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domenica 10 giugno 2018

LA DIPLOMAZIA COMPETITIVA DELL’AMMINISTRAZIONE TRUMP: LE QUESTIONI DELL’ONU E DELLA NATO, di Michele Nobile

INDICE: 1. Il problema della diplomazia competitiva - 2. La diplomazia competitiva, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Consiglio di sicurezza dell’Onu - 3. La diplomazia competitiva nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato) - 4. Motivi e contraddizioni di una politica estera pseudopopulista

© Jim Lo Scalzo
1. Il problema della diplomazia competitiva
La diplomazia di George W. Bush voleva essere «trasformativa», cioè volta a costruire e sostenere Stati democratici in collaborazione con «molti partner internazionali»1. In altri termini, l’esportazione a mano armata della «democrazia» presupponeva la capacità e la volontà di costruire alleanze variabili e su misura dell’intervento militare. Non foss’altro che, al fine di una parziale legittimazione politica, anche l’azione militare unilaterale e al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite doveva combinarsi con il multilateralismo. Senza mai escludere l’azione unilaterale - «se necessario» - in modo simile all’amministrazione Clinton quella di Obama enfatizzò la cooperazione multilaterale e nelle istituzioni internazionali.
In cosa si differenzia l’amministrazione Trump dalle altre?
Uno dei suoi tratti è l’idea della rinascita della competizione geopolitica con la Russia e di quella economica con la Cina, oltre alla critica della teoria della «pace democratica». Tuttavia, ciò va relativizzato.
Con l’esplodere della guerra civile in Ucraina e l’annessione della Crimea da parte della Russia, un altro Presidente avrebbe usato un linguaggio diverso, ma comunque le potenze occidentali non avrebbero potuto accettare supinamente la ricostituzione di una propria sfera d’influenza nell’area europea ex sovietica da parte del Governo russo (il discorso è parzialmente diverso per gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale: si veda oltre). E infatti, la principale critica al candidato Trump era, appunto, quella di essere a dir poco accomodante nei confronti di Putin. D’altra parte, con il pivot verso l’Asia e il lancio del Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’amministrazione Obama aveva già iniziato a fare i conti con la politica estera e con la Cina.
Un altro e più specifico tratto della politica estera dell’amministrazione Trump è la competitive diplomacy o «diplomazia competitiva». Ora, si può ben dire che questa sia una nuova formula per una verità antica, ovvero che competizione geopolitica e ricerca di vantaggi economici siano sempre presenti nella politica estera di una grande potenza. Tuttavia, esistono diversi modi di applicare questo principio: è quindi necessario uscire dalle formule generiche ed entrare nel merito. In breve, ritengo che la peculiarità della politica estera statunitense come si è realmente definita nel primo periodo di questa Amministrazione consista nell’estensione della competizione allo stesso tempo sia verso Cina e Russia, sia - con un ovvio distinguo dei metodi - verso gli alleati; sia nella politica economica internazionale, sia in quella della sicurezza nazionale. Questa politica estera è l’espressione di un particolare pseudopopulismo nella politica interna e possiede sue particolari contraddizioni.
In questo articolo metto a fuoco gli effetti della competitive diplomacy in relazione all’Organizzazione delle Nazioni Unite e alla Nato; in un secondo pezzo mi occuperò della politica economica internazionale - in particolare verso la Cina e gli alleati europei - e tenterò una sintesi delle relazioni fra politica estera e politica interna.

2. La diplomazia competitiva, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Consiglio di sicurezza dell’Onu
La National Security Strategy del dicembre 2017 (NSS 2017) riconosce la storica importanza del contributo degli Stati Uniti alla costruzione delle istituzioni dell’ordine internazionale nel secondo dopoguerra e, in particolare, che essi «hanno guidato la creazione di un gruppo di istituzioni finanziarie e altri forum economici che stabilirono regole eque e costruirono strumenti per stabilizzare l’economia internazionale, rimuovendo i motivi d’attrito che avevano contribuito all’esplodere delle due guerre mondiali»2. E nel presente, l’Amministrazione dichiara d’impegnarsi a svolgere il ruolo di leader - non di ritirarsi - negli accordi e nelle istituzioni «che modellano molte delle regole che riguardano gli interessi e i valori degli Stati Uniti»3.
Questi sono i parametri fondamentali della politica estera di qualsiasi amministrazione statunitense - qualcosa che dovrebbe esser dato per ovvio - che qui sono ritualmente ribaditi. Il problema dunque non è il presunto e impossibile isolazionismo degli Stati Uniti. La problematicità della politica estera dell’amministrazione Trump relativamente alle alleanze e alle istituzioni internazionali si pone su un altro piano.
