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mercoledì 19 luglio 2017
martedì 11 luglio 2017
DONALD TRUMP: «VEDETTE» PSEUDOPOPULISTA DELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO, di Michele Nobile
INDICE: 1. La questione Trump - 2. Donald Trump come vedette della società dello spettacolo - 3. La psicopatologia politica e l’impossibile psicoanalisi di Donald Trump - 4. Come movimento e come regime il populismo è cosa qualitativamente diversa dallo pseudopopulismo di Trump - 5. I contenuti del programma di Trump, per quel che conta, non sono qualitativamente nuovi: particolare è l’intensità con cui sono stati trasmessi - 6. La questione fondamentale trascurata nei discorsi sul populismo o fascismo di Trump: lo stato della lotta fra le classi - 7. Trump come espressione della postdemocrazia - Bibliografia
1. La questione Trump
È normale che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti alimentino aspettative e timori nei confronti di questo o quel candidato al ruolo di leader della superpotenza mondiale. Tuttavia Barack Obama e Donald Trump hanno suscitato reazioni emotive fuori dell’ordinario e cariche di un’enorme valenza politica. Da Obama, il messia nero, tanti si aspettavano la liquidazione del cosiddetto neoliberismo, allora sprofondato nella più grave crisi del dopoguerra, e un nuovo New Deal. A Trump è invece imputato l’intento di voler operare un fondamentale cambiamento del sistema politico degli Stati Uniti, di voler alterare, se non la sacrosanta e più che bicentenaria Costituzione formale, la Costituzione materiale del Paese; da qui i discorsi su un nuovo regime variamente aggettivato: populista, autoritario, bonapartista, criptofascista, fascista… E ciò non soltanto per via delle sue proposte ma - forse ancor più - per l’impressione suscitata dal suo stile comunicativo, dall’immagine che egli ha voluto trasmettere.
Se la memoria non m’inganna un tale livello di emotività, che potrebbe dirsi isterico, non si verificò neanche a proposito delle elezioni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, una coppia che realmente segnò una discontinuità storica. Reagan era un esponente del rinnovato attivismo conservatore della new right repubblicana, designato in una convention che aveva rimosso dal programma del partito il sostegno per l’Equal Rights Amendment - presente dal 1940 - e inserito la proposta di un bando costituzionale dell’aborto: i suoi intenti, quindi, erano chiari. Egli appariva come il visionario di una nuova epoca di prosperità americana mediante la riduzione delle tasse - per i ricchi - e la liberazione delle corporations dalle oppressive regolazioni del big government; il moralista fautore del taglio delle spese per il welfare state, improduttivo alimento dell’ozio e del vizio alle spalle dei cittadini virtuosi; era il «falco» deciso a farla finita con la «sindrome del Vietnam»; l’impavido avversario di quello che poi definì l’«impero del male» e dei suoi accoliti nel mondo; l’amico generoso dei freedom fighters controrivoluzionari; era il capo determinato a far rifluire l’onda lunga del Watergate per restaurare in tutta la sua autorità il ruolo del Presidente - la «presidenza imperiale» - dentro e fuori del Paese1. Tuttavia, per quanto Reagan si collocasse sulla destra dello spettro politico repubblicano, egli non fece gli errori di Goldwater; al contrario, nella campagna elettorale si mostrò pacato e ragionevole, riuscendo ad attrarre sia l’opinione pubblica conservatrice e fondamentalista che quella moderata. Nel giro di un quindicennio un effetto del successo di Reagan fu l’emarginazione nel Partito repubblicano della componente moderata e il divenire normalità di quello che tra gli anni ‘50 e ‘60 Richard Hofstadter definiva pseudoconservatorismo, caratterizzato dallo stile paranoide in politica2. Per i Repubblicani Reagan rimane un eroe, ma oggi egli apparirebbe come un moderato incline al compromesso. Donald Trump è un sottoprodotto di questo processo.
Non che ai tempi dell’ascesa di Reagan al potere mancassero preoccupazione e passione nella sinistra, ma tutto sommato l’analisi era più controllata, più ponderata. Di Reagan non si vedeva solo lo stile di grande comunicatore - non era forse un ex attore? - ma anche il culmine della southern strategy, di cambiamenti strutturali e territoriali del capitalismo statunitense3, nell’economia mondiale e nei rapporti di forza tra le classi.
