luce anche da altri celebri storici dell’anarchia, come George Woodcock e Max Nettlau). Garibaldi facilitò in ogni modo l’ingresso di Bakunin nel mondo del sovversivismo italiano e il secondo espresse a più riprese l’ammirazione per il primo, per es. dopo la visita che gli rese nel rifugio-prigione di Caprera.]
SUL REPUBBLICANESIMO (L’ANTIMONARCHIA)
«La monarchia sabauda aveva ottenuto la gran preda, ed ottenuta come la volea, cioè in uno stato che il diavolo probabilmente se la porterebbe via» (p. 303).
«Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquencento dottori, che dopo d’averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina» (testamento politico del 1871, p. 390).
SULLA DEMOCRAZIA SOCIALE
«Dunque istruzione obbligatoria e gratuita, ma laica. La riabilitazione intellettuale dev’essere completata anche dal materiale sollievo al proletariato, che dal lavoro che crea la ricchezza non ritrae sempre un sicuro guadagno contro la fame. E tale provvedimento dev’essere sollecito.
Per questa considerazione dobbiamo combattere l’assurdo sistema dell’imposte, specialmente quella spietata ed immorale che gravita sul pane quotidiano [tassa sul macinato], la tassa sul sale; e quante sono indirettamente onerose al povero, come il dazio consumo. Si sostituisca l’imposta unica col logico principio dell’applicazione progressiva.
La riduzione delle imposte dipende assai da quella delle spese esageratissime. Anche le strettezze finanziarie reclamano il discentramento [decentramento] che dovrebbe aver per base il Comune, come appare nelle più gloriose tradizioni della nostra Italia e nel moderno esempio dell’America.
Noi dobbiamo pretendere la completa applicazione delle libertà innate e riconosciute. Il diritto di riunione e la libertà della stampa cessino d’essere una menzogna. Noi dobbiamo pur dare calorosa adesione al suffragio universale (...); per esso il proletariato sinora escluso dalla rappresentanza legislativa, potrà reclamare giustizia» (appello del 1° agosto 1872, p. 375).
SULL’ANTIMILITARISMO
«A Calatafimi trovammo i più gravi feriti del nemico, e furon trattati da fratelli» (p. 259).
«Allora avevamo per avversari i borbonici, che si cercavano per combatterli. Oggi stava davanti a noi l’esercito italiano, che si voleva evitare a qualunque costo, ma che pure a qualunque costo ci cercava per annientarci (...). Tale scrupolo non ebbero certamente i soldati della monarchia, o, dirò meglio, i capi che comandavano quei soldati» (pp. 300 e 302).
«[L’Internazionale vuole] l’abolizione della guerra, degli eserciti permanenti, dei preti, dei privilegi...» (lettera del 20 sett. 1871, p. 371).
«...i deboli massime non possono parlare di disarmo. Benché non passerà molto che il disarmo e l’arbitrato internazionale, che germogliano nelle coscienze delle nazioni, diverranno una indispensabile realtà» (lettera alla Gazzetta della Capitale del 1° genn. 1876, p. 379).
SULL’ESERCITO POPOLARE CONTRO L’ESERCITO PERMANENTE
«Il governo, spinto dall’opinione pubblica, ma sempre nemico dei volontari, di cui diffida e teme, perché rappresentanti dei diritti e della libertà dell’Italia...» (p. 305).
«[L’Internazionale] non vuole eserciti permanenti a perpetuare la guerra, ma una milizia cittadina per mantenere l’ordine interno» (lettera del 20 sett. 1871, p. 370).
«Ogni Comune abbia le sue compagnie di militi ed invece di mandarli la domenica nella bottega del prete, li mandi al campo di Marte, per istruirsi nelle manovre, maneggi d’armi, ginnastica ed istruzione letteraria» (alla Gazzetta della Capitale del 1° genn. 1876, p. 379).
«Il giorno in cui gli eserciti permanenti saranno trasformati in esercito nazionale [cioè in milizie popolari], le invasioni diventeranno impossibili. Che vantaggio poi per la sicurezza pubblica, fatta dai militi del comune; cognizione del dialetto, delle località, degli individui buoni o cattivi; e finalmente tutti interessati alla sicurezza ed al decoro del proprio focolare» (lettera alla Gazzetta della Capitale del 1° genn. 1876, p. 380).