Innanzitutto, ricordo che nel XXI secolo la soglia per intraprendere un’azione militare preventiva da parte del governo degli Stati Uniti si è notevolmente abbassata. Non bisogna pensare soltanto a operazioni in grande stile come le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ma pure ad azioni mirate su piccola scala, come la serie di attacchi eseguiti mediante l’uso di droni armati - anche al di fuori di zone in guerra. Per definizione, questo tipo d’azioni prescinde dal consenso del Consiglio di sicurezza dell’Onu e spesso anche da quello dello Stato in cui esse avvengono.
I Presidenti repubblicani hanno una lunga storia di polemiche nei confronti delle Nazioni Unite e delle numerose agenzie specializzate in cui si articola l’organizzazione, ad esempio intorno alle risoluzioni concernenti Israele, l’aborto, le regole d’ingaggio dei caschi blu e la non condanna di determinate violazioni dei diritti umani (per la Russia in Cecenia e per la Cina in Tibet). In concreto, ciò si è espresso nella minaccia o nel fatto di sospendere il contributo finanziario statunitense: per questo motivo, Obama saldò gli arretrati dovuti all’Onu ereditati da Bush figlio. Tuttavia, l’amministrazione Trump ha elevato notevolmente la qualità della critica alle Nazioni Unite. Nella NSS 2017 sembra che queste siano state snaturate: «gli attori autoritari hanno da tempo riconosciuto il potere degli organismi multilaterali e li hanno utilizzati per far avanzare i propri interessi e limitare la libertà dei propri cittadini»4; secondo l’attuale Amministrazione, in passato gli Stati Uniti hanno consentito l’utilizzo delle istituzioni internazionali contro gli interessi nazionali del Paese.
A parte il fatto che non si comprende - se non come capo d’accusa imputato alle suddette istituzioni - perché gli «attori autoritari» abbiano bisogno anche degli organismi multilaterali per opprimere i loro cittadini, da ciò consegue che, da una parte, gli Stati Uniti si impegnano internazionalisticamente nella guida delle istituzioni internazionali; dall’altra, riconosciuto che in queste istituzioni internazionali esiste una competition for influence, gli Stati Uniti proteggeranno nazionalisticamente la sovranità nordamericana e non cederanno «a coloro che rivendicano l’autorità sui cittadini americani e sono in conflitto con il nostro quadro costituzionale»5 - pare trattarsi di un riferimento alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
L’impegno nelle istituzioni multilaterali si presenta del resto selettivo: «tuttavia, le istituzioni non sono tutte uguali. Gli Stati Uniti si impegneranno prioritariamente in quelle organizzazioni che servono gli interessi americani, per assicurarsi che si rafforzino e sostengano gli Stati Uniti, i nostri alleati e i nostri partner»6. Nella NSS 2017 le Nazioni Unite sono citate solamente due volte: la prima come riferimento storico, mentre nella seconda se ne auspica la riforma - non si tratta di una novità - affinché ritorni ai suoi princìpi fondativi. Per fare un confronto: nella NSS 2010 le Nazioni Unite erano citate almeno dieci volte. Lì si ammetteva le difficoltà delle istituzioni nate dopo la Seconda guerra mondiale di fronte alle inedite minacce, ma nelle NSS dell’amministrazione Obama l’«architettura internazionale» doveva essere difesa e rafforzata, negando alle «nazioni che sfidano le norme internazionali o che non rispettano le loro responsabilità sovrane gli incentivi che derivano da una maggiore integrazione e collaborazione con la comunità internazionale»7, non riducendo gli sforzi degli Stati Uniti in talune istituzioni. Obama faceva continuo riferimento a norme e a più vaghi standard internazionali validi anche per gli Usa; al contrario, la NSS 2017 si riferisce al diritto solo nei termini della law enforcement da parte del Governo nordamericano e del rispetto della rule of law all’interno degli altri Stati. Si dirà giustamente che la normalizzazione della guerra preventiva da parte delle amministrazioni di Bush Jr. e di Obama sia un colpo letale al diritto internazionale - non soltanto allo jus ad bellum, ma anche allo jus in bello - tuttavia la prospettiva apertamente nazionalistica dell’amministrazione Trump non solo rafforza il fatto esistente, ma lo estende ad altri campi della politica internazionale.
Nel bilancio presentato dall’Amministrazione al Congresso, ad inizio 2018, era chiaro l’intento di ridurre di circa un terzo i fondi per gli impegni internazionali di natura non militare. Particolarmente colpiti erano il finanziamento per United Nations Population Fund (Unfpa) e United Nations Children’s Fund (Unicef). Si tratta di agenzie la cui attività, per quanto complessivamente insufficiente, può fare comunque la differenza tra la vita e la morte: aiuti alimentari e sanitari, per i rifugiati, per i disastri, per l’istruzione, per il controllo delle nascite. In questo il Congresso non ha seguito l’Amministrazione, ma si sa che il problema si ripresenterà con il prossimo bilancio.
