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venerdì 5 luglio 2024

UN ARTICOLO SULL’IMPERIALISMO ARABO SU CUI RIFLETTERE

da Luciano Dondero


BILINGUE: ITALIANO - ENGLISH


Caro Roberto,

il sito inglese Point of No Returnhttps://www.jewishrefugees.org.uk ) è dedicato a un gruppo di ebrei fin troppo dimenticati, ovvero i rifugiati dai paesi arabi e islamici del Medio Oriente.

Qualche giorno fa hanno pubblicato un articolo molto interessante di Olga Kirschbaum-Shirazki intitolato “Il Medio Oriente ha bisogno di respingere l’imperialismo arabo per raggiungere la pace”.

Fra gli elementi più interessanti dell’articolo della Kirschbaum-Shirazki, cofondatrice ed editrice della Tel Aviv Review of Books, mi pare ci siano due elementi: intanto una riflessione di fondo sulle nozioni di impero e nazione viste in un quadro europeo e mediorientale; e poi il rifiuto della nozione che gli arabi (e l’Islam) siano i soli legittimi, e antichi, abitanti del Medio Oriente.

In questo, come sottolinei tu, si nota: “la profonda cultura (storico-politica-geopolitica)” dell’autrice, e la sua capacità di porre “la questione curda nell’epicentro dell’aggressività di tre correnti imperiali: turca, iraniana e araba […] e che nelle mire imperiali turche, iraniane e arabe si veda oggi il fattore di maggior pericolo in area mediorientale”.

Condivido pienamente un’altra considerazione che fai quando dici che l’autrice: «sottolinea un “piccolo” dettaglio che sfugge a tutti coloro che affermano un’assenza di continuità degli ebrei dalla loro terra d'origine: e cioè che per quasi due millenni gli ebrei sono stati esuli perché perseguitati, ovunque, e non in conseguenza di esodi dovuti a guerre. In realtà agli inizi vi fu un primo grande esodo (Guerra giudaica del 66-70), ma poi poco a poco presero il via le persecuzioni che, come sappiamo ancora continuano».

E ne consegue che, se si vuole veramente aprire una prospettiva di pace per la regione mediorientale, occorre una iniziativa di portata internazionale per frenare le ambizioni imperiali delle tre diverse componenti islamiche. Al di là dei tentativi di attori non-statuali impegnati alla rinascita del “Califfato” (Al-Qaeda, Isis/Daesh e una miriade di altri operatori più o meno velleitari) sono veri e propri Stati come l’Iran, la Turchia e alcuni Paesi arabi che incorporano in sé intenzioni molto pericolose.

Il fatto che alcuni fra quegli Stati arabi siano orientati oggi a un’alleanza con Israele e con l’Occidente, in un’ottica volta a contrastare le mire degli ayatollah di Teheran (vedi la vicenda degli “Accordi di Abramo”), potrebbe contribuire alla ricerca di una soluzione. Ma questo non significa dimenticarsi che per decenni l’Egitto e l’Arabia Saudita sono stati in prima fila nei vani tentativi di distruggere Israele e nel diffondere in tutta Europa l’ideologia politica dell’Islam più aggressivo.

Penso che questo articolo possa essere molto utile per la riflessione di chi segue Utopia Rossa. Non da ultimo per la critica netta allo slogan “Due popoli, due Stati”.

Buon lavoro,

Luciano



Il Medio Oriente ha bisogno di respingere [ROLL BACK] l’imperialismo arabo per raggiungere la pace

 di Olga Kirschbaum-Shirazki


Nella nostra epoca di aspri dibattiti sul nazionalismo, vale la pena prendersi un momento per considerare l’origine della creazione di piccoli Stati nell’Europa continentale dopo la Prima guerra mondiale. In questo primo quarto di secolo del secondo millennio, gli Stati nazionali europei hanno dimostrato di essere più stabili e governabili, oltre che più democratici, rispetto ad altre forme politiche. Gli Stati di maggior successo del dopoguerra – se la misura è la prosperità dei loro cittadini e la trasparenza dei loro governi – sono gli Stati nazionali della Scandinavia con le loro minoranze Sami e Inuit, ora semiautonome. Il grande risultato dell’Unione Europea non è la sua unità e le sue dubbie strutture politiche con la loro mancanza di trasparenza e responsabilità, ma piuttosto la sovranità nazionale dei popoli d’Europa, uniti da lingua, cultura ed etnia, che sono i suoi membri costituenti in un continente dove un tempo governavano gli imperi.

Inoltre, gli Stati nazionali sono stati le unità di maggior successo nel mantenere il concetto di bene pubblico e nel limitare le società multinazionali e i monopoli statali. In effetti, lo Stato e le sue leggi sono probabilmente l’unica cosa che può garantire con successo che i lavoratori e i locali non subiscano orribili abusi. Le multinazionali prosperano soprattutto negli Stati in cui le rimanenti gerarchie razziali imperiali persistono nel mandare in frantumi ogni nozione di bene comune: questa è la storia di tutte le ex colonie di insediamento nelle Americhe, con la possibile eccezione dell’Uruguay, un piccolo paese che è in gran parte un amalgama fra gli immigrati spagnoli e italiani con la minuscola popolazione indigena del XIX secolo, decimata dalle malattie dopo la colonizzazione europea e una guerra genocida. In molti casi queste gerarchie fanno ancora parte dell’assetto giuridico del Paese, soprattutto con l’abrogazione dei trattati con le Prime Nazioni. Tutti questi paesi, a vari livelli, hanno una sottoclasse radicalmente impoverita, spesso composta da popolazioni indigene e in alcuni casi dalla diaspora africana.