«Sostituire l’esercito permanente colla Nazione armata; cioè avere due milioni di militi, invece di poche centinaia di mila soldati (...). La polizia e pubblica sicurezza sarebbero assai meglio eseguite, giacché verrebbero fatte dalla gente stessa del paese, pratica dei luoghi, dei dialetti e delle genti. Che volete faccia un carabiniere siciliano in Piemonte, od un bergamasco in Calabria? Egli nulla conosce: siti, favella, costumi; ed il suo servizio, per quanto intelligente egli sia, a nulla sarà giovevole» (programma proposto il 18 maggio 1880, p. 386).
SULL’ANTICLERICALISMO (E SULLA RELIGIONE)
[Le citazioni di sapore anticlericale, soprattutto contro il “pretismo” sono talmente numerose e cosparse in tutta l’opera (fino alla sua ultima pagina) che non si possono qui riportare tutte. Ne indichiamo solo alcune delle più significative.]
«[Durante la Repubblica romana] dovevansi prendere alcune misure di salute pubblica contro l’elemento prete, che non si presero e che si lasciò, per dei riguardi malintesi, onnipotente a congiurare, tramare, e finalmente contribuire alla caduta della repubblica ed alle sventure d’Italia» (pp. 171-2)
«...affrontare la tirannide sacerdotale certamente assai più nociva della borbonica» (p. 299).
«Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo [Roma] si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (...); sull’eucaristia, cioè sul modo d’inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque (...). Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX (...).
[A Napoli] E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica, che gl’impostori vi spacciano come sangue di S. Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni» («All’Anticoncilio di Napoli», 1869, pp. 367 e 368).
«Sia cancellato il 1° art. dello Statuto; affermando il predominio del cattolicismo, attesta essere un’audace ipocrisia, la tanto proclamata libertà di coscienza (...).
Domandiamo la soppressione delle corporazioni religiose in Roma, senza indugi e senza restrizioni. E poiché la catena del pregiudizio non può essere infranta che dall’istruzione, dobbiam reclamarla obbligatoria, gratuita e laica. Senza questa condizione, la scuola, dominata dalla setta clericale, pervertirebbe invece di educare. La Stato non può favorire le dottrine della fede cieca, che s’insinua coi primi insegnamenti e prepara la schiavitù dell’anima e del pensiero. Dunque istruzione obbligatoria e gratuita, ma laica» («Appello alla democrazia», 1 agosto 1872, pp. 374-5).
«Il secondo fu il periodo del cristianesimo e la croce piantata nella gran capitale irradiò su quasi tutto il mondo le umanitarie dottrine del giusto, del grande maestro della fratellanza umana, Cristo. E se i preti per amore del ventre e della lussuria non avessero falsato codeste sublimi dottrine, la famiglia umana non conterebbe dissidenti.
Io son figlio dell’uomo, diceva Cristo, ed i preti per ingannare le genti hanno fatto un Dio e se ne son fatti modestamente ministri per vivere lautamente alle spalle dei creduli (...). E noi otterremo tale stupendo risultato, sostituendo a tutte le religioni rivelate o mentitrici la religione del vero, religione senza preti basata sulla ragione e la scienza» (discorso a Frascati del 14 giugno 1875, pp. 377-8).
«Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo e della confusione che sovente vi succede, s’inoltra e, mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga coll’impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze, ai doveri di cattolico. In conseguenza io dichiaro che, trovandomi in piena ragioni oggi, non voglio accettare in nessun tempo il ministro odioso, disprezzevole e scellerato d’un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada» (testamento politico del 1871, p. 390).
SUL PAPATO E LO STATO DELLA CHIESA
«Rovesciare il papato, credo tanto valesse, e qualche cosa di più, che rovesciare il Borbone. E nel 1862, ciocché si proponevano le solite camicie rosse era di buttar giù dal papato, incontestabilmente, il più fiero ed accanito nemico dell’Italia» (p. 298).
«[Nel 1867] io mi figuravo con ragione esser giunto il tempo di dare il crollo alla baracca pontificia ed acquistar all’Italia l’illustre sua capitale» (p. 318).
«...doveva finalmente rovesciare quel mostruoso potere del papato, che come un canchero posa nel cuore dell’infelice nostro paese.» (pp. 319-20).
CONTRO IL GOVERNO E SULLA CORRUZIONE DEI POLITICI
«Una gran parte di coloro, che vociferano con entusiasmo l’unificazione patria nel ‘60, ora ben seduti e soddisfatti, o biasimavano l’impresa nostra, o si tenevano da parte, per non appestarsi al contatto di rivoluzionari, incontentabili ed irrequieti» (p. 299).