Consideriamo come esempio il bilancio dell’Unicef, che si occupa dell’assistenza umanitaria ai bambini. Nel 2016 le entrate totali furono di 4,8 miliardi di dollari, di cui 3,5 da interessi, servizi di approvvigionamento e altre fonti; il rimanente, classificato come «risorse regolari», conseguiva dal finanziamento da parte di governi e organizzazioni intergovernative e dalla raccolta di fondi da donatori privati e organizzazioni non governative. Nel complesso, 119 governi contribuirono al finanziamento dell’Unicef con 562 milioni di dollari, poco più del 10% delle entrate totali dell’agenzia e il 43% delle «risorse regolari»8. Il contributo più alto fu quello della Svezia con 132,5 milioni di dollari, seguita dagli Stati Uniti con 117. Per fare un paragone: il prezzo di un singolo caccia multiruolo F-35 varia a seconda della versione, del volume degli ordini e del momento, ma ora si aggira - più o meno - attorno ai cento milioni di dollari.
Ragioniamo ora sulla faccia militare delle Nazioni Unite: le missioni di mantenimento della pace (peacekeeping). Il costo complessivo di queste missioni è di 6,8 miliardi di dollari e l’amministrazione Trump intende ridurre il suo contributo finanziario dal 28 al 25% del totale: tuttavia, questo ammonta a circa lo 0,2% del bilancio del Dipartimento della Difesa. Si deve inoltre tener conto che, della forza complessiva di 104 mila persone (fra militari, agenti di polizia e civili) impegnate nel 2018 in 15 missioni, i contributi maggiori vengono dall’Etiopia (8.331), dal Bangladesh (7.007), dall’India (6.711) e dal Ruanda (6.548); dall’Italia 1.074, dalla Francia 835, dalla Germania 829 e dagli Stati Uniti 539. Di certo non sono i contributi ad agenzie e missioni sotto bandiera delle Nazioni Unite che alimentano il debito pubblico degli Usa, né quest’ultime comportano al momento che si versi il sangue di militari statunitensi più che di altri paesi.

3. La diplomazia competitiva nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato)
Il candidato Trump suscitò un gran vespaio quando dichiarò:
«Penso che la Nato sia obsoleta. La Nato è stata fatta in un momento in cui c’era l’Unione Sovietica, che era ovviamente più grande, molto più grande della Russia odierna. Non sto dicendo che la Russia non sia una minaccia. Ma abbiamo altre minacce. Abbiamo la minaccia del terrorismo e la Nato non discute il terrorismo, la Nato non è destinata al terrorismo. La Nato non ha i Paesi giusti per combattere il terrorismo»10.
Nella National Security Strategy del presidente Trump si legge:
«Gli alleati e i partner sono una grande forza degli Stati Uniti. Ampliano direttamente le capacità politiche, economiche, militari, di intelligence e altre ancora degli Stati Uniti. Insieme, gli Stati Uniti, i nostri alleati e i nostri partner rappresentano oltre la metà del Pil globale. Nessuno dei nostri avversari ha coalizioni comparabili. Incoraggiamo coloro che vogliono unirsi alla nostra comunità di Stati democratici e migliorare le condizioni dei loro popoli»11.
Questa dichiarazione esprime l’ovvia ragione per cui le alleanze sono indispensabili alla maggiore potenza mondiale e dimostra l’assurdità di attribuire alla politica estera statunitense un carattere isolazionista. La NSS 2017, le dichiarazioni del presidente, del vicepresidente e del segretario della Difesa distruggono pure l’altrettanto assurdo timore - o la folle speranza - che gli Stati Uniti possano fare a meno della Nato: ribadiscono la fedeltà degli Usa all’Alleanza atlantica e all’articolo V del Trattato di Washington, secondo il quale l’aggressione a uno dei firmatari sarà considerata un attacco contro tutti gli altri e gli Stati Uniti si impegneranno a rispondere con tutti i mezzi necessari a contrastarlo; la NSS ricorda che il deterrente nucleare statunitense protegge oltre trenta fra alleati e partner. Dall’Europa all’Oceano Pacifico, le alleanze sono indispensabili per mantenere l’equilibrio del potere internazionale e promuovere la prosperità; ed è per questo motivo che nella NSS 2017 si dice che la Russia punta a dividere gli Stati Uniti dai suoi alleati, mentre l’Amministrazione intende invece lavorare con alleati e partner nei campi della sicurezza e dell’economia e rafforzare i vincoli reciproci12.
