CONTENUTI DEL BLOG

martedì 29 marzo 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA (VII), di Pier Francesco Zarcone

In questo articolo vengono messi sul tappeto degli argomenti di grande importanza, riguardanti i complessi rapporti culturali e politici dell’Occidente con il Mondo arabo, sui quali l’autore, Pier Francesco Zarcone, auspica un dibattito a più voci. [la Redazione]


In assenza di rivoluzione sociale, quali prospettive politiche?
Si vorrebbe ora effettuare una prima riflessione riguardo a una questione abbastanza complessa, senza avere l’ambizione di giungere a una vera e propria analisi esaustiva, a motivo del fatto che il mondo arabo (e nel termine vengono incluse anche le minoranze cristiane) obiettivamente costituisce una realtà “altra” rispetto a come  nel corso della storia si sono plasmate le società europee. Questo va innanzi tutto compreso, poiché sempre di più ci si dovrà confrontare. E mai come in questo caso vale l’inascoltata lezione di Vicenzo Cuoco il quale – in una lontana fase della storia della penisola italiana – mise in guardia contro le riforme astrattamente giuste, ma radicalmente estranee al contesto che le riceve, con la conseguenza di reazioni anche sanguinose. Potrebbe aggiungersi che nell’immediato una situazione del tipo di quella stigmatizzata da Cuoco può cambiare se i riformatori dispongono della forza per imporsi, costi quel che costi; e il risultato può anche durare a medio termine. Ma in seguito, se il quadro cambia, non ci si stupisca. Purtroppo l’azione politica non si cala sempre in ambienti molto “elastici”, cioè più o meno agevolmente plasmabili; il più delle volte l’impresa di rompere con assetti e modi di pensare millenari richiede molto tempo, da riempire con un lavoro duro e costante, senza paura per le difficoltà e per il rischio di dover ricominciare da capo varie volte. Ci si deve muovere fra una serie di limitazioni, da conoscere, ponderare e, laddove possibile, schivare; fermo tuttavia restando il vecchio detto ad impossibilia nemo tenetur.
Nella cultura occidentale – da cui comunque siamo determinati – non è facile sfuggire all’automatismo di attribuire allo sviluppo della nostra fetta di pianeta il ruolo (e il valore, soprattutto) di paradigma dello sviluppo di qualsiasi realtà socio/culturale umana. E quindi di considerare “naturali” (quindi, in un certo senso, necessitate) quelle che sono state le sue tappe evolutive, con la conseguenza di attribuire indiscriminati giudizi di arretratezza a tutte le società il cui sviluppo storico sia stato differente. Il che sovente causa tragedie (a volte non prive di aspetti comici). Questo atteggiamento porta ad agire con la classica “mancanza di psicologia”, consistente nel ritenere che tutti abbiano la stessa maniera di pensare. Si può ricordare, a mo’ di esempio, un fatto accaduto nel Vietnam del Sud durante l’intervento statunitense: si era tenuta un’elezione politica, vinta con maggioranza assoluta dal governo in carica, ma con pochi punti percentuali al di sopra del 50%. Gli Stati Uniti la considerarono un test positivo, mentre i sudvietnamiti vi videro una catastrofe per i governativi, e le conseguenze infatti lo dimostrarono. Il fatto era che - secondo la mentalità indocinese (derivata dalla cultura della Cina) - il potere politico è un mandato (revocabile) del Cielo, e allora il popolo (se non tutto, quasi) segue il mandatario; per gli yankees, invece, era il frutto di un calcolo aritmetico dei risultati elettorali.
Da noi esiste anche l’atteggiamento di quanti adottano dosi più o meno consistenti di relativismo nella sfera antropologico-culturale. Qui sono possibili due posizioni ulteriori: una è di relativismo assoluto, con il rischio di finire eticamente neutri rispetto al cannibalismo rituale, o alla condizione della donna nella dimensione talibana; l’altra invece assume come universalmente validi i valori inerenti alla dignità e alla libertà dell’essere umano, per cui non si sfocia nell’indifferenza morale. Un fattore importante: la mentalità occidentale risente dell’atmosfera creata da quel sistema economico/sociale/culturale che è il capitalismo – da noi fenomeno endogeno - dai costanti esiti sovvertitori e distruttori dovunque vada.