La spettacolarizzazione mediatica ha fatto enormi progressi e ora le sue luci ingigantiscono sul palcoscenico politico le immagini di attori umanamente e intellettualmente mediocri, astuti naviganti ma poveri di idee e di ideali; e penso che in questo campo la politica europea - quella italiana in particolare - sia da tempo impegnata a dimostrare perversamente il vantaggio di cui può godere l’«ultimo arrivato».
Trump è a suo modo un «fenomeno» e grandi sono i poteri del «Potus», del President of the United States. Tuttavia egli resta «solo» l’esponente politico del più ricco e potente capitalismo del mondo, la cui economia si estende ben oltre i confini nazionali, e di un gigantesco insieme di istituzioni, apparati burocratici, reti politiche, di uno Stato federale e liberale: si tratta di un formidabile insieme di forze che delimita i parametri d’azione del Presidente. Del personaggio va colta la particolarità dell’immagine spettacolare, ma anche i motivi per cui non rappresenta affatto una rottura dell’ordine politico statunitense, un nuovo regime politico o un nuovo regime d’accumulazione.
Ovviamente ho presente gli atti del presidente Trump, gli executives orders, i memorandum ecc. Qui però non intendo entrare più di tanto nel merito degli atti. Mi propongo di trattare un argomento preliminare: le interpretazioni del fenomeno Trump.
2. Donald Trump come vedette della società dello spettacolo
Il personaggio pubblico Donald Trump è innanzitutto una vedette della società dello spettacolo; dello spettacolo come fatto sociale totale, non come àmbito particolare di una società nazionale; per società dello spettacolo intendo la società mondiale contemporanea, dominata da una specifica configurazione storica del capitalismo e dalle sue contraddizioni4. È uno spettacolo in cui si recitano parti diverse su palchi distinti, le cui scene possono apparire desincronizzate, le une barbaramente arcaiche e le altre futuristicamente postmoderne. Tuttavia si tratta di un’unica società, i cui apparenti anacronismi sono parte di una totalità che continua e trasforma la struttura spazio-temporale di base del capitalismo mondiale: lo sviluppo ineguale e combinato5. In questa prospettiva Osama bin Laden, Donald Trump e Vladimir Putin sono vedettes del medesimo spettacolo mondiale, potenziato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa.
La vedette è un’immagine di successo creata nel e dal potere: successo che nel caso del Presidente eletto Donald Trump si misura in voti e nell’accesso alle leve del potere supremo degli Stati Uniti. Tuttavia la vedette non è, propriamente parlando, un’individualità.
I discorsi e la gestualità di Trump trasmettono deliberatamente un messaggio politico, ma non sono utili per sondare le profondità della psiche della vedette. Non ha senso psicoanalizzare un soggetto i cui discorsi sono scritti da altri - esperti di marketing - e i cui gesti sono deliberatamente tesi a trasmettere l’immagine di un uomo lontano dalle buone maniere e dai compromessi dietro le quinte dell’élite politica e culturale. Questa figura può invece essere intesa come un’allegoria, l’espressione condensata di forze che comprendono e trascendono la sua umana singolarità.
Di Trump si può allora dire che egli è sintesi compiuta del capitalismo contemporaneo, che eleva a spettacolo i flussi finanziari e nel quale la spettacolarizzazione è un ingrediente necessario dell’inflazione dei titoli finanziari e della speculazione a credito su virtuali rendimenti futuri.
Come businessman, Donald Trump è espressione dello sviluppo della logica del settore emblematico di questo capitalismo: quello che negli Stati Uniti è definito «fire» - finance, insurance, and real estate - ovvero finanza, assicurazioni e immobiliare. È stato un agente di alto livello dell’intreccio fra speculazione immobiliare e credito bancario, che ha costruito ad arte la propria immagine per assurgere al ruolo di vedette conducendo operazioni spettacolari oltre che redditizie, ma con eccezioni importanti. Negli stessi brillanti anni ‘80 reaganiani, quelli degli yuppies (young urban professionals), dei titoli spazzatura e degli spezzatini finanziari, il costruttore Trump fece uno strumento commerciale del proprio nome e della narcisistica ostentazione del suo stile di vita, popolarizzato da rotocalchi e trasmissioni come Lifestyles of the Rich and Famous. Acquistò una dimora storica di 118 camere a Mar-a-Lago in Florida - costruita negli anni ‘20 per ospitare i presidenti statunitensi e gli ospiti stranieri di alto rango - un mega-yacht di 85 metri, un jet privato e una lunga sfilza di edifici tutti battezzati col nome Trump, di cui il Trump Tower è il più noto oltre che il luogo della sua epifania politica, della decisione di vendere la propria immagine anche nel mercato elettorale.