La mentalità imperiale ha anche caratterizzato il loro rapporto estrattivo con i territori ricchi di risorse. In molte regioni dell’Africa, l’incapacità di creare Stati basati su punti comuni storici, vale a dire gli Stati nazionali – comprese le confederazioni tribali di gruppi affini, la struttura originaria della maggior parte dei gruppi nazionali – ha reso molto più facile per la corruzione prendere piede mentre i rivali storici vivono in uno stesso Stato in competizione per il suo controllo. Al contrario, benché lontani dalla perfezione, gli Stati nazionali europei hanno avuto maggior successo nel proteggere le loro risorse e i loro ambienti dai peggiori casi di abusi aziendali mediante le leggi e le scelte politiche. La Norvegia è forse il miglior esempio con la gestione del suo petrolio. La Socialdemocrazia è un fenomeno in gran parte europeo perché funziona meglio negli Stati nazionali. La relativa omogeneità etnica e culturale aiuta a creare e preservare una nozione di bene pubblico. E nonostante questa evidente realtà storica, in Occidente abbiamo un’intera classe intellettuale che è antinazionalista.

Il rigetto imperiale si manifesta anche in Europa sotto forma di confederazioni. Il passaggio della Spagna a una confederazione e i concomitanti diritti linguistici, culturali e politici concessi a baschi, catalani e galiziani, hanno seguìto un altro percorso. Questo è condiviso in una certa misura dal Regno Unito, dove i diritti della lingua gallese sono ora saldamente radicati e il potere regionale si è rafforzato.

Ciò non vuol dire che ogni questione sia stata risolta. Dai movimenti indipendentisti catalani e scozzesi, fino alla questione dell’Irlanda del Nord, l’arretramento della colonizzazione, che spesso è avvenuto in Europa prima delle grandi conquiste imperiali oltremare, è incompiuto. Gli scandinavi hanno iniziato solo di recente a riflettere sulle loro vicende con i Sami, e in Danimarca con gli Inuit. In Francia le lingue e le culture nazionali regionali sono più tutelate rispetto a prima, benché lo Stato centralizzato sia ancora molto vivo.

In tutta Europa, con l’eccezione della Russia, il rigetto imperiale è una realtà; e l’obiettivo di tanti attivisti e uomini politici nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale di garantire che i diritti nazionali fossero uniti ai diritti delle minoranze ha grande forza. Ciò è vero anche in zone in cui una minoranza è maggioritaria altrove, come i russi nei Paesi baltici e gli ungheresi in Slovacchia, Serbia e Romania o gli svedesi in Finlandia. E mentre i critici diranno che la creazione di Stati nazionali è costata la morte di milioni di persone nelle regioni a popolazione mista, soprattutto nell’Europa orientale, questo sviluppo non era inevitabile e il progetto dell’autodeterminazione nazionale con garanzie per le minoranze era già avviato nel periodo tra le due guerre. Tutto ciò non esclude che gli Stati nazionali possano essere corrotti, guerrafondai od oppressivi nei confronti delle minoranze. Tuttavia sembra che, a giudicare dagli eventi storici, ci siano qui, anche negli Stati post-comunisti dell’Europa orientale, maggiori possibilità di affrontare le questioni con successo rispetto agli Stati imperiali.


COME SI È CONSEGUITO IL RESPINGIMENTO [ROLL BACK] IMPERIALE

Naturalmente la storia del “Vecchio mondo” avrebbe potuto prendere una piega molto diversa. I popoli più piccoli, dall’Atlantico al Caucaso e al Mediterraneo orientale, che hanno raggiunto l’indipendenza o l’autonomia nel corso dell’ultimo secolo, possono aver perso terreno a causa dell’assimilazione forzata, delle espulsioni o degli omicidi di massa. Questi approcci furono tentati nel XIX e XX secolo dagli stessi Stati imperiali di cui ora si è completato il respingimento. E così, i popoli più piccoli dell’Europa centrale non sono stati annientati dalla magiarizzazione, dai genocidi ottomani, dai trasferimenti forzosi di popolazione e dai gulag russi, dalle carestie britanniche, dalla guerra e dal caos, o dalla macchina di morte nazista.