Le affermazioni del candidato Trump preoccuparono gli alleati e rallegrarono i «sinistri» con paraocchi putiniani e da nazionalista granderusso. A ben vedere, benché esprimendosi sopra le righe - alla fin fine era in campagna elettorale - il candidato Trump si riferiva alla particolare minaccia del terrorismo - e la Russia rimaneva tra le minacce - e al contributo finanziario degli alleati alla difesa comune. In ogni caso, Trump ha fatto esplicitamente autocritica nella conferenza stampa del 12 aprile 2017 con il segretario della Nato, Jens Stoltenberg: «ho detto che [la Nato] era obsoleta; non lo è più»13. Ha però continuato a insistere su quella che per lui è sempre stata la questione centrale: i soldi.
Nelle precedenti amministrazioni, la questione dei costi per le missioni militari non era affatto ignorata. Ad esempio, nella sezione della NSS clintoniana del luglio 1994 che descrive i criteri per decidere i modi e i livelli di partecipazione degli Stati Uniti a specifiche operazioni militari, in quarto luogo si specifica che «il nostro impegno deve soddisfare ragionevoli soglie di costo e di fattibilità. Saremo più inclini ad agire dove c’è ragione di credere che la nostra azione porterà un miglioramento duraturo. D’altra parte, il nostro coinvolgimento sarà più circoscritto quando altri attori regionali o multilaterali saranno in posizione migliore della nostra per agire»14. Nella NSS 2002, la stessa che consacrò la «guerra al terrore» dell’unilateralista Bush Jr., un intero capitolo è dedicato a «sviluppare agende per l’azione cooperativa con gli altri principali centri del potere globale», ovvero l’Unione europea - di cui si saluta lo sforzo di forgiare una propria politica estera e militare - il Giappone, la Russia, la Cina e l’India, «una delle due maggiori democrazie del mondo». Dal punto di vista strettamente economico, della Nato si diceva che avrebbe dovuto sviluppare nuove capacità e strutture - come una forza d’intervento rapida - e che occorreva far leva sulle «opportunità tecnologiche e le economie di scala nella nostra spesa per la difesa allo scopo di trasformare le forze militari della Nato in modo che possano dominare potenziali aggressori e diminuire le nostre vulnerabilità15. E quanto alla strategia di Obama, la NSS 2010 prevedeva la revisione e razionalizzazione dei programmi del Dipartimento della Difesa e la riduzione della spesa militare degli Usa, ma non richiedeva aumenti della spesa agli alleati europei - «la pietra angolare dell’impegno degli Stati Uniti con il mondo» - con i quali si doveva però potenziare la cooperazione economica complessiva. Il problema di Obama era che, «quando usiamo troppo la nostra forza militare, o non investiamo in o non impieghiamo strumenti complementari o agiamo senza i partner, allora le nostre Forze armate sono sovraccaricate (overstretched), gli americani sopportano un carico maggiore, e la nostra leadership in tutto il mondo è identificata in modo troppo ristretto con la forza militare»16. Di qui l’enfasi sulla divisione del lavoro fra le istituzioni locali, nazionali e globali, le diverse agenzie internazionali, i programmi «per rafforzare le capacità regionali per il mantenimento della pace e la gestione dei conflitti per migliorare l’impatto e condividere gli oneri»17, lo spostarsi del dialogo intorno al coordinamento delle politiche economiche, dal G8 al G20.
Quel che Trump pare abbia trasformato in un comandamento è l’impegno preso nel 2006 - e ribadito nel 2014 dai membri della Nato - di portare la spesa per la difesa al 2% del Pil in un decennio, cioè entro il 2024, destinando il 20% dell’aumento alle risorse militari18. Oltre agli Usa, stando alle stime ufficiali, dei 29 Stati della Nato (compreso il Montenegro, appena entrato) nel 2017 destinavano almeno il 2% del Pil alla difesa (ai prezzi del 2010) Grecia, Estonia, Regno Unito, Romania e Polonia; Francia, Lettonia e Lituania erano intorno allo 1,7-1,8%19.
Dal punto di vista statunitense il punto è che, mentre non a caso la spesa dei Paesi baltici e dell’Europa centro-orientale è abbastanza elevata, quella media dell’Europa è all’1,5% a confronto del 3,6% degli Stati Uniti, e che, fatto particolarmente irritante, quella della Germania è all’1,2%. Ed è alla Germania che Trump si riferiva quando parlava - da candidato - di una nazione «estremamente ricca» ma che non spende abbastanza per la difesa, a cui era disposto a dire: «congratulazioni, ti difenderai da te»20.