Ad Atlantic City Trump costruì o acquistò diversi casinò: Trump Plaza, Trump Castle e il più costoso al mondo, il Trump Taj Mahal, nel cui nome si fondono in un’evocazione favolosa il padrone, il denaro e il fascino dell’esotico. Ovviamente il Trump Taj Mahal è un pastiche postmodernista che non ha nulla a che fare con l’autentico. Questo interesse per i casinò è sintomatico: il casinò è il perfetto emblema del casino capitalism - denaro, lusso, effimero, credito e titoli spazzatura - ma ha anche i difetti di quest’ultimo: azzardo e calcolo del rischio, spettacolarizzazione del flusso di denaro e incertezza, trionfo e caduta tra violente oscillazioni. A un certo momento, ad esempio, quando al boom subentra la recessione, imprese poco redditizie - oppure avviate o acquistate con finanziamenti che speculano su profitti virtuali - possono non riuscire a far fronte ai debiti. Ciò è ancor più vero per quella combinazione di spettacolo, intrattenimento, speculazione finanziaria e immobiliare prediletta dal businessman Trump. Ragion per cui diverse delle sue imprese più spettacolari non sfuggirono alla dichiarazione di bancarotta: i suoi casinò (nei primi anni ’90), la società Trump Hotels and Casino Resorts (nel 2004) e la Trump Entertainment Resorts (nel 2009), come era stata ridenominata la precedente; dovette cedere anche la Trump Airlines, in preda ai debiti.
Risultati non proprio entusiasmanti. Tuttavia Trump riuscì a ridurre i danni accordandosi con i creditori, cedendo consistenti porzioni dei pacchetti azionari delle imprese in questione e accettando posizioni onorifiche: la bancarotta di diverse sue operazioni non comportò quella personale di Donald Trump, né della sua immagine. A questi non si applicò la famosa frase you’re fired! con cui proclamava il fallimento dei partecipanti allo show televisivo The Apprentice. L’abilità di Trump consistette nella separazione della sua immagine, come rappresentazione del casino capitalism, dalla sua realtà. Egli era già una vedette, un nome dotato del valore d’uso di convertirsi in denaro, quindi in grado di attrarre investitori nonostante la bancarotta di alcune sue imprese. Era un autoproclamatosi artista degli affari, capace di minacciare una causa legale a chi lo qualificava come un semplice milionario - invece che miliardario - e di narrare le sue avventure d’affari e d’amore in modo autocelebrativo in libri quali Trump: surviving at the top (1990) e Trump: the art of the comeback (1997). E poiché, come gli affari, l’amore può essere rischiosamente costoso, specialmente quando finisce e si è ricchi e famosi, il consiglio di Trump è di essere previdenti e di garantirsi dalla bancarotta amorosa con adeguato contratto: anche questa un’arte in cui pare eccellere, come s’intende dal titolo di un capitolo di Trump: the art of the comeback: «The art of the prenup: the engagement wring», dove prenup sta per prenuptial agreement.
In Trump il concreto dell’individualità umana si trasfigura nell’immagine del denaro che produce denaro: Trump è un brand vendibile per alimentare lo spettacolo sociale. Ed è esattamente questo che egli fece - ancor più e meglio di prima - a partire dagli anni ‘90. La vedette del casino capitalism ascese a vette più alte in termini di notorietà, aprendosi la via alla audience più ampia, quella degli spettatori-elettori.