La Seconda guerra mondiale, che viene spesso raccontata come una storia del nazionalismo di estrema destra, può anche essere descritta come una storia dei diritti imperiali aggressivi da parte di imperi perdenti. La Germania è stata al massimo della pericolosità quando era a un tempo imperialista e proveniente da una sconfitta. Lo stesso si può dire degli Ottomani che portarono avanti la loro furia genocida dopo aver perso il loro territorio nei Balcani. Eppure in àmbito accademico si sentono fare dei ragionamenti di apologia imperiale, soprattutto riguardo agli Imperi austro-ungarico e ottomano descritti come Stati multiculturali tolleranti. In base a questo ragionamenti, quegli Imperi erano avviati alla concessione di diritti ai popoli minori, e il processo è stato bruscamente deragliato dalle ambizioni di sovranità dei nazionalisti e dal sostegno a queste ambizioni da parte degli Imperi concorrenti. Ma tali argomenti non tengono conto della realtà della mentalità imperiale. Per quale motivo i tedeschi, gli ungheresi, i russi, gli inglesi o i turchi ottomani avrebbero dovuto governare oltre i loro confini? L'impero è un racket; è la massima ricerca della rendita, come avvenne in tutti questi territori, sia attraverso la tassazione che attraverso il lavoro contadino di un popolo sottomesso a beneficio della nobiltà imperiale. Inoltre, la lealtà nei confronti dell’identità o della cittadinanza imperiale era molto più debole di quanto gli apologeti ottomani o asburgici amino affermare, come attesta la popolarità di molti movimenti nazionali. La tesi complementare dell'invenzione di varie nazionalità nel XIX e XX secolo, un'altra argomentazione preferita dagli storici, è difficile da far quadrare con la realtà. I candidati preferiti per questa argomentazione in Europa sono i diversi gruppi slavi e in Medio Oriente gli ebrei e i siriani. Ma ognuna di queste "nazioni inventate" aveva un'identità storica, culturale, etnica e linguistica, sia pure con variazioni locali, che rendeva possibile una loro coalescenza in un movimento politico nazionale.

Il rigetto imperiale non era inevitabile in Europa. È stato un risultato. Ciò di cui i commentatori politici raramente parlano in relazione a questo processo è la natura duratura del respingimento imperiale, a scapito degli Stati e dei popoli che un tempo governavano il continente. La rinnovata aggressione imperiale della Russia nelle sue precedenti sfere d’influenza non può oscurare gli esempi di Ungheria, Austria, Germania, Francia e Svezia. Per quanto si possa parlare di un predominio tedesco nell’Unione Europea, o del nazionalismo ungherese, gli Imperi tedesco e ungherese – che per più di un millennio sono stati delle potenze nell’Europa centrale e orientale – sono morti. Nessuno dei partiti di destra in ambedue i paesi invoca attivamente l’irredentismo tedesco o ungherese. E se per i tedeschi l’espulsione della diaspora coloniale orientale ha reso tali appelli piuttosto vuoti, per gli ungheresi l’irredentismo potrebbe ancora essere una forza politica. Eppure non lo è. Per quanto riguarda la Francia e la Svezia, anche loro hanno una visione politica fermamente nazionale. Ma non ci sono Napoleoni in erba sulla scena politica francese, e suggerire un ritorno dell’Impero svedese in Scandinavia e nell’Europa orientale, che fu il grande progetto della Corona svedese per centinaia di anni, probabilmente susciterebbe risate se non totale confusione. Con i discorsi odierni di destra e di sinistra sull’immigrazione, l’Unione Europea e la questione dell’autodeterminazione nazionale e del suo impatto sulla vita europea, entrano a malapena nella coscienza delle persone. Ed è forse per questo motivo che gli europei non riescono a vedere gli imperi e le forze imperiali in Medio Oriente.


IMPERIALISMO E MEDIO ORIENTE

Non è che gli osservatori non riescano a vedere che Erdogan è un leader con pretese neo-ottomane. E chiunque studi il Medio Oriente sa che l’Iran è uno Stato multinazionale. La questione curda non è sconosciuta, per così dire. Ma è difficile affermare che in Occidente se ne traggano spesso le necessarie conclusioni. Pertanto, mentre si ode un incessante chiacchiericcio accademico secondo cui le potenze imperiali europee hanno creato un disastro in Medio Oriente – e in Africa – nel corso del XX secolo, si dice poco sul fatto che la violenza statale iraniana, turca e araba è stata mortale nei confronti dei gruppi nazionali alla ricerca della propria indipendenza – un progetto che è diventato chiaro nel corso del XX secolo. Ed è tuttora una delle principali fonti di violenza nella regione anche oggi. Eppure la nostra classe intellettuale è ossessionata dall’illiberalismo ungherese, polacco e israeliano, il che, qualunque cosa se ne possa pensare, non si avvicina alla violenza di Stato, all’oppressione e alla corruzione degli Stati imperiali in Medio Oriente.

E allora, purtroppo, è tristemente necessario offrire un macabro tour di ciò che l’imperialismo arabo, iraniano e turco, spesso presentato come nazionalismo, ha fatto nel secolo scorso. Si potrebbero citare le centinaia di migliaia di curdi morti per mano di tutti e tre i gruppi imperiali, l’emigrazione di massa dei siriani a causa della violenza e dell’oppressione, l’analoga massiccia emigrazione massiccia dei cristiani libanesi e la morte e distruzione di massa provocate durante la guerra civile libanese da parte dell’imperialismo arabo. O la conquista turca di Cipro e l’attuale bombardamento del Rojava, per non parlare del sostegno indiretto della Turchia all’Isis. E questo senza parlare della turchizzazione, iranizzazione e arabizzazione forzata delle popolazioni minoritarie, o dell’uccisione dei dissidenti politici nelle carceri o sulla forca. O il sostegno iraniano e saudita agli islamisti nella mortale guerra civile algerina, così come il sostegno del Qatar agli islamisti durante la primavera araba. Né questo elenco è completo, anche se è già di per sé da condannare. Bisogna menzionare anche i morti nel conflitto arabo-israeliano.