Quando si devono fare i conti con il mondo arabo, e primariamente con l’islam, è inevitabile avere a che fare con il peso e il ruolo della religione, che sono di tutta rilevanza. Ignorare ciò è possibile, ma questo implica l’entrare nella logica – e nelle conseguenze pratiche – dello scontro fra civiltà, con l’implicazione ineludibile di pagarne il relativo prezzo. Un errore tipico su quest’ultima linea sta nell’identificare col potenziale terrorista il musulmano che vuole vivere la sua fede, magari senza tante innovazioni concettuali; oppure considerare il mondo musulmano come un tutto monolitico globalmente refrattario a ogni tipo di riforma.
Se si vuole intraprendere il non facile percorso orientato a evitare che il radicalismo islamico acquisisca posizioni ulteriori grazie agli errori dell’Occidente, conoscere meglio ed evitare gli stereotipi è assolutamente preliminare. Solo che gli alti responsabili della politica occidentale non lo sanno, mentre può essere normale che l’uomo della strada non si renda conto che il mondo islamico non ha sviluppato al suo interno fenomeni analoghi alla Riforma protestante, all’Illuminismo e a tutto quel che poi ne è seguìto da noi. Tutti fenomeni che per incidere in profondità hanno richiesto processi temporanei (e in fondo definitivi fino a un certo punto). Del pari processi lunghi sono stati necessari per l’avvento della democrazia borghese, nonostante il suo carattere superstrutturale rispetto allo sviluppo del sistema capitalistico. Se quanto detto vale come premessa, se ne deve concludere che l’imitazione, o l’importazione, o l’imposizione della democrazia borghese in altri contesti economici e culturali porterà sempre all’emergere di forme, tipi e assetti non conformi al modello di base, a commistioni con elementi tradizionali, se non a profondi snaturamenti, e a lunghi rodaggi operativi. Il massimo di istituzione non-autocratica finora prodotta spontaneamente dalle società è la shūrā, il consiglio dei notabili. 

Dell’assenza di prospettive rivoluzionarie, in senso sociale, nelle attuali rivolte si è già detto all’inizio di queste corrispondenze sul mondo arabo; c’è da dire qualcosa sulle ordinarie prospettive democratiche possibili. Al riguardo ci si deve intendere, poiché da lungo tempo da soli la parola “democrazia” e l’aggettivo derivatone sono insufficienti: non solo perché il discorso borghese si incentra sulla democrazia liberale, o rappresentativa, e quello rivoluzionario invece sulla democrazia diretta, consiliare, soviettista ecc. La stessa famosa formulazione di Lincoln in realtà nulla dice sulle modalità di funzionamento della “democrazia”. Meglio cercare di cavarsela in termini generali, parlando piuttosto di forme di partecipazione dei cittadini e della società civile alla vita politica, alla gestione della cosa pubblica al di fuori di contesti autocratici, altresì tenuto conto delle peculiarità delle società arabe.
Queste non presentano solo il problema ingombrante della religione – non ce n’è una definibile “laica” secondo parametri dell’Occidente – ma altresì quello della forza di attrazione/condizionamento di corpi sociali intermedi, naturali come la famiglia e storici come il clan e la tribù. Tali corpi sociali non presentano forse la stessa intensità cogente in ogni società araba, ma una propria forza sì. Quindi, non si tratta di società atomiste, bensì molecolari. Il problema è che per saperne di più – e orientarsi meglio - bisognerebbe conoscere più a fondo e “sul campo” ogni singola società in questione. Un esempio attuale: i mezzi di comunicazione italiani non hanno fatto altro che disquisire fino alla noia sul forte tribalismo che dominerebbe la società libica, facendone un insieme frammentato; e la stampa di destra ha subdolamente introdotto il tema della necessità di un dittatore che compatti sotto di sé questo coacervo, suonando in caso contrario la tromba del pericolo-Somalia. Il 26 marzo nella stampa portoghese ci si imbatte in interviste con accademici libici emigrati negli Stati Uniti che invece ridimensionano l’entità di quel fenomeno; talché il revival di un certo tribalismo sarebbe inerente agli intenti di Gheddafi e alla sua propaganda. Resta aperto l’interrogativo su chi abbia ragione su un tema così delicato. 
La democrazia rappresentativa borghese nel mondo arabo è stata imposta o importata. Basti pensare ai salti mortali linguistici per tradurre in arabo concetti politici di matrice europea: per esempio, la repubblica è detta jumhuriyya, parola derivante da al-jumhur che significa “maggioranza” o “insieme di nobili” distinti dalla massa; il presidente è rais, che però non indica il presiedere, bensì essere il capo, colui che comanda; la libertà di opinione, per evitare di ricorrere a un termine che avrebbe avuto il sapore di contrapposizione all’Islam, è stata tradotta con hurriyya, che però indica una realtà dell’Arabia preislamica; e si potrebbe continuare.