Altra questione è quella del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Virtù originaria e difetto contemporaneo del Consiglio di sicurezza è che la sua composizione esprime la struttura del potere mondiale qual era nel secondo dopoguerra e, più precisamente, la divisione fra il mondo dominato dalle potenze capitaliste e quello degli pseudosocialismi totalitari: anche la tardiva sostituzione di Taiwan con la Cina popolare, nel 1971, ne è una conferma.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è un organismo oligarchico la cui principale funzione politica reale non è assicurare il rispetto del diritto internazionale - men che mai del diritto alla ribellione all’oppressione nazionale e sociale, che può essere esercitato solo dai diretti interessati - ma promuovere un certo grado di cooperazione fra le grandi potenze. Poiché nelle sue decisioni e non-decisioni il Consiglio di sicurezza registra lo stato dei rapporti fra le grandi potenze che ne sono membri permanenti con diritto di veto, durante la Guerra Fredda questo fu di fatto inoperante e viceversa si è in certa misura rivitalizzato dopo il crollo del blocco sovietico, approvando - all’unanimità - una serie di interventi militari, dall’invasione dell’Iraq nel 1991 a quella dell’Afghanistan dieci anni dopo. Cruciale è lo stato dei rapporti fra Stati Uniti e Russia - oltre e più che con la Cina – che a cavaliere di XX e XXI secolo hanno avuto fasi diverse e contrastanti: si raffreddarono dopo la guerra in Kosovo, migliorarono nel 2001-2003, peggiorarono - ma non troppo - con le «rivoluzioni colorate» e la guerra tra Russia e Georgia (2005), si riscaldarono con il reset dei rapporti da parte di Obama (2009). Solamente dal 2014 questi rapporti si sono avvicinati a una condizione di quasi Guerra Fredda.
Stante una capacità di proiezione della potenza militare di gran lunga inferiore a quella statunitense, quel che preme a Cina e Russia - come gli Usa prontissime ad agire unilateralmente e in spregio del diritto internazionale e dell’autodeterminazione nazionale ogni volta che ne abbiano necessità e possibilità - è la mediazione che può essere conseguita nel Consiglio di sicurezza. Quindi, è a seconda dei propri interessi nazionali che le grandi potenze accettano o meno il ruolo del Consiglio di sicurezza quale istituto oligarchico interprete autentico del diritto internazionale.
Ora il Consiglio di sicurezza non è più adeguato, e non solo perché esclude Germania, Giappone e altri grandi Stati come India e Brasile, che possono aspirare a entrare nell’oligarchia del potere mondiale. Una ragione più profonda dell’inadeguatezza di questo istituto è che, venendo meno la contrapposizione fra i due sistemi ed essendo oggi Cina e Russia potenze capitaliste, la scena geopolitica si è enormemente fluidificata. Non esiste più il blocco sovietico e non è possibile che gli Stati Uniti - e gli alleati - possano accettare la ricostituzione di una zona d’influenza russa nell’area ex sovietica o del Patto di Varsavia; e con la guerra afghana gli Stati Uniti hanno sviluppato un interesse stabile e precarie connessioni anche in Asia centrale, per quanto lì la vera competizione a lungo termine sia fra l’influenza russa - che in gran parte dipende dal passato sovietico e dal controllo di giacimenti di risorse energetiche - e quella ascendente della Cina, economicamente imbattibile sotto tutti gli altri aspetti21.
Per quella che è la dimensione globale dei suoi interessi economici e geopolitici, gli Stati Uniti non possono farsi legare le mani dalle mediazioni del Consiglio di sicurezza. Altra questione è la posizione dell’amministrazione Trump nei confronti della più importante alleanza politico-militare degli Usa: la Nato.

4. Motivi e contraddizioni di una politica estera pseudopopulista
Da quanto sopra è evidente che la riduzione o anche la cancellazione della spesa degli Stati Uniti per le agenzie delle Nazioni Unite sia in sostanza irrilevante dal punto di vista della riduzione del proprio debito pubblico e del rilancio dell’economia interna. La motivazione dei tagli non può che essere politica e ideologica.
Per quel che riguarda la pianificazione famigliare, la contraccezione e l’aborto, si tratta di accontentare la destra integralista interna. In termini più generali, la diplomazia competitiva dell’amministrazione Trump è un modo per ricattare l’Onu a causa del dissenso prevalente nell’organizzazione su alcune posizioni del governo statunitense: il caso più recente è quello del riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele. Fin qui l’Amministrazione continua con enfasi maggiore una linea nota: l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, era già ben noto per le controversie suscitate in qualità di ambasciatore presso le Nazioni Unite, dentro l’organizzazione e negli stessi Stati Uniti.