L'IMPERIALISMO ARABO E IL CONFLITTO ISRAELIANO-PALESTINESE

In effetti, l’imperialismo arabo è una fonte centrale del conflitto israelo-palestinese. Con tutta l’ubiquità del discorso sul nazionalismo palestinese, se ne ignorano quasi completamente le dimensioni imperiali arabe. Eppure l’imperialismo arabo è stato una forza politica importante in Medio Oriente per gran parte del periodo successivo alla Prima guerra mondiale, e lo rimane tuttora. Tutto è iniziato con le aspirazioni dei leader della rivolta araba di creare uno Stato arabo unificato nell’intero Levante e con il loro riuscito sabotaggio, con il consenso britannico e francese, della creazione di Stati per gli altri popoli della regione, nel modo più drammatico per i curdi, ma anche per i siriani, per i drusi e per i maroniti. Poi si è andati avanti con le politiche di arabizzazione e islamizzazione nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale attuate in tutti i paesi della Lega Araba nei confronti delle popolazioni non arabe e non musulmane, senza eccezioni. E mentre molte di queste scelte politiche furono portate avanti da Stati che si proponevano di creare una nuova identità locale siriana, irachena e palestinese, queste identità erano in pratica arabe e musulmane. In effetti, la creazione di un’identità nazionale palestinese non ha mai significato il rifiuto di un’identità araba per gli stessi palestinesi, come dimostrano i documenti dei principali partiti politici coinvolti nella politica palestinese. Il massimalismo palestinese è un’estensione, sotto un nome diverso, dell’imperialismo arabo presente in tutti gli Stati del dopoguerra, il quale sosteneva che laddove i musulmani arabi costituivano una parte significativa della popolazione, dovevano governare. Questo atteggiamento di pretesa e privilegio [in inglese entitlement], caratteristico dei popoli imperiali e delle loro culture, rimane profondamente radicato in molti paesi della Lega Araba. È presente anche tra le classi intellettuali in Occidente, in particolare quelle dei dipartimenti di studi sul Medio Oriente, che idealizzano la Convivencia nei califfati medievali o l’arcobaleno multiculturale dell’identità “irachena” o “libanese”, diffamano l’autonomismo o semplicemente ignorano la storia dei gruppi nazionali della regione.

Non sorprende che le forme più fasciste dell’Islam trovino terreno fertile negli Stati imperiali storici e tra le culture storicamente imperiali. Al contrario brillano per la loro assenza degli equivalenti curdi, amazigh (berberi) o azeri. Ciò non vuol dire che non ci siano degli islamici tra i popoli minori della regione. Tuttavia, i movimenti politici curdo, azero e amazigh tendono ad essere relativamente liberali e il loro atteggiamento nei confronti dell’Islam è tradizionalista piuttosto che islamista o jihadista. Ed è invece tra i popoli tradizionalmente imperiali – gli iraniani, i turchi e gli arabi - che troviamo gli Stati sostenitori del terrorismo e dell’islamismo nell’area.


RESPINGIMENTO IMPERIALE IN MEDIO ORIENTE

Eppure, in Medio Oriente è in corso un respingimento imperiale. Uno degli aspetti meno discussi ma per certi versi più significativi degli Accordi di Abraham è che i suoi firmatari mostrano molteplici segni di respingimento imperiale. Non si tratta semplicemente del riconoscimento dello Stato di Israele e della normalizzazione delle relazioni. Il Marocco ha compiuto passi significativi verso il riconoscimento degli Amazigh, compresi i diritti linguistici, le festività ufficiali e alcuni diritti politici. Queste politiche interne dimostrano un allontanamento da un’omogenea arabizzazione o islamizzazione verso un’accettazione della storia del paese, dei suoi popoli e delle loro aspirazioni. Gli Stati arabi del Golfo stanno inoltre compiendo sforzi per liberalizzare, respingere la Jihad e l’islamismo e, ancora più recentemente, per aprire un franco dialogo interreligioso – segnali significativi di rigetto imperiale nel contesto della Lega Araba.

Israele, che ha avuto un successo unico come movimento nazionale nella regione, è un banco di prova per il percorso che la regione prenderà. Questo è il motivo per cui è doveroso, anche per coloro che desiderano vedere una soluzione a due Stati, essere onesti riguardo al rapporto imperiale degli arabi e dell’Islam con queste aree. Tuttavia, invece di sostenere questi sviluppi e comprenderne il significato rivoluzionario, settori della sinistra [liberals] in Occidente e in Israele li minimizzano o li vedono come parte del problema. In effetti, sono loro il problema.

Uno degli sviluppi più dannosi per la stabilità dell’intera regione si è verificato in alcuni settori della sinistra [liberals] in Occidente e in Israele, vale a dire l’interiorizzazione del discorso imperiale arabo nella sua nuova confezione: Israele e gli Ebrei sarebbero dei coloni europei. Anche tra coloro che sostengono la soluzione dei due Stati, scopriamo sempre di più che alcuni accettano Israele solo come una realtà de facto e concordano con i palestinesi sul fatto che il Paese sia arabo da un punto di vista indigeno. Altre varianti di questa posizione si presentano con l’affermazione che sia gli Ebrei che gli Arabi sono originari dell'area. Il problema con le affermazioni relative al carattere indigeno arabo-palestinese – o al carattere indigeno arabo in qualsiasi parte del “Mondo arabo” al di fuori del Golfo e della Giordania – non è solo che sono oggettivamente errate secondo la definizione di indigeneità delle Nazioni Unite, dal momento che gli arabi sono arrivati in queste regioni attraverso la conquista imperiale, ma, e questo è ancor più importante, servono a negare l’esistenza di un imperialismo arabo passato e presente. La questione in gioco qui non è la soluzione dei due Stati come opzione per risolvere il conflitto, o l’esistenza di un’identità collettiva arabo-palestinese legata al territorio – uno sviluppo mostrato dagli arabi in Iraq, Siria, Algeria, Marocco, ecc. che hanno sviluppato anche identità collettive locali basate sul territorio – ma l’accettazione di un’ideologia che fondamentalmente considera ingiusta qualsiasi sovranità nazionale ebraica perché si rifiuta di vedere un qualunque percorso arabo o musulmano come imperiale.