«Il pessimo sistema con cui si governa questo paese, ove il denaro pubblico serve a corrompere quella parte della nazione che dovrebbe essere incorruttibile, cioè gli uomini del parlamento, i militari e gli impiegati d’ogni specie; tutta gente, sventuratamente, che con poca fatica si fa inginocchiare ai piedi del Dio Ventre» (pp. 304-5).
«Il governo, che per disgrazia di tutti regge la penisola, appena sa se esiste una Sardegna, occupato com’è a preparare una schifosa reazione, e ad impiegare i tesori dell’Italia a comprare spie, poliziotti, preti e simile canaglia...» (p. 323).
«Alla voce del padrone [Pio IX, qui definito “pontefice della menzogna”], gli uomini che sì indegnamente governano l’Italia, coprendosi il volto colla solita maschera del patriottismo, ingannavano la nazione...» (p. 331).
SUL RIFIUTO PERSONALE DI FARE CARRIERA POLITICA
SULLA MODESTIA E SEMPLICITÀ DELL’UOMO
«...il capo dei triumviri [Mazzini] mi scriveva offrendomi il posto di generale in capo. Io ero impegnato al posto d’onore [combattendo contro le truppe francesi], e trovai bene di ringraziarlo e continuare nella sanguinosa bisogna di quell’infausta giornata» (p. 173).
«A lui [re Vittorio Emanuele II, dopo il Volturno] raccomandavo i miei valorosi fratelli d’armi, e questa era la sola parte sensibile del mio abbandono, desioso com’ero di ripigliare la mia solitudine» (p. 294).
[Nel 1862, dopo la spedizione vittoriosa dei Mille e dopo esser stato ferito in Aspromonte nel tentativo di andare a liberare Roma] «Mi ripugna di narrar miserie, e mi fastidia di tediare chi ha la pazienza di leggermi, con ferite, ospedali, prigioni e carezza di regi avvoltoj» (p. 303).
«Circa quattr’anni eran passati dal giorno in cui fui fucilato in Aspromonte. Io dimentico presto le ingiurie, e così credettero gli opportunisti; coloro per cui, più l’utilità che la moralità dei mezzi, serve di bussola» (p. 304).
[Nella sua fuga da Caprera, di notte e all’inizio da solo, nel 1867 all’età di 60 anni] «Indebolito dagli anni e dai malanni, l’agilità mia era poca tra gli scogli e cespugli dell’isola della Maddalena» (p. 322).
[Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo di liberare Roma - a Monterotondo, Mentana - Garibaldi fu arrestato alla stazione di Figline e messo in prigione al forte di Varignano, presso La Spezia, dal 5 al 25 novembre 1867.]
«Ch’io non sia entrato nelle buone grazie della monarchia sabauda al mio arrivo in Italia dall’America nel 1848 è cosa naturale. Ch’io abbia suscitato dell’antipatie fra i suoi servitori, dal primo ministro ai generali dell’esercito, e da questi agli ultimi uscieri, innestati all’esistenza del governo regio, era pure conseguenza normale degli uomini e delle cose. Ciocché non posso esattamente spiegarmi si è la sfavorevole accoglienza fattami da quegli uomini, che ponno chiamarsi, giustamente, i luminari del moderno periodo del risorgimento nazionale, e che ne furono tanto benemeriti, come per esempio Mazzini, Manin, Guerrazzi ed alcuni de’ loro amici.
La stessa sorte toccommi in Francia nel 1870 e 1871. Eppure in Francia, come in Italia, io ho trovato una simpatia entusiastica tra le popolazioni, certamente superiore molto al mio merito (...). Mi accolsero imposto dagli avvenimenti, ma con freddezza, coll’intenzione manifesta, come certe volte m’era succeduto in Italia, di volersi servire del mio povero nome, ma non altro, ed in sostanza privandomi dei mezzi necessari, per cui la cooperazione mia poteva riuscir utile» (p. 341).
«Nessuna ingerenza ho io nell’Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma, sarà motivo, per i capi, a tenermi escluso» (lettera del 14 nov. 1871, p. 372).
[Eletto alla Camera nel 1874, Garibaldi si dimise il 26 nov. 1880 in segno di protesta verso la politica antisociale del governo. Va ricordato anche che i lunghi soggiorni a Caprera iniziarono come una sorte di «arresti domiciliari» per una personalità così popolare in Italia e così nota internazionalemente, da non poterla rinchiudere direttamente in prigione.]
«Essendo assoluta mia volontà di aver il mio cadavere cremato, io lascio le disposizioni seguenti: (...) 5° Al sindaco si parteciperà la mia morte quando il mio cadavere sarà incenerito completamente.
6° Molta legna per il rogo» (ultime volontà, Caprera, 2 luglio 1881, p. 391).