La dimensione dell’attacco dell’Amministrazione corrente alle Nazioni Unite si comprende come parte coerente di un quadro più ampio e più specifico: rimanda a e nello stesso tempo alimenta l’idea - forte a destra, ma in termini diversi presente anche a sinistra - degli Stati Uniti come un gigante avvolto dai lacci di infidi lillipuziani e della globalizzazione come complotto dell’élite politica e culturale transnazionale e multiculturalista sulla pelle dei forgotten men and women of our country.
È per questo che la «critica» di Trump alla globalizzazione ha entusiasmato nazionalisti, «sovranisti» e nazional-monetaristi di destra e di sinistra. Tuttavia, i primi non hanno capito nulla delle implicazioni della politica economica di Trump per le loro piccole patrie oppure fingono di ignorarle, perché preferiscono farsi forti del successo di un nazionalista xenofobo, tutto «legge e ordine» e sfacciatamente reazionario come Putin. I secondi hanno dimostrato di aver cestinato non soltanto le categorie dell’analisi marxista, ma più semplicemente qualcosa che potrebbe dirsi «buon senso di classe», dimostrando in questo una coscienza politica di gran lunga inferiore a quella della destra.
Il presidente contesta l’impegno internazionalistico di denaro e cittadini degli Stati Uniti per proteggere altri paesi e popoli perché - così ritiene - il suo Paese non è adeguatamente ricompensato. Anche in questo caso sembra che Trump attacchi un dogma bipartitico che può sintetizzarsi come teoria della «pace democratica», secondo cui le democrazie non sono propense alla guerra ed è quindi nell’interesse nazionale degli Usa impegnarsi per la promozione della democrazia e dei diritti umani nel mondo; l’ultima concretizzazione di questa teoria ha avuto forma decisamente militarista e megalomane sotto l’amministrazione di Bush figlio.
Eppure, nonostante il linguaggio demagogico e il caratteristico stile assai poco «presidenziale», neanche da candidato Trump ha mai avuto intenzione di mettere in crisi la Nato in quanto tale. Quel che ha posto con insolita determinazione programmatica è la questione della ripartizione dei costi all’interno dell’organizzazione. Si aggiunga a questo il fatto indiscutibile che Trump non si è mai proposto di sostituire un più alto livello di spesa per la difesa degli alleati europei con una minore spesa degli Stati Uniti: al contrario, ha sempre sostenuto la necessità di aumentare la spesa militare nazionale. E l’ha fatto.
Una prima conclusione logica è quindi questa: sotto il profilo finanziario, la linea di Trump ha sempre comportato un rafforzamento della Nato, non una sua crisi. In questo àmbito ha un senso che aumenti il contributo dei Paesi europei: tant’è vero che l’obiettivo di alzare il livello della spesa militare in percentuale del Pil è stato fatto proprio da tutta l’alleanza fin dal 2006, che molti Paesi europei sono ben avviati su quella cattiva strada e che dalla crisi ucraina il tasso di crescita della spesa militare dei membri europei della Nato è passato da una media di -1,35% (2014) al 3,7% (2017), con punte di oltre il 22% per Lettonia e Lituania. I tassi di crescita della spesa militare della Germania nel 2016 e nel 2017 sono stati, rispettivamente, del 3,2 e del 4,12%22. Quel che si discute fra Usa e Stati europei è il ritmo di crescita della spesa militare in funzione dell’obiettivo del 2% del Pil entro il 2024, se questo debba essere considerato un obbligo o un’approssimazione e il modo in cui deve essere calcolato l’ammontare complessivo della spesa per la difesa. Ad esempio, non si tratta solo di tener conto del contributo per la Nato dei suoi membri europei, ma anche di altre spese che questi considerano inerenti alla sicurezza nazionale. Ne è una prova il governo tedesco, che nel 2016 programmava di spendere 93 miliardi di euro per i rifugiati entro il 2020, mentre dati ufficiali per il 2016 e il 2017 indicano una spesa stimata nell’ordine dei 21 miliardi di euro23.