Oggi la rivendicazione araba palestinese di indigeneità, così come qualsiasi altra rivendicazione araba di indigeneità nel “mondo arabo” in aree esterne alla patria araba, nega questa pretesa e privilegio [entitlement] imperiale, garantendo allo stesso tempo legittimità ai suoi obiettivi: è una brillante manovra politica.

La soluzione dei due Stati non può ragionevolmente sopravvivere nel contesto di un impegno diffuso non solo da parte degli arabi palestinesi, ma di altri arabi della regione, a favore della sola legittimità del potere islamico e arabo. Gran parte della cosiddetta sinistra israeliana, che segue o guida alcuni settori di sinistra [liberals] in Occidente a seconda di chi ne parli, sembra sostenere proprio questa visione: direttamente, nel caso degli antisionisti, e indirettamente nel caso dei sostenitori di una confederazione, o dei sostenitori della soluzione dei due Stati che accettano la teoria del colonialismo dei coloni ebrei e dell’indigeneità palestinese. Questo approccio è pericoloso anche per l’intera regione, poiché di solito va di pari passo con una sottovalutazione o addirittura con la negazione del problema della cultura e della politica imperiale locale, nonché con una esagerazione delle responsabilità delle potenze occidentali. Ciò non vuol dire che la pace, il rispetto reciproco e il compromesso non siano desiderabili: lo sono, ma non possono basarsi su falsità storiche, non possono permettere che il diritto imperiale resti incontrollato, sostenuto da storie false; né si può continuare a proiettare sul movimento nazionale palestinese, così com’esso è attualmente, un programma e una prospettiva di reciproca accettazione che di fatto esso non sostiene. Il fallimento nel conseguire un respingimento imperiale arabo continuerà a generare conflitti in tutta la regione. Lo si può vedere nell’ultimo anno in Iraq: l’attuale governo dominato dagli arabi sciiti ha attaccato l’autonomia della regione del Kurdistan.

Naturalmente, a livello globale ci sono altre due forze che sostengono il diritto imperiale nella regione, direttamente e indirettamente. Ci sono i partiti di sinistra che storicamente hanno sostenuto i nemici imperiali degli Stati Uniti, siano essi la Russia, la Cina o, più di recente, l’Iran e il Qatar. Questi nemici hanno coltivato fortemente tali gruppi anche in Sudamerica, in Africa e in Asia. Mentre gli altri sono i settori di sinistra [liberals] dell’Europa occidentale e della sfera anglosassone, così come gli uomini d’affari di tutto il mondo i cui interessi finanziari vengono prima di ogni altra cosa. Il sostegno finanziario occidentale ha contribuito al potere duraturo di questi Stati imperiali così come ha contribuito a quello dei massimalisti tra gli arabi palestinesi, a Gaza nel modo più spettacolare.

Vinceranno in Medio Oriente le forze del respingimento imperiale? Lo spero. L’alternativa è triste. Una tale vittoria richiederà tuttavia un cambiamento epocale nella riflessione sulla storia del Medio Oriente e sul valore della sovranità nazionale, a partire dai media e dalle istituzioni educative di tutto il mondo. Molti stanno raccogliendo la sfida.

(Traduzione dall’inglese di Luciano Dondero)


ENGLISH


AN ARTICLE ABOUT ARAB IMPERIALSM TO THINK OVER

from Luciano Dondero



Dear Roberto,

the English site Point of No Returnhttps://www.jewishrefugees.org.uk ) is dedicated to a group of all-too-forgotten people, namely Jewish refugees from Arab and Islamic countries in the Middle East.

A few days ago they published a very interesting article by Olga Kirschbaum-Shirazki entitled “The Middle East needs to roll back Arab imperialism for peace”.

Among the elements raised by Kirschbaum-Shirazki, co-founder and editor of the Tel Aviv Review of Books, what I find most interesting are two elements: first, a fundamental reflection on the notions of empire and nation as seen in a European and Middle Eastern framework; and then the rejection of the notion that Arabs (and Islam) are the only legitimate and ancient inhabitants of the Middle East.

In this, as you underline, we notice: "the profound culture (historical-political-geopolitical) of the author”, and her ability to place "the Kurdish question at the epicenter of the aggressiveness of three imperial currents: Turkish, Iranian and Arab [...] and that Turkish, Iranian and Arab imperial aims are today seen as the greatest danger factor in the Middle Eastern area".

I fully agree with another consideration of yours, when you say that the article «underlines a "small" detail that escapes all those who affirm an absence of continuity of the Jews from their land of origin: and that is that for almost two millennia the Jews were exiles because they were persecuted, everywhere, and not as a result of exoduses due to wars. In reality, at the beginning there was a first great exodus (Jewish War of 66-70), but then little by little the persecutions began, which, as we know, still continue».