Torniamo alla religione. In Europa da tempo siamo abituati al fatto che l’adesione a una data religione, o la mancanza di adesione, costituiscano fatti di coscienza, inerenti alla sfera dell’interiorità personale. Tant’è che in base al solo modo di comportarsi è ben difficile stabilire la posizione religiosa di un  soggetto. Dall’ampia diffusione di questo modo di essere derivano le reazioni sociali ai tentativi di chi – in base al proprio credo religioso assunto imperativamente – tenti di imporre particiolari divieti o obblighi al resto dei cittadini. Nel mondo musulmano vige la situazione opposta, per il ruolo e il peso che vi ha la rivelazione coranica. Attenzione: si tratta di una caratteristica che il bombardamento informativo ha abituato a identificare con il solo islamismo, e scorrettamente. Un esempio: se esistesse una regione con un’egemonia della cultura del giudaismo ortodosso - tutta incentrata sulla Torah – pari a quella dell’Islam nelle società arabe, ebbene ci troveremmo alle prese con problematiche analoghe. 
Non si deve però identificare laicità e secolarismo, e quindi parlare di mancanza di secolarismo laddove manchi la laicità diffusa, se attribuiamo a “secolarismo” la giusta connotazione storica, cioè quella di separazione fra sfera religiosa e sfera politica. Per quanto l’affermazione possa sembrare infondata, in realtà nelle società islamiche a ben guardare potere politico e potere religioso sono distinte, e dobbiamo attribuire invece alla modernità contemporanea fenomeni come il radicalismo sunnita o il khomeinismo. Stanti l’assenza di autorità religiosa (innanzi tutto centrale) nell’Islam, in teoria mancano i presupposti di  legittimità per pretese alla gestione del potere politico da parte degli ‘ulamā e dei mullāh, o per pretese del potere politico di intromettersi nelle questioni religiose, si deve dire che un certo secolarismo esiste anche lì. Proprio in base a esso nelle società musulmane – dalle riforme ottomane dell’epoca del tanzimat (riorganizzazione; 1839-1876) fino a oggi – si sono potuti svolgere processi di cosiddetta “modernizzazione”. Ma attenzione: quanto dianzi detto riguarda solo una parte della questione, giacché la mancanza di laicità diffusa, l’egemonia della cultura religiosa, costumi rigidi imposti e gestiti da chiusure patriarcali e maschilistiche e spacciati come religiosamente fondati, gradi variabili di intolleranza per il pensiero difforme (tra i copti d’Egitto non c’è molta più liberalità rispetto ai musulmani di stretta osservanza) determinano ambienti molto più difficili di quelli che pure la nostra storia ha conosciuto in passato, per esempio nei retroterra di Calabria, Sicilia, Sardegna. Tutto questo ha fatto sì che non ci sia stata e non ci sia “modernizzazione” senza sofferenza socio-culturale e anche politica, per l’odore di Occidente che essa reca con sé.
Resta sempre il fatto che mondo europeo e mondo musulmano sono vissuti per secoli senza veramente incontrarsi, a parte le battaglie; e l’incontro (se così si può chiamare) è avvenuto – ed è poi continuato finora - all’insegna della violenza e della sopraffazione imperialistica a far tempo dalla conquista dell’Egitto da parte di Napoleone Bonaparte nel 1798. In questo incontro/scontro l’Occidente si è fatto forte di una netta superiorità militare, economica, tecnologica e organizzativa per presentarsi come nuovo signore e padrone. L’impatto non poteva non avere conseguenze culturali in senso ampio, talché per le società arabe si ponevano due sole opzioni: a) soccombere ed effettuare un radicale cambio di civiltà, buttando alla spazzatura della storia tutto quello che le individuasse come non-europee; cosa che nel resto del mondo non si è mai verificata; b) cercare modalità di convivenza interattiva con l’Occidente, in vario modo facendone propri degli elementi, tuttavia cercando di non “perdere l’anima”, come si suol dire, cioè senza abbandonare del tutto le proprie radici. Ovviamente a entrambe le possibilità ci si è rivolti nella società musulmane, con tutti i problemi inerenti.