Seconda conclusione logica: gli alleati europei e gli avversari statunitensi di Trump hanno agitato strumentalmente lo spauracchio di una crisi dell’alleanza atlantica - i primi per rafforzare la propria posizione contrattuale ed entrambi perché, dal punto di vista dell’interesse complessivo degli imperialismi atlantici, esiste effettivamente motivo di obiettare alla prassi del presidente Usa. Tuttavia, si tratta di un «qualcosa» ben diverso dalla speranza che i nazionalisti di destra e di sinistra hanno coltivato per ottusità. Dalle Filippine all’Arabia Saudita, la «critica» di Trump alla teoria della pace democratica e al ruolo secondario dei «diritti umani» nella politica estera ha entusiasmato su scala mondiale conservatori e reazionari, che si sono sentiti giustamente rassicurati. Per conservatori e reazionari, il fatto è logico; per i simpatizzanti di sinistra di Putin, ciò è indicativo del fatto che quanto a ideali di libertà si collocano in effetti a destra del pensiero liberale - il che non è una novità - e che hanno definitivamente gettato nell’immondezzaio il senso dell’internazionalismo socialista a favore del nazionalismo imperiale granderusso (e in verità neanche questa è una novità).
Del «qualcosa» accennato sopra mi sono già occupato: in breve, non si tratta dell’isolazionismo24.
Dal punto di vista dell’interesse generale dei vari imperialismi - di quello statunitense e di quelli europei - il problema cruciale posto dalla visione del mondo di Trump non è l’obiettivo ovvio che il presidente abbia a cuore la prosperità del capitalismo degli Stati Uniti, ma l’enfatica definizione dell’interesse nazionale (capitalistico) come un gioco a somma zero, anziché mediato dall’impegno alla cooperazione per la stabilità del sistema internazionale e alla prosperità dell’economia mondiale. Quel che non quadra è che il rapporto fra costi e benefici sia impostato in modo nazionalistico, nell’ottica della «protezione» degli Usa, e in termini immediatamente economici. Se s’intende perseguire una politica della sicurezza aggressiva, facendo a meno della ricerca di mediazioni nel Consiglio di sicurezza, occorre un minimo di lungimiranza nella definizione del trade-off o dei necessari compromessi fra politica della sicurezza nazionale e politica economica internazionale: il «qualcosa» di cui l’amministrazione Trump difetta, se possibile in misura anche superiore a quella di Bush figlio. Su tutta una serie di questioni - finanziamento delle agenzie dell’Onu, accordo di Parigi sul clima, intesa sul nucleare con l’Iran, questione di Gerusalemme capitale, contributi finanziari dei membri della Nato, programma nucleare della Corea del Nord - l’Amministrazione continua polemiche tradizionali della destra vetero e neoconservatrice, ma le amplifica qualitativamente trasformandole in motivo d’irritazione per gli alleati e di propaganda rivolta agli elettori statunitensi.
Come sottolineato in precedenza, i fondi per l’Unfpa e l’Unicef sono sostanzialmente irrilevanti per i problemi di bilancio degli Stati Uniti; e il contributo degli Usa al finanziamento della Nato non è dell’80%, come «cinguetta» Trump, ma del 22%, essendo anche il costo di mantenimento dei militari nordamericani in Europa, sostenuto almeno per il 90% dai Paesi del vecchio continente. E ciò senza contare il fatto che la strategia mondiale degli Stati Uniti verrebbe gravemente compromessa e senza la Nato costerebbe molto di più: motivi per cui la Nato è semplicemente irrinunciabile per qualsiasi Presidente degli Stati Uniti. Se Trump volesse realmente impegnarsi a diminuire il debito pubblico, allora non dovrebbe far altro che ridurre - invece di aumentare - la spesa militare nazionale; e se volesse davvero venire incontro ai suoi «dimenticati» concittadini, non avrebbe proposto tagli ai fondi sociali e una riforma fiscale di cui si avvantaggiano solo gli strati più ricchi e le corporations.
E infine, il nocciolo della questione. La trumpiana «diplomazia competitiva» dell’America First è un modo pseudopopulista di esternalizzare i problemi interni degli Stati Uniti, utilizzando la logica della «protezione» - si tratti del muro col Messico, delle tariffe, dell’Onu o delle polemiche con gli alleati - per aggirare il problema della riforma interna, peraltro atteggiandosi a racketeer, ovvero «ricattatore». Questa politica estera si sposa con una politica economica ad un tempo neomercantilista verso l’estero - il che non significa affatto contraria alla liberalizzazione finanziaria e, per gli altri, commerciale - e brutalmente neoliberista all’interno. Questo pseudopopulismo è però intrinsecamente contraddittorio e pone seri problemi di coerenza politica complessiva. Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, il non riconoscimento dei limiti della potenza americana non può che risultare in passi indietro, ma eventualmente anche in pericolose fughe in avanti. E le contraddizioni si moltiplicano quando si consideri la sua applicazione nel campo della politica economica, sia nazionale che internazionale.


1 National Security Strategy of the United States of America, The White House, Washington, D.C., marzo 2006, p. 33. Di seguito le diverse National Security Strategy sono indicate con la sigla NSS e l’anno corrispondente. L’archivio dei rapporti è consultabile all’indirizzo http://nssarchive.us/.