And it follows from that, that if we really want to open up a prospect for peace in the Middle Eastern region, an initiative of international scope is needed to curb the imperial ambitions of the three different Islamic components. Beyond the attempts of non-state actors committed to the rebirth of the "Caliphate" (Al-Qaeda, Isis/Daesh and a myriad of other more or less unrealistic operators) there are real States such as Iran, Turkey and some Arab countries that embody very dangerous intentions.

The fact that some of those Arab States are oriented today towards an alliance with Israel and the West, with a view to countering the aims of the Ayatollahs of Tehran (see the affair of the "Abraham Accords") could contribute to the search for a solution. But we should not forget that for decades Egypt and Saudi Arabia have been at the forefront of several vain attempts to destroy Israel and in spreading the political ideology of the most aggressive Islam throughout Europe.

I think this article could be very useful food for thought for all those who follow Red Utopia. Last but not least for the clear criticism of the slogan “Two peoples, two States".

Keep up the good work,

Luciano



The Middle East needs to roll back Arab imperialism for peace

 by Olga Kirschbaum-Shirazki


In our age of bitter debates about nationalism, it is worth taking a moment to consider the legacy of the creation of smaller states within continental Europe since WWI. Almost a quarter of a century into the second millennium, the nation states of Europe have proven to be more stable and governable, as well as more democratic, compared with other political forms. The most successful states of the postwar period – if the measure is the prosperity of their citizens and the transparency of their governments – are the nation states of Scandinavia with their now semi-autonomous Sami and Inuit minorities. The great achievement of the European Union is not its unity and its dubious political structures with their lack of transparency and accountability, but rather the national sovereignty of the peoples of Europe, united by language, culture, and ethnicity, who are its constituent members in a continent where empires once ruled.

What is more, nation states have been the most successful unit for maintaining a concept of the public good and constraining multinational companies and state monopolies. Indeed, the state and its laws are arguably the only thing that can successfully ensure that workers and locals are not horribly abused. Multinationals thrive most in states where leftover imperial racial hierarchies persist in shattering any notion of common good – this is the story of all of the former settler colonies in the Americas with the possible exception of Uruguay, where the small country is largely an amalgam of Spanish and Italian immigrants, the indigenous population minute by the nineteenth century, decimated by disease since European colonization and a genocidal war. In many cases these hierarchies are still part of the legal structure of the country, especially with the abrogation of treaties with First Nations. All of these countries, to varying degrees, have a radically impoverished underclass, often made up of indigenous peoples, and in some cases of the African diaspora.

The imperial mentality has also characterised their extractive relationship to resources in resource-rich territories. In many regions of Africa, the failure to create states based on historical commonalities i.e. nation states – including tribal confederations of related groups, the original structure of most national groups – has made it so much easier for corruption to take hold as historical rivals living in the same state vie for its control. In contrast, while far from perfect, the nation states of Europe have been more successful in protecting their resources and environments from the worst instances of corporate abuses through laws and policies. Norway is perhaps the best example with its oil fund. Social democracy is a largely European phenomenon because it works best in nation states. Relative ethnic and cultural homogeneity helps to create and preserve a notion of public good. And despite this obvious historical reality, we have an entire intellectual class in the West which is anti-nationalist.

Imperial rollback has taken on other forms within the continent in the form of confederations. The shift in Spain to a confederation and the concomitant language, cultural, and political rights given to the Basques, Catalans and Galicians, has been another path. This is one shared to some degree by the United Kingdom, where Welsh language rights are now firmly entrenched and regional power strengthened.

That is not say that all questions have been resolved. From the Catalan to the Scottish Independence movements, to the question of Northern Ireland, the rollback of the colonisation that occurred within Europe often preceding the great imperial conquests overseas — is unfinished. The Scandinavians have only recently started to address their history with the Sami and in Denmark to the Inuit. In France, regional national languages and cultures have more protections than before, though the centralised state is still very much alive.

Within Europe itself outside of Russia, imperial rollback is a reality and the objective of so many activists and politicians of the post-WWI period to make sure that national rights were joined with minority rights is strong for the most part. This is even true in areas where the minority is a majority elsewhere, like the Russians in the Baltics and the Hungarians in Slovakia, Serbia, and Romania or the Swedes in Finland. And while critics will say that the establishment of nation states came at the price of the death of millions in regions of mixed populations, especially in Eastern Europe, this development was not inevitable and the project of national self-determination with provisions for minorities was already underway in the interwar years. All of this is not to say that nation states can’t be corrupt, belligerent, or oppressive of minorities. Rather it seems that, based on the historical record, including the post-communist eastern European states, they have a better chance of dealing with the issues successfully than imperial states.


THE ACHIEVEMENT OF IMPERIAL ROLLBACK

Of course, the history of the ‘old world’ could have taken a very different turn. The smaller people from the Atlantic to the Caucuses and Eastern Mediterranean who achieved independence or autonomy over the past century could well have lost out through forced assimilation, expulsions, or mass murder. These approaches were tried in the nineteenth and twentieth centuries by the very imperial states who have now completed their rollback. And so, the smaller peoples of central Europe did not succumb to Magyarisation, Ottoman genocides, Russian population displacements and gulags, British famines, war and chaos, or to the Nazi death machine.