Ronald Reagan era stato un attore mediocre, emerso come oratore politico per la destra del Partito repubblicano nella campagna presidenziale di Barry Goldwater; e quando Arnold Schwarzenegger fu eletto governatore della California egli era ancora una star cinematografica, la prima ad assurgere a un importante ruolo politico di governo. È naturale che nella società dello spettacolo il cinema e la televisione siano canali per una rapida carriera politica. Anche se, in Italia, Berlusconi era proprietario di un impero televisivo, ma non una star televisiva. Donald Trump è invece una vera e propria star televisiva ed è la prima fra queste ad assurgere al massimo livello di una grande potenza. Il successo televisivo di Trump non era quello di una vedette politica, ma dell’immagine dell’affarista protagonista e giudice di un game show, The Apprentice, trasmesso dalla rete NBC per quattordici stagioni a partire dal 2004. Trump aveva già la sua notorietà ma, come egli giustamente notò, avere una audience televisiva di 20 milioni di persone (nella prima stagione) significa un salto di qualità. Una porta aperta per giocare in proprio, che fu già tentato di attraversare in vista delle elezioni presidenziali del 2000.
Ma il suo tempo non era ancora arrivato.
sabato 8 luglio 2017
AMERICA LATINA: UN FUTURO ECONOMICO MOLTO INCERTO, di Andrea Vento (Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)
Pubblichiamo per i lettori del nostro blog un estratto dall’opuscolo di Andrea Vento Il continente americano. L’America latina (Giga Autoproduzioni, 2017, pp. 36). [la Redazione]
Gli effetti delle politiche sociali dei governi progressisti
Il miglioramento delle condizioni sociali è un fenomeno strutturale che investe l’intera America latina ormai dall’inizio del nuovo millennio: la quota di persone in povertà (grafico 1)1 registra infatti, nell’intervallo 2000-2010, una diminuzione sia nel dato generale dell’intera macroregione - che si attesta poco sopra il 30% - sia all’interno dei singoli paesi. La diffusione della povertà assume tuttavia dimensioni piuttosto eterogenee all’interno dei vari stati, disparità che riguardano anche l’entità della riduzione, che risulta particolarmente spiccata in Perù, Venezuela e Cile. Ciò nondimeno rimangono critiche le condizioni sociali in alcuni paesi - in prevalenza centroamericani (Honduras e Nicaragua) - in cui nel 2010 più della metà della popolazione risulta ancora sotto la soglia di povertà, non dimenticando Haiti, lo stato con la situazione più critica, con circa l’80% dei suoi abitanti che patisce questa condizione e il 54% che cerca di sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Questo quadro fa sì che il paese caraibico si collochi al penultimo posto nella relativa classifica mondiale.
Più complessa risulta la lettura della dinamica della distribuzione del reddito fra le classi sociali all’interno dei diversi paesi. Se l’intera macroregione ha evidenziato (grafico 2)2 una riduzione delle profonde sperequazioni socioeconomiche grazie alle politiche redistributive messe in atto dai governi progressisti, alcuni stati hanno visto aumentare i già cospicui squilibri. La Colombia, l’Honduras, la Repubblica Dominicana, il Costa Rica e soprattutto il Guatemala, stati accomunati dalla presenza di governi di destra, neoliberisti e filostatunitensi, si sono caratterizzati per un ulteriore aumento delle differenze reddituali.
La crisi dei governi progressisti
I segnali che giungono da diversi paesi - Brasile in particolare - sembrerebbero indicare che il ciclo dei governi progressisti latinoamericani stia cominciando a segnare il passo, nonostante abbia costituito una fase storico-geopolitica inedita per il subcontinente, oltre ad aver rappresentato l’area di resistenza più avanzata su scala globale al neoliberismo. I risultati ottenuti in termini di avanzamento democratico, riconoscimento dei diritti delle comunità amerindie, progresso sociale e riappropriazione di sovranità economica sono sicuramente inconfutabili e apprezzabili. Tuttavia i limiti - soprattutto in campo economico - che hanno condizionato la maggior parte di questi stati hanno poi creato i presupposti affinché all’inizio del 2015 gli elementi di criticità, espressi in termini di difficoltà economiche e malessere sociale, iniziassero ad assumere dimensioni preoccupanti.
