Cresce l’aggressione imperialistica alla Libia
È ovvio che i ribelli libici, ormai attestati solo in una parte della Cirenaica, sull’orlo della disfatta e con la prospettiva certa di essere massacrati, abbiano respirato e giubilato dopo l’iniziativa militare dell’Occidente (di questo si tratta, poiché l’adesione araba sembra limitata al Qatar con qualche aereo; cioè nulla; l’Egitto si era rifiutato di partecipare), ma in quelle condizioni si tratta di un’inevitabile e umanissima reazione emotiva. La valutazione politica dal di fuori è invece d’altro segno.
Il tipo di intervento scelto è oltre tutto mostruosamente costoso: sono in ballo cifre enormi, spropositate, se si pensa che solo un missile Tomahawk tempo fa costava 750 milioni di dollari (sic). Ipotizzando che il prezzo non sia mutato (ma è difficile), ciò vuole dire che la sola prima bordata di missili statunitensi è costata niente popodimeno che 82.500.000.000 dollari! Gli immediati beneficiari di questo spreco immondo saranno ovviamente i complessi industriali/militari delle potenze intervenute, in virtù delle nuove commesse per la sostituzione di quanto consumato in Libia. Delle industrie del settore energetico già si è detto in precedenza. È il classico modo per poter vantare crediti pesanti verso la fazione “aiutata”. Il fatto, poi, che il citato editoriale dia quasi per scontata una divisione della Libia certifica – per così dire – il gioco di interessi imperialisti retrostanti, e le pesanti ipoteche già proiettate su un territorio che fa da cuneo nell’Africa del Nord ed è a ridosso dell’Egitto.
Non va sottaciuto che il predetto modo di ragionare dà per scontata l’inesistenza di altre forme di aiuto alla rivolta anti-Gheddafi. In una precedente corrispondenza, invece, se ne era già evidenziata una: aiuti militari arabi ai ribelli. Ma se ne potrebbe individuare anche un’altra, efficace, moralmente corretta, e meno idonea a creare rilevanti vincoli di dipendenza: essa ha il punto di partenza negli enormi beni libici esistenti nei paesi che hanno deciso l’intervento e che li hanno congelati. Trattandosi di soldi del popolo libico (per bilioni di dollari), sarebbe stato bello se il Consiglio rivoluzionario di Bengasi li avesse avuti a disposizione: con questo denaro sarebbe stato in grado di comprare – in un mercato che aspetta solo nuovi acquirenti – armi, munizioni, equipaggiamenti, medicinali e viveri. Così il popolo libico, con i suoi stessi beni, sarebbe stato messo in grado di vedersela alla pari con il colonnello e i suoi mercenari, con nuove prospettive di vittoria. In fondo si tratterebbe di un aiuto vitale a costo zero; oltre tutto ancora fattibile. Ma un’autoliberazione del popolo libico chi la vuole in fondo? E se poi questi Arabi si montano la testa? Meglio procedere alla vecchia maniera – che ha pur sempre delle proficuità, a breve termine – sperando che vada un po’ meglio del passato. Tenuto conto delle oggettive capacità di ricatto dell’Occidente, un altro consistente tipo di aiuto (più o meno disinteressato) sarebbe individuabile, e consisterebbe in una serie di effettive pressioni sui governi africani dei paesi da cui Gheddafi trae i propri mercenari affinché blocchino questo mercato di assassini.
Tutte queste iniziative, però, vorrebbero dire “aiutare”, e non assumere la posizione del “salvatore” in extremis, strumento per tutt’altre prospettive e guadagni. Per finire una considerazione dal tenore puramente “realista”, e magari un po’ cinica: poiché, piaccia o no, serietà e professionalità sono requisiti fondamentali per ogni azione umana, anche per le porcate, è ovvio chiedersi se i governi imbarcatisi nell’iniziativa bellica dispongano di un progetto (quand’anche imperialista) su come concluderla e, se del caso, su come uscirne. Altrimenti le conseguenze saranno negative a vasto raggio e di lunga durata. L’amministrazione Obama fa sapere di non volere la caduta del regime di Tripoli. Ipocrisia yankee o stupidità, alla luce dei criteri della realpolitik? Qui è opportuno essere pratici: stante la piega globale assunta dagli avvenimenti, si ha chiaro che vorrebbe dire un Gheddafi padrone di mezza Libia e ansioso di vendetta? Evidentemente non ha insegnato nulla la nefasta scelta di Bush-padre, quando lasciò Saddam padrone dell’Iraq dopo la prima Guerra del Golfo. Quanti milioni di morti in meno ci sarebbero stati in Iraq, e quante sofferenze evitate ai vivi con una scelta più coerente (sia pure sempre all’interno di un quadro negativo)? Sempre “tecnicamente” parlando, resta vero il fatto che l’imperialismo di Londra era, ed è, altrettanto criminale di quello di Washington, ma meno autolesionista e fonte di guai per i terzi.