WWII, so often told as a story of far-right nationalism, can also be described as a story of aggressive imperial entitlement by loser empires. Germany was at its most dangerous when it was both imperialist and had lost. The same can be said about the Ottomans who conducted their genocidal rampages after they had lost their territory in the Balkans. Yet we have a discourse of imperial apologetics in the academy especially regarding the Austro-Hungarian and Ottoman Empires as tolerant multicultural states. In this discourse, these empires were on a course of granting rights to smaller peoples, which was rudely derailed by the nationalists’ ambitions for sovereignty, and the support for these ambitions by competing empires. But such arguments fail to take into account the reality of the imperial mindset. Why should the German, Hungarians, Russians, Brits, or Ottoman Turks have ruled beyond their borders in the first place? Empire is a racket; it is the ultimate rent-seeking set up, which it was in all of these territories, whether through taxation or through the peasant labour of a smaller people for the benefit of the imperial nobility. Further, the loyalty to imperial identity or citizenship was far thinner than the Ottoman or Hapsburg apologists like to claim as the popularity of many national movements attests to. The accompanying thesis of the invention of various nationalities in the nineteenth and twentieth century, another favourite claim by historians is hard to square with reality. Preferred candidates for this claim in Europe are the different Slavic groups and in the Middle East the Jews and the Assyrians. Every single one of these ‘invented nations’ had some historical, cultural, ethnic, and linguistic identity, granted often with local variations, that made their coalescence into a national political movement possible.

Imperial rollback was not inevitable in Europe. It is an achievement. What political commentators rarely talk about in relation to this process is the lasting nature of the imperial rollback of the states and people that had once ruled the continent. Russia’s renewed imperial aggression in its old spheres of influence should not obscure the examples of Hungary, Austria, and Germany or France and Sweden for that matter. Whatever can be said about the German domination of the European Union or Hungarian nationalism, German and Hungarian imperialism – a political forces for more than a millennium in Central and Eastern Europe –  are dead. Neither of the right-wing parties in either country is actively calling for German or Hungarian irredentism. For the Germans, the expulsion of their Eastern colonial diaspora has made such calls rather empty, but for the Hungarians, irridentism could still be a political force. And yet it is not. As to France and Sweden, they too are firmly national in their political outlook. There are no budding Napoleons in the French political scene, and suggesting a return of the Swedish Empire in Scandinavia and Eastern Europe, the great project of Swedish royalty for hundreds of years, would likely meet with laughter if not total confusion. With today’s discourses on the right and left about migration, the European Union, and this matter of national self-determination and its impact on European life is barely in people’s consciousness. Perhaps it is for this reason that Europeans cannot see the empires and imperial forces in the Middle East.


IMPERIALISM AND THE MIDDLE EAST

It is not that observers fail to see that Erdogan is a leader with neo-Ottoman pretensions. And anyone who studies the Middle East knows Iran is a multinational state. The Kurdish question is not unknown, so to speak. But it is hard to say that the necessary conclusions are often drawn in the West. Thus, while there is a ubiquitous academic discourse that European imperial powers made a mess of the Middle East – and Africa – over the course of the twentieth century, little is said about the fact that Iranian, Turkish, and Arab state violence towards national groups seeking their independence – a project they have made clear over the course of the twentieth century – has been deadly, and one of the major sources of violence in the region including today. And yet our intellectual class is obsessed with Hungarian, Polish and Israeli illiberalism, which, whatever one might think about it, does not come close to the state violence, oppression, and corruption of the imperial states in Middle East.

And so sadly it is necessary to offer a macabre tour of what Arab, Iranian, and Turkish imperialism, often billed as nationalism, has done in the past century. One could point to the hundreds of thousands of dead Kurds at the hands of all three imperial groups, to the mass emigration of Assyrians due to violence and oppression, to the likewise massive emigration of Lebanese Christians and mass death and destruction brought on by the Lebanese civil war from Arab imperialism. Or the Turkish conquest of Cyprus and current bombardment of Rojava, not to mention Turkey’s indirect support for ISIS. And this is not to speak of the forced Turkification, Iranification, and Arabisation of minority populations, or the death of political dissidents in jails or on the gibbet. Or Iranian and Saudi support for the Islamists in the deadly Algerian civil war, as well as Qatar’s support for Islamists during the Arab Spring. Nor is this list comprehensive, even if already damning. One has to mention the dead in the Arab-Israeli conflict as well.


ARAB IMPERIALISM AND THE ISRAELI-PALESTINIAN CONFLICT

Indeed, Arab imperialism is a central source of the Israeli-Palestinian conflict. With the ubiquity of the discourse about Palestinian nationalism, its Arab imperial dimensions are almost totally occluded. Yet Arab imperialism was, a serious political force in the Middle East for most of the post WWI period, and remains so. It started with the aspirations of the leaders of the Arab Revolt to create a unified Arab state in the entire Levant as well as their successful sabotage, with British and French assent, of the creation of states for the other peoples in the region, most dramatically the Kurds, but also the Assyrians, Druze, and Maronites. It continued with the policies of Arabisation and Islamification of the post WWII period in all of the Arab League countries with non-Arab, non-Muslim population without exception. And while many of these policies were carried by states seeking to create a new local Syrian, Iraqi, Palestinian identity, these identities were in practice Arab and Muslim. Indeed, the creation of a Palestinian national identity never meant the rejection of an Arab identity for the Palestinians themselves, as the documents of the major political parties involved in Palestinian politics show. Palestinian maximalism is an extension, under a different name, of the Arab imperialism present in all of the post-WWI states, which claimed that where Arab Muslims are a significant part of the population, they should rule. This attitude of entitlement, characteristic of imperial peoples and their cultures, remains deeply entrenched in many countries in the Arab League. It is also present among the intellectual classes in the West, particularly those in Middle Eastern Studies departments, which idealise Convivencia in the medieval caliphates or the multicultural rainbow of ‘Iraqi’ or ‘Lebanese’ identity, vilifies sectarianism, or simply ignores the history of the national groups of the region.