Le problematiche che hanno afflitto i governi progressisti - sudamericani in particolare - sono riconducibili principalmente a cinque elementi, legati sia alle politiche interne che al ciclo economico-finanziario internazionale:
• mancato superamento del modello economico estrattivista;
• mancata attuazione di riforme strutturali incisive in campo economico e fiscale;
• attuazione di sole politiche redistributive attraverso programmi sociali;
• stagnazione/recessione del Brasile;
• contrazione della domanda internazionale, soprattutto cinese.
mercoledì 5 luglio 2017
LIBRO SULLE «GENTI DI CALABRIA» di Pino Bertelli
È DA POCO USCITO NELLE LIBRERIE - EDITO DA SUONI & LUCI - IL VOLUME DI PINO BERTELLI GENTI DI CALABRIA. ATLANTE FOTOGRAFICO DI GEOGRAFIA UMANA (PP. 204, € 50,00), CONTENENTE OLTRE 200 IMMAGINI IN B/N E CORREDATO DA TESTI DI FRANCESCO MAZZA, PAOLA GRILLO, HUBERTUS VON AMELUNXEN, OLIVIERO TOSCANI, MAURIZIO REBUZZINI, LUIGI MARIA LOMBARDI SATRIANI, LUIGI LA ROSA E PINO BERTELLI.
GENTI DI CALABRIA, UN PROGETTO AMBIZIOSO…
www.gentidicalabria.it
Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza.
In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente. In questa infelicità dorata la tragedia giunge al sommo. Invece la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni.
Ecco perché l’Europa sarebbe ignobile, se mai il dolore potesse esserlo. Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa han preso le armi.
(Albert Camus)
In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente. In questa infelicità dorata la tragedia giunge al sommo. Invece la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni.
Ecco perché l’Europa sarebbe ignobile, se mai il dolore potesse esserlo. Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa han preso le armi.
(Albert Camus)
Niente paesaggi, niente cartoline di Calabria, nessuna composizione, solo figure umane attraverso le quali, dai più piccoli ai più grandi, raccontare la storia, lo splendore, la sofferenza, la ricchezza, la povertà e la speranza di una Terra meravigliosa che non deve rassegnarsi agli eventi ma costruire il proprio destino, appunto come quei volti parlanti ci suggeriscono.
Ad accompagnare il racconto di Pino si insinueranno tra le foto narrazioni di antropologi e studiosi di chiara fama che ci restituiranno un racconto avvincente, una testimonianza che possa rimanere ai nostri figli prima ancora che a noi che decidiamo di sostenere questo lavoro. La collaborazione di tutti i partecipanti al progetto è naturalmente gratuita.
Il progetto prevede anche la realizzazione di una mostra itinerante di 30/50 foto (da esporre in Italia e all’estero) e di un DVD.
Il libro, la mostra, il DVD e l’archivio delle immagini saranno a sostegno della cultura calabrese. A noi non interessa nulla della fotografia corrente, civile, impegnata, democratica, mercantile, amatoriale ecc.: ciò che importa per noi è lavorare sull’immaginario dal vero, raccontare l’uomo o la donna non per quello che si vedono, ma per quello che sono e per come stanno al mondo. Qualsiasi persona - qualsiasi diversità - ha diritto alla bellezza (anche perduta), ciò che importa è respingere dappertutto l’infelicità. E il diritto alla bellezza, quindi alla giustizia, non tiene conto né di un necessario successo né di un eventuale consenso… per la libertà, come per l’amore, non ci sono catene! La libertà (non solo in fotografia, ma anche nella vita) non si concede, ce la si prende! La bellezza è l’ultima fermata prima del paradiso in terra! La bellezza seppellirà tutti, ma con grazia. Con queste idee in testa (e altri canti di fraternità radicale) vorremmo fare GENTI DI CALABRIA.
LA RICERCA DELLA BELLEZZA
Oliviero Toscani
Le immagini non sono altro che accumulo di situazioni, volti, paesaggi, oggetti: se parlano di tragedie è meglio rimuoverle invece di guardarle con l’impegno con cui si guarda la pittura antica, per soddisfare anche quell’emozione estetica di cui continuiamo, nonostante tutto, ad avere bisogno.
