IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)
Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif in visita ad Ankara, 7 giugno 2017 © Yasin Bulbul |
Sappiamo che la legalità internazionale non va al di là delle pie aspirazioni, per cui contano solo la forza e la capacità tattico-strategica del suo utilizzo.
LA CRISI SIRIANA
Orbene, gli Stati Uniti si sono infilati in Siria di propria iniziativa, cioè senza che il governo di Damasco li abbia chiamati, al fine di realizzare due obiettivi fra loro collegati:
a) salvare le sedicenti Forze Democratiche Siriane anti-Assad, che avevano subìto duri colpi sia dall’Isis che dall’Esercito Arabo Siriano di Damasco - tant’è che è stato necessario collegarle alla milizia curda di Siria per dar loro una parvenza di esistenza;
b) spezzare la possibile continuità territoriale fra Siria, Iraq e Iran, vale a dire il cosiddetto “corridoio sciita”.
Al momento non si è concretizzato nessuno di questi propositi, e per Washington si prospettano complicazioni non indifferenti.
L’utilizzo dei Curdi ha provocato inevitabilmente l’ostilità della Turchia, il più importante partner della Nato nel Mediterraneo orientale, ed è praticamente da escludere che Ankara assista senza far nulla al sorgere di un’entità curda nel nord della Siria. Al riguardo si prospetta tempesta, di cui la Russia si avvantaggerà.
Riguardo al secondo punto va registrato il fallimento dell’interruzione del corridoio sciita, che implicava in pratica l’occupazione statunitense della Siria sudorientale - truppe Usa si erano stanziate nel valico di frontiera di al-Tanf, tra Siria e Iraq. All’avvicinarsi dell’esercito siriano ad al-Tanf, gli Stati Uniti avevano risposto coi bombardamenti e dichiarando unilateralmente una “zona di deconflitto” attorno alla località.
In questo modo contavano anche d’interrompere i rifornimenti iraniani all’Hezbollāh libanese; ma l’obiettivo fondamentale consisteva nell’assumere il controllo di una zona che va dal confine saudita-iracheno nella provincia di al-Anbar - nell’Iraq occidentale - attraverso la Siria sudorientale e la Siria nordorientale occupata dai Curdi.
Sono state invece le truppe siriane, appoggiate da quelle irachene, a collegare la Siria occidentale col confine a nord di al-Tanf e ad incontrarsi con gli Iracheni a nordest del valico, nonché ad avanzare verso Abu Kamal e la valle dell’Eufrate.
Dal canto suo il comando russo ha avvertito Washington che azioni militari volte a modificare la situazione così determinatasi avrebbero costituito un atto ostile a cui reagire.
L’Iran si è fatto sentire col lancio di missili a media gittata dal proprio territorio su posizioni dell’Isis in Siria. La Russia ha bombardato - con missili lanciati dalle sue navi nel Mediterraneo - posizioni jihadiste, mentre le milizie irachene hanno marciato da sud su al-Tanf. Di conseguenza il piccolo contingente statunitense lì presente è stato messo in condizione di non nuocere - almeno per il momento.
Sulla Siria è interessante la recente intervista rilasciata da Robert S. Ford, ambasciatore statunitense in quel Paese dal 2010 al 2014, al quotidiano arabo al-Sharq al-Awsat, passata ovviamente sotto silenzio dai media “politicamente corretti”.
Dopo aver ricordato che all’inizio si riteneva sicuro l’abbattimento del governo di Bashar al-Assad - mentre poi la situazione si è modificata a seguito del coinvolgimento di Iran, Russia ed Hezbollāh, grazie a cui l’esercito siriano si è ripreso e ha recuperato sempre più territorio - Ford ha voluto mettere in guardia i Curdi di Siria nei confronti degli Stati Uniti, sottolineando che Washington non ha mai inteso aiutarli nelle loro aspirazioni una volta conquistata Raqqa, facendo quindi capire che essi si troveranno soli contro i governi di Damasco e Ankara.
LA CRISI QATARIOTA E LA STRISCIA DI GAZA
Questa crisi viene collegata con la visita di Trump in Arabia Saudita, e il suo contenuto corrisponde alla visione del neo-presidente Usa e agli interessi di Riyad: il nemico principale non è l’Isis, ma è tornato ad essere l’Iran.