Unsurprisingly, the most fascist forms of Islam find fertile ground in historical imperial states and among historically imperial cultures. Conversely,  notable Kurdish, Amazigh, or Azeri equivalents are conspicuous by their absence. That is not to say that there aren’t any Islamists among the smaller peoples of the region. However, the Kurdish, Azeri, and Amazigh political movements tend to be comparatively liberalising, and their attitude towards Islam traditionalist rather than Islamist or jihadi. Instead, we find among the traditionally imperial peoples, the Persians, Turks, and Arabs, the state sponsors of terrorism and Islamism in the area.


IMPERIAL ROLLBACK IN THE MIDDLE EAST

Yet, imperial rollback is underway in the Middle East. One of the least discussed but in some ways most significant aspects of the Abraham Accords is that its signatories exhibit multiple signs of imperial rollback. It is not simply the recognition of the state of Israel and normalisation. Morocco has made significant steps towards recognising the Amazigh, including language rights, official holidays, and some political rights. These internal policies demonstrate a shift away from a homogenous Arabisation or Islamification, and towards an acceptance of the history of the country its peoples and their aspirations. Gulf Arab states are also making efforts to liberalise, reject Jihad and Islamism, and even more recently to open up a frank interfaith dialogue –  significant signs of imperial rollback in the context of the Arab League.

Israel, uniquely successful as a national movement in the region, is a test case for what path the region will take. This is why it is incumbent, even for those who wish to see a two-state solution, to be honest about the imperial relationship of Arabs and Islam to the areas. Yet rather than supporting these developments, and understanding their revolutionary significance, liberals across the West and in Israel minimise them or view them as part of the problem. In fact, it is they who are the problem.

One of the most damaging developments for the stability of the entire region has occurred among liberals in the West and Israel, namely the internalisation of the Arab imperial discourse in its repackaged form: Israel and Jews as European settler colonialists. Even among people who support a two-state solution, we increasingly find that they only accept Israel as a de facto reality, and agree with Palestinians that the country is indigenously Arab. Other variations of this acceptance come in the form of claiming that both Jews and Arabs are indigenous to the area. The problem with claims about Palestinian Arab indigeneity — or Arab indigeneity anywhere in the “Arab World” outside of the Gulf and Jordan — is not only that they are objectively incorrect by the UN definition of indigeneity, Arabs arrived in these regions through imperial conquest, but more importantly they serve to negate Arab imperialism past and present.  The issue at stake here is not the two-state solution as an option for solving the conflict,  or the existence of a Palestinian Arab collective identity tied to the land – a development exhibited by Arabs in Iraq, Syria, Algeria, Morrocco, etc. who have developed local land-based collective identities as well — but the acceptance of an ideology which fundamentally views any Jewish national sovereignty as unjust because it refuses to see any Arab or Muslim history as imperial.

Today the Palestinian Arab claim to indigeneity, as well any other Arab claim to indigeneity in the “Arab World” in areas outside of the Arab homeland, denies this imperial entitlement, while simultaneously granting its objectives legitimacy: it is a brilliant political manoeuvre

The two-state solution cannot reasonably survive in the context of widespread commitment not only by Palestinian Arabs, but other Arabs in the region, to the sole legitimacy of Islamic and Arab power. Much of the so-called Israeli left, following or leading liberals in the West depending on who you ask, seems to be propping up this very view directly, in the case of anti-Zionists, and indirectly in the case of supporters of a confederation or two-state solution supporters who accept the narrative of Jewish settler colonialism or Palestinian indigeneity. This approach is dangerous for the entire region as well, as it usually goes hand in hand with an underestimation or even denial of the problem of local imperial culture and politics, as well as the overestimation of the responsibility of Western powers. That is not to say that peace, mutual respect, and compromise are not desirable: they are, but they cannot be based on historical falsehood, they cannot allow imperial entitlement to go unchecked propped up by false histories, and they cannot continue to project onto the Palestinian national movement, as it currently stands, a programme and outlook of mutual acceptance which it is does not in fact support.  The failure to achieve Arab imperial rollback will continue to breed conflict across the region.  One can see it playing out in the past year in Iraq:  the current Shia Arab-dominated government has been attacking the autonomy of the Kurdistan region.

Of course, globally there are two other forces that are upholding imperial entitlement in the region, directly and indirectly. There are the left-wing parties who have historically supported the imperial enemies of the United States, whether Russia, China, or more recently Iran and Qatar. The latter have also strongly cultivated these groups in South America, Africa, and Asia. The others are the liberals in Western Europe and the Anglosphere, as well as business people from around the world whose financial interests come first. Western financial support has contributed to the lasting power of these imperial states as it has to the maximalists among the Palestinian Arabs, most spectacularly in Gaza.

Will the forces of imperial rollback win out in the Middle East? I hope so. The alternative is grim. Such a victory will however require a sea change in discourse in the history of the Middle East and the value of national sovereignty, starting in the media and educational institutions around the globe. Many are taking up the gauntlet.



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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.