Il giudizio negativo sull’intervento in atto, e l’entusiasmo con cui i ribelli lo hanno accolto in un momento critico in cui erano drammaticamente soli, è suscettibile di provocare una riconsiderazione di quanto sta accadendo in Libia: cioè a dire, metterne in discussione il carattere di rivolta popolare contro il governo tripolino, assumendo che il popolo libico in realtà sia diviso fra oppositori e sostenitori di Gheddafi. Una tale interpretazione può trovare alimento nelle “rivelazioni” dei giornali berlusconiani circa la longa manus di Parigi già nell’organizzazione della rivolta. I dubbi sono sempre benvenuti poiché consentono di riflettere di più. Tuttavia sono sollevabili delle obiezioni. L’entità dell’appoggio popolare a Gheddafi è difficile da stabilire, e sulla genuinità/spontaneità di certe manifestazioni di massa nelle zone controllate da Gheddafi, con esibizioni di non meglio motivati e teatrali baci ai ritratti del dittatore, si potrebbe fare una tara e concludere che non esprimono granché visto che tutte le dittature sanno come fare per costringere la gente a scendere in piazza.
Che esista una parte della popolazione per vari motivi schierata con Gheddafi nessuno lo contesta, anche perché notoriamente una parte delle tribù non ha “mollato” il colonnello. Va inoltre osservato come non sia esistita pressoché mai una rivolta popolare con la partecipazione maggioritaria degli abitanti; nemmeno nei casi in cui ne è poi derivata una grande rivoluzione. Vedere, quindi, nei fatti libici qualcosa di diverso da una guerra fra il governo e il popolo e magari ridurli a scontro fra il governo e una fazione dalla dubbia identità è sì una lettura possibile, ma vuol dire dimenticare che una parte della popolazione è sempre diventata “popolo” nella misura in cui è giunta a esprimere l’interesse generale di un paese. Con la stessa ottica si ridusse la Rivoluzione d’Ottobre a uno scontro fra il governo provvisorio e la piccola fazione bolscevica. C’è poi il dato significativo che se Gheddafi non avesse avuto il supporto dei suoi mercenari ben addestrati a quest’ora sarebbe già stato sconfitto. Cambia le cose l’eventuale zampino francese nell’organizzare la rivolta, ammesso che ci sia stato? E al riguardo sia lecito osservare che se davvero i Francesi hanno organizzato la ribellione avrebbero potuto pure organizzarla un po’ meglio.
Ad avviso di chi scrive la cosa semmai sarebbe suscettibile di influire sulle valutazioni politiche circa gli occulti capi della rivolta, ma con un’avvertenza: è formalmente molto facile giudicare con rigorismo etico/politico standosene comodamente sistemati in un assetto in cui i tiranni ancora non hanno la necessità di fare del male ai cittadini. Fermo restando che di quei capi occulti non sappiamo nulla, nè conosciamo le loro intenzioni reali e la loro provenienza, va però detto che da che mondo è mondo chi vuole rovesciare il proprio despota sanguinario – e da solo non può farcela – tanto per il sottile non va, e se è il diavolo a dargli una mano, beh, ci si allea. E comunque, a prescindere dall’esistenza o meno di forze occulte retrostanti, sta di fatto che a scendere in piazza sono stati i soliti quisque de populo; il che dimostra che gli organizzatori avevano trovato un terreno già fertile. Infine un’ultima notazione, per lo meno sulla base di quel che è apparso: anche con il passaggio dalla parte dei ribelli di ufficiali dell’esercito libico, non è che costoro abbiano realizzato un minimo-minimo di coordinamento militare: tracce di organizzazioni nascoste non ce ne sono. Con tutto il rispetto, si era assistito ad azioni belliche di una “armata brancaleone” giovanile. Sulla catena di comando di questi combattenti improvvisati si sa poco e niente. Sulla linea del fronte rispondono al generale Abd al-Fattah Junis, ex ministro degli Interni di Gheddafi. C’è chi dice che costui, resosi conto della sproporzione delle forze in campo, sia tornato nel grembo del dittatore. Altri dicono che il capo militare sia il generale ‘Umar Arīri, e altri ancora che sia il dissidente Khalīfa Haftir. Chi lo sa con certezza?