La tensione verso la bellezza è una necessità epidermica: fa parte del progetto umano. È un’esigenza di sopravvivenza. Per queste ragioni la ricerca della bellezza di Pino Bertelli, come per Pier Paolo Pasolini, è un profondo progetto umano ed artistico che indaga sulla sensibilità degli sguardi umani… La ricerca della bellezza in una tragedia umana e sociale è il risultato estremo che Pino Bertelli ha creato e realizzato in modo eccelso. Queste immagini dei volti, degli sguardi, della dignità di questi esseri umani sospesi in un’espressione di attesa di un futuro migliore, quindi della bellezza della speranza umana, ci fa sperare positivamente.
Bertelli è riuscito a realizzare, in questo libro, la ricerca di questa speciale bellezza in modo emozionante, insegnandoci questo esercizio che tutti noi dovremmo fare costantemente, ogni giorno, nel nostro quotidiano; scovare la bellezza nelle tragedie può esserci di aiuto per fortificare il nostro ottimismo e quello della società che ci circonda, invece di accettare di vivere soffocati dalla paura; che ormai è l’emozione che ha preso il sopravvento nella vita di tutti noi.
Abbiamo bisogno di questo ottimismo generato dalla forza di questa bellezza, che ci aiuta ad affrontare la realtà più degradata, quell’ottimismo che ci permette di continuare a vivere, mentre il mondo intorno a noi sembra crollare.
Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
domenica 2 luglio 2017
SYRIA, QATAR, GAZA: PLOT THICKENS IN THE NEAR EAST, by Pier Francesco Zarcone
IN DUE LINGUE (Inglese, Italiano)
IN TWO LANGUAGES (English, Italian)
IN TWO LANGUAGES (English, Italian)
Iranian Foreign Minister Javad Zarif visits Ankara, June 7, 2017 © Yasin Bulbul |
We know that international legality goes no further than pious aspirations, so all that counts is force and tactical-strategic capacity of its use.
THE SYRIAN CRISIS
Well, the United States edged its way into Syria on its own account – that is, without the Damascus government having called on it – in order to achieve two interrelated goals.
First, to save the self-styled anti-Assad Syrian Democratic Forces which had suffered blows from both ISIS and the Syrian Arab Army of Damascus – to the extent that it was necessary to link them up with the Kurdish militia of Syria to give a semblance of existence.
Second, to break the potential territorial continuity between Syria, Iraq and Iran – that is, the so-called “Shiite corridor”.
To date, none of these goals has come to fruition, and Washington is facing complications that are not indifferent.
The use of the Kurds has inevitably led to the hostility of Turkey, NATO’s most important partner in the eastern Mediterranean, and it is practically impossible to rule out that Ankara will stand by without doing anything faced with the rise of a Kurdish entity in northern Syria. In this regard, a storm is brewing, from which Russia will benefit.
As for the second point, the failure to interrupt the Shiite corridor, which implied in practice US occupation of south-east Syria, should be noted (US troops were stationed at the al-Tanf border crossing between Syria and Iraq). As the Syrian army approached al-Tanf, the United States responded with bombing and unilaterally declaring a “deconfliction zone” around it.
In this way, it also counted on interrupting Iranian supplies to the Lebanese Hezbollāh; but the fundamental objective was to take control of an area from the Saudi-Iraq border in the province of Al Anbar – in western Iraq – across south-eastern Syria and north-eastern Syria occupied by the Kurds.
Instead, it was Syrian troops supported by Iraqi troops that connected western Syria with the border north of al-Tanf and met up with the Iraqis north-east of the border crossing, as well as advance towards Abu Kamal and the Euphrates valley.
For its part, the Russian command has warned Washington that military action aimed at changing the situation thus created would be a hostile act to which it would react.
Iran has made itself heard by launching medium-range missile from its territory on ISIS positions in Syria. With missiles launched from its ships in the Mediterranean, Russia has bombed jihadist positions, while Iraqi militias have marched from the south towards al-Tanf. As a result, the small US contingent present there has been put out of harm’s way – at least for the time being.
On Syria, it is interesting to read the recent interview by Robert S. Ford – US ambassador in that country from 2010 to 2014 – with the Arab daily al-Sharq al-Awsat, which was obviously ignored by the “politically correct” media.
After recalling that at the beginning it was considered safe to bring down the government of Bashar al-Assad – while the situation changed following the involvement of Iran, Russia and Hezbollāh, as a result of which the Syrian army recovered and took back increasingly more territory – Ford wanted to warn the Kurds of Syria vis-a-vis the United States, pointing out that Washington never intended to help them in their aspirations once Raqqa had been conquered, thus making it understood that they would find themselves on their own against the governments of Damascus and Ankara.