2 NSS 2017, p. 17.
3 Ibid., pp. 40-1.
4 Ibid., p. 40.
5 Ivi.
6 Ivi.
7 NSS 2010, p. 40.
8 Cfr. «Types of funding», UNICEF.org, 19 maggio 2017.
9 Cfr. «Troop and police contributors», United Nations Peacekeeping, 30 aprile 2018.
11 NSS 2017, p. 37.
12 Ibid., cit. dalle pp. 48, 30 e 25.
13 «I said it was obsolete; it’s no longer obsolete». Cit. da «Joint Press Conference of President Trump and NATO Secretary General Stoltenberg», WhiteHouse.gov, 12 aprile 2017.
14 NSS 1994, p. 10.
15 NSS 2002, p. 25.
16 NSS 2010, p. 28.
17 Ibid., p. 47.
19 Cfr. North Atlantic Treaty Organisation, Defence Expenditure of NATO Countries (2010-2017), 29 giugno 2017.
21 A lungo relativamente trascurati dalla politica estera statunitense, gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale hanno improvvisamente acquisito grande rilevanza strategica dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a causa della logistica dell’intervento militare in Afghanistan. Si tratta anche dell’area nella quale la Russia può tentare di costruire un blocco politico ed economico alternativo alla Nato attraverso l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto, secondo l’acronimo inglese), ma quando si considera attentamente la situazione si nota: a) che nonostante la crisi successiva alla «rivoluzione dei tulipani» in Kirghizistan nel 2005 e lo «sfratto» dalla base di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, la collaborazione militare degli Stati dell’Asia centrale con gli Usa continua dietro le quinte, ad esempio tramite accordi diretti con il Central Command (Centcom) - il comando combattente unificato degli Stati Uniti che è responsabile anche dei teatri del Medio Oriente e dell’Asia centrale - che utilizza i fondi nella propria disponibilità discrezionale; b) che nonostante la penetrazione della Russia nel settore energetico, questi Stati si sforzano di aggirare la rete energetica russa e di diversificare i clienti, con speciale interesse per la Cina, che in questo è in concorrenza con la Russia; c) che essi tendono a fare un gioco di equilibrismo politico principalmente fra Cina e Russia, ma senza escludere gli Stati Uniti; d) che, energia a parte, il traffico legale e ancor più quello di contrabbando fra questi Stati e la Cina è superiore a quello della Russia; e) che le cricche dominanti in Asia centrale appaiono poco propense a farsi coinvolgere in una Guerra Fredda con gli Stati Uniti per le faccende europee; f) che nel «grande gioco» dell’Asia occorre tener conto dell’India, oggi molto più vicina agli Usa, di cui necessita per equilibrare i rapporti con Cina e Pakistan, entrambi Stati nucleari con i quali l’India ha guerreggiato - rispettivamente nel 1962 e nel 1947, 1965, 1971 e 1999 - e con cui continua ad avere questioni in sospeso.
Il grado di corruzione e di clientelismo dei ceti dirigenti degli Stati dell’Asia centrale è tale che essi sembrano sempre ben disposti a collaborare in cambio di un’adeguata retribuzione, diretta o indiretta, che traggono anche - ma non solo - dai servizi logistici per gli statunitensi di compagnie «private» da essi controllate. L’unico punto sul quale gli oligarchi dell’Asia centrale sono sicuramente uniti è la salvaguardia del proprio potere: è innanzitutto in questo modo che vedono la Csto e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco, per l’acronimo inglese) in cui la Cina è decisamente più influente. Cfr. Alexander Cooley, Great games, local rules: the new great power contest in Central Asia, Oxford University Press, New York 2012; Harsh V. Pant-Yogesh Joshi, The US pivot and Indian foreign policy: Asia’s evolving balance of power, Palgrave Macmillan, Basingstoke/New York 2016.
23 Cfr. «German government plans to spend 93.6 billion euros on refugees by end 2020: Spiegel», Reuters, 14 maggio 2016; Germany’s Federal Minister of Finance, Asylum and refugee policy: the role of the federal budget, 27 gennaio 2017; Amanda Erickson, «No, Germany doesn’t owe America ‘vast sums’ of money for NATO», The Washington Post, 18 marzo 2017.
24 Non posso che rimandare ai miei precedenti articoli pubblicati nel blog di UR: «La politica estera degli Stati Uniti e le contraddizioni di Trump: questioni di metodo», 19 febbraio 2018; «Cina e Russia nella National Security Strategy dell’amministrazione Trump», 29 marzo 2018.

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