Per tornare alla Francia, essa resta ancora una media potenza regionale imperialistica, con interessi consistenti proprio in Africa; è un mero dato di fatto. Scandalizzarsi é inutile. In teoria sarebbe compito delle “democrazie” europee operare compatte per bloccare le velleità francesi, ma c’è un ostacolo: proprio queste cosiddette “democrazie” sono a loro volta imperialiste, sia pure con interessi, forza politico/militare e nerbo di gradi diversi. Per cui contrastare la Francia si tradurrebbe nell’entrare in concorrenza con essa, ciascuno giocando in proprio e facendo della Libia una semplice occasione sulla scacchiera della politica e dell’economia.
La penisola araba di fronte all’Iran
Sarebbe errato considerare l’intervento militare saudita in Bahrein come manifestazione di solidarietà fra monarchi assoluti contestati dalle loro polazioni. In realtà l’obiettivo dell’iniziativa è duplice: gli sciiti locali e l’antistante Iran degli ayatollāh. Il fatto è che le giuste rivendicazioni degli sciiti di quelle due monarchie non solo creano scompigli interni, ma altresì – anche a prescindere dall’essere o no soddisfatte – sono idonee a mettere in forse gli attuali equilibri geopolitici della regione, a tutto vantaggio dell’Iran. Si può pensare che proprio per questo la repressione in Bahrein e Arabia Saudita (ma anche nello Yemen) non sensibilizzi più di tanto gli Stati Uniti. Cerchiamo di delineare un quadro generale, premesso che Teheran al momento – e quand’anche senza propri meriti - non può non trovare al suo attivo sulla bilancia politica del mondo islamico occidentale la caduta di due acerrimi nemici a Tunisi e al Cairo. Poi ci sono le attuali difficoltà dell’Arabia Saudita priva di confinanti (o vicini) su cui poter contare. Infatti abbiamo che:
a) al di là delle scarsissima amicizia fra i Sa’ūd e gli Hashimiti ai Amman, sta di fatto che il re di Giordania, ‘Abdallāh, ha i suoi problemi interni con cui confrontarsi;
b) il governo yemenita è bloccato da crescenti contestazioni di massa;
c) non si sa quale strada prenderà l’Egitto del post-Mubārak;
d) come finirà nel Bahrein non è chiaro;
e) la Siria vede crescere la rabbia popolare, ma il regime baathista – finché regge – è un alleato di Teheran;
f) l’Iraq, per le difficoltà interne causate dall’occupazione statunitense, è al momento fuori gioco, ma la maggioranza della sua popolazione è sciita.
Restano solo i piccoli emirati del Golfo, ricchissimi ma militarmente inesistenti. Sarebbe più che comprensibile se il governo saudita si facesse prendere dalla sindrome dell’accerchiamento.
Il regime degli ayatollāh ha forse vaccinato la gioventù iraniana dal virus dell’integralismo islamico, pur tuttavia esso è ancora forte e non è pensabile che la piazza lo rovesci a medio termine. Inoltre va tenuto presente che, a prescindere dal suo regime interno, l’Iran resta il punto di riferimento degli sciiti arabi e il titolare di propri interessi geopolitici in contrasto con quelli di chi domini la penisola araba. D’altro canto l’Iran (in quanto tale) negli scorsi anni ha ricevuto almeno due doni insperati dall’arcinemico statunitense, in quanto i suoi nemici regionali che bloccavano le aspirazioni ambiziose di Teheran sono stati eliminati dagli yankees e non ci sono più: i Talibani a Kabul e Saddam a Baghdad. Anzi in Iraq, per la prima volta dalla creazione di questo Stato a opera dei Britannici dopo la Grande guerra, oggi sono gli sciiti a comandare. In Libano la longa manus iraniana è il potente Hezbollah (in arabo Hizballāh) che ha fatto cadere il governo filoccidentale di Sa’ad Hariri; l’Egitto attuale forse modificherà l’atteggiamento fortemente ostile di Mubārak nei confronti di Hamas, e Hamas é alleato dell’Iran.
Tutto questo che vuole dire? Semplicemente che nella presente situazione i governi della penisola araba sono soli di fronte all’estensione dell’influenza iraniana, e quindi ci si deve aspettare che reagiscano con durezza. È ben difficile che gli Stati Uniti, apertosi il fronte libico, possano disinvoltamente impegnarsi anche contro l’Iran. Potrebbe farlo Israele (che probabilmente non aspetta altro), ma essere in qualche modo aiutati dai sionisti equivarrebbe a un disastro politico.