SIRIA, QATAR, GAZA: NEL VICINO ORIENTE IL QUADRO SI COMPLICA, di Pier Francesco Zarcone
IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)
Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif in visita ad Ankara, 7 giugno 2017 © Yasin Bulbul |
Sappiamo che la legalità internazionale non va al di là delle pie aspirazioni, per cui contano solo la forza e la capacità tattico-strategica del suo utilizzo.
LA CRISI SIRIANA
Orbene, gli Stati Uniti si sono infilati in Siria di propria iniziativa, cioè senza che il governo di Damasco li abbia chiamati, al fine di realizzare due obiettivi fra loro collegati:
a) salvare le sedicenti Forze Democratiche Siriane anti-Assad, che avevano subìto duri colpi sia dall’Isis che dall’Esercito Arabo Siriano di Damasco - tant’è che è stato necessario collegarle alla milizia curda di Siria per dar loro una parvenza di esistenza;
b) spezzare la possibile continuità territoriale fra Siria, Iraq e Iran, vale a dire il cosiddetto “corridoio sciita”.
Al momento non si è concretizzato nessuno di questi propositi, e per Washington si prospettano complicazioni non indifferenti.
L’utilizzo dei Curdi ha provocato inevitabilmente l’ostilità della Turchia, il più importante partner della Nato nel Mediterraneo orientale, ed è praticamente da escludere che Ankara assista senza far nulla al sorgere di un’entità curda nel nord della Siria. Al riguardo si prospetta tempesta, di cui la Russia si avvantaggerà.
Riguardo al secondo punto va registrato il fallimento dell’interruzione del corridoio sciita, che implicava in pratica l’occupazione statunitense della Siria sudorientale - truppe Usa si erano stanziate nel valico di frontiera di al-Tanf, tra Siria e Iraq. All’avvicinarsi dell’esercito siriano ad al-Tanf, gli Stati Uniti avevano risposto coi bombardamenti e dichiarando unilateralmente una “zona di deconflitto” attorno alla località.
In questo modo contavano anche d’interrompere i rifornimenti iraniani all’Hezbollāh libanese; ma l’obiettivo fondamentale consisteva nell’assumere il controllo di una zona che va dal confine saudita-iracheno nella provincia di al-Anbar - nell’Iraq occidentale - attraverso la Siria sudorientale e la Siria nordorientale occupata dai Curdi.
Sono state invece le truppe siriane, appoggiate da quelle irachene, a collegare la Siria occidentale col confine a nord di al-Tanf e ad incontrarsi con gli Iracheni a nordest del valico, nonché ad avanzare verso Abu Kamal e la valle dell’Eufrate.
Dal canto suo il comando russo ha avvertito Washington che azioni militari volte a modificare la situazione così determinatasi avrebbero costituito un atto ostile a cui reagire.
L’Iran si è fatto sentire col lancio di missili a media gittata dal proprio territorio su posizioni dell’Isis in Siria. La Russia ha bombardato - con missili lanciati dalle sue navi nel Mediterraneo - posizioni jihadiste, mentre le milizie irachene hanno marciato da sud su al-Tanf. Di conseguenza il piccolo contingente statunitense lì presente è stato messo in condizione di non nuocere - almeno per il momento.
Sulla Siria è interessante la recente intervista rilasciata da Robert S. Ford, ambasciatore statunitense in quel Paese dal 2010 al 2014, al quotidiano arabo al-Sharq al-Awsat, passata ovviamente sotto silenzio dai media “politicamente corretti”.
Dopo aver ricordato che all’inizio si riteneva sicuro l’abbattimento del governo di Bashar al-Assad - mentre poi la situazione si è modificata a seguito del coinvolgimento di Iran, Russia ed Hezbollāh, grazie a cui l’esercito siriano si è ripreso e ha recuperato sempre più territorio - Ford ha voluto mettere in guardia i Curdi di Siria nei confronti degli Stati Uniti, sottolineando che Washington non ha mai inteso aiutarli nelle loro aspirazioni una volta conquistata Raqqa, facendo quindi capire che essi si troveranno soli contro i governi di Damasco e Ankara.