In ragione di quanto sopra, è fuori discussione che l’avvento di forme “democratiche” (nel senso già specificato) non potrà realmente prescindere dalla presenza e dal coinvolgimento della parte musulmana. Cosa, per quanto inevitabile, fonte di problemi in molti settori occidentali, preferibilmente orientati in favore di strategie di contenimento a tutti i costi del musulmano in quanto tale. È un atteggiamento che ricorda la sindome vietnamita di Kennedy e Johnson. Nella fattispecie, l’Occidente ha attribuito il ruolo che fu dei Van Thieu e i Cao Ky a loschi e corrotti figuri le cui dittature illiberali e antisociali hanno dato un contributo di rilievo alla crescita proprio del radicalismo anche terroristico. E poiché l’immaginazione autoconsolatrice non trova limiti, ci si è inventati la categoria dell’Islam “moderato”, a cui fa seguito l’affannosa ricerca di soggetti o realtà da infilarvi. Si tratta di un’espressione tanto vuota di significato quanto politicamente fuorviante. Se si vuole indicare un Islam contrario alla pratica della violenza esso esiste, ma può essere benissimo di tipo conservatore. Chi ha letto il romanzo di Franz Werfel “I 40 giorni del Mussa Dagh” ricorderà, nella seconda parte, le figure di membri di confraternite musulmane pieni di umanità e solidali verso gli Armeni perseguitati: ebbene, quelli erano proprio islamici conservatori, mentre i Giovani Turchi – i massacratori - erano la modernità dell’epoca.
Ma il gridare “al lupo, al lupo” si inserisce in un quadro schizofrenico quando l’Occidente (come già si ebbe modo di rilevare), da un lato, ha stretti legami proprio con quell’Arabia Saudita che diffonde nel mondo musulmano il virus del radicalismo islamico e, da un altro lato, nulla fa in appoggio innanzi tutto dei settori laici che pure esistono. I settori formalmente visti come un pericolo dagli occidentali dispongono di reti di appoggio e sistemi di finanziamento, non solo nazionali; i laici sono abbandonati a se stessi. Per non parlare poi dei residui e disastrati settori di sinistra. 
Vari aspetti del modo di intendere la vita e la società di cui i musulmani sono portatori possono non piacere ai “laici” nostrani delle varie correnti; ma questo, si potrebbe dire, in buona parte non è immediatamente affar loro, ma di coloro che fanno parte del mondo islamico, per il solito discorso che se non c’è autoliberazione non c’è affatto liberazione.
Nell’ambito delle forme “democratiche” che potranno essere realizzate nelle società arabe liberate ben difficilmente verrà evitata la dialettica politica fra “modernizzatori” - in senso più aperto rispetto alle tradizioni - e i fautori di una politica aperta ai valori islamici con l’appoggio dal basso. Chiaro è per chi tiferebbe un “laico”; ma nei limiti in cui questi partiti islamici accettino il normale gioco dell’alternanza, e non puntino all’instaurazione di forme di “democrazia totalitaria” - in cui cioè le minoranze e le opposizioni diventino nemici da perseguitare - allora si dovrebbe parlare di una “normalità” politica non-rivoluzionaria. Ma è pur certo, se a livello di governi ci si mettesse ad appoggiare malamente i contenuti espressi dagli uni o dagli altri, e se ciò diventasse fonte di paura per la vittoria elettorale di taluno invece che di o talaltro, con comportamenti a ciò conseguenti, è inevitabile il ritorno all’appoggio a regimi di comodo, cosiddetti “laici e moderati”, quando invece non sono nulla di ciò, e in più autoritari - o peggio - per i compiti di contenimento che gli verrebbero attribuiti dagli “amici” occidentali. .         
Sotto gli occhi abbiamo il paradigma turco. Durante i passati anni ’20 e ’30 Mustafá Kemal, nella culla di quello che era stato per secoli l’Impero ottomano, impose con la violenza una radicale modernizzazione laica (seppure un po’ contradittoria), dai forti contenuti simbolici: in buona sostanza costrinse i Turchi a fare gli europei a forza di calci nel sedere (reali e non metaforici). Sembrò “cosa fatta”, almeno fino agli anni ’50. Poi piano piano nella società turca – a cui era stato strappato un passato lungo e anche glorioso, ed era stata imposta una turchicità fittizia, perché non meglio identificata e formalmente non derivata dal passato – sono iniziati processi sfociati nella vittoria di una specie di Dc islamica (più “tosta”, però) candidata a entrare nell’Ue, mentre il vecchio partito di Kemal non sembra avere al momento molte possibilità di tornare a governare il paese. È facile pensare all’entità dei pasticci che deriverebbero da tentativi occidentali per incidere sulla politica locale. Comunque nessun paese ha cercato per questo di isolare la Turchia.  Col mondo arabo, invece, l’atteggiamento è diverso.
Su tutti gli argomenti di cui sopra un dibattito a più voci sarebbe proficuo.