C’è da dire che lo scontro saudita-qatariota ha prodotto immediate conseguenze ad ampio raggio: in Africa orientale c’è stato il ritiro dalla frontiera “calda” fra Gibuti ed Eritrea delle truppe del Qatar, lì stanziate dal 2010 per porre fine agli scontri armati causati da una disputa territoriale ancora non risolta fra i due paesi: sia il Gibuti che l’Eritrea, infatti, si sono schierati con l’Arabia Saudita.
Il vuoto così determinatosi potrebbe riaprire il conflitto, magari anche col coinvolgimento dell’Etiopia, notoriamente ostile all’Asmara. Inoltre la questione ha finito col coinvolgere Hamas, che controlla la striscia di Gaza.
L’Egitto si è schierato con l’Arabia Saudita contro Doha, sia a motivo degli aiuti economici che riceve da Riyad, sia per l’appoggio qatariota ai Fratelli Musulmani messi fuorilegge dal Cairo. Su questa disputa l’atteggiamento di Hamas è a dir poco ambiguo - di qui le manovre egiziane nei confronti di quest’organizzazione.
Per farla breve, sembra che ci siano stati contatti fra l’Egitto e al-Fatah per risolvere due grossi problemi che stringono Gaza in una morsa: la scarsa fornitura di energia elettrica alla striscia - di cui sono corresponsabili Egitto e Israele - e la chiusura del valico di Rafah, al confine fra Egitto e Gaza.
I problemi di Gaza dovrebbero essere gestiti da una commissione presieduta da un esponente di al-Fatah, Muhammad Dahlan (che l’Egitto vorrebbe come successore di Abu Mazen), che si troverebbe ad amministrare un budget di 50 milioni di dollari - ricavati dalle imposte che l’Autorità Nazionale Palestinese riscuote a Gaza - e in più curerebbe i rapporti con Egitto e Israele.
A questo punto ci sarebbero la riapertura di Rafah e l’aumento delle forniture elettriche egiziane - e forse anche israeliane. Hamas continuerebbe a governare Gaza, ma solo per quanto riguarda l’amministrazione interna.
La manovra in apparenza si presenta in favore di Gaza, ma in realtà tende ad aumentare la pressione di Egitto e ANP verso Hamas. E questo potrebbe portare a un avvicinamento fra Hamas e l’Iran, che attraverso il generale Qassem Soleimani (attivissimo nella lotta all’Isis) e il presidente del Parlamento Ali Larijani si è affrettato a congratularsi con Yahya Sinwar per la sua recente nomina a capo di Hamas.
Il fatto che le lettere di congratulazioni siano state pubblicate da Hamas dopo la visita di Trump in Arabia Saudita significa che quest’organizzazione (pur essendo sunnita) potrebbe anche optare per la carta iraniana.
Riguardo allo specifico della crisi qatariota, l’ultimatum inviato a Doha si articola in tredici punti: 1) rompere tutti i rapporti con l’Iran; 2) chiudere l’esistente base militare turca e cessare la cooperazione militare con la Turchia; 3) chiudere l’emittente Al Jazeera; 4) non finanziare più mezzi di comunicazione come Arabi 21, Rassd, al-Arabi al-Jadid e Middle East Eye; 5) cessare i finanziamenti a individui, gruppi o organizzazioni considerati terroristi da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Bahrein e Stati Uniti; 6) rompere i rapporti con Hezbollāh, al-Qaida e Isis; 7) estradare i terroristi provenienti da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein e fornire ogni informazione al riguardo; 8) non interferire negli affari interni di quei paesi, non concedere la cittadinanza a loro cittadini ricercati dagli Stati predetti e annullare le cittadinanze eventualmente già concesse; 9) sospendere i sostegni agli oppositori politici in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein; 10) risarcirli per i sostegni pregressi; 11) allinearsi militarmente, politicamente, socialmente ed economicamente agli Stati arabi del Golfo; 12) sottoporsi a una supervisione mensile nel primo anno, e per i seguenti dieci anni essere monitorato annualmente al fine di verificare l’ottemperanza ai punti precedenti; 13) accettare l’ultimatum entro il 3 luglio.
Staremo a vedere.
Nel frattempo va registrato che questa crisi sta modificando i rapporti di forza nell’area.
L’accordo del novembre 2016 fra Turchia e Qatar per la costituzione di una consistente base militare turca in territorio qatariota è stato ratificato dal Parlamento di Ankara; base che, secondo il ministro degli Esteri turco Çavuşoğlu, dovrebbe garantire la sicurezza nel Golfo Persico.
In proposito si pone subito il problema di quali saranno i rapporti fra questa base e quella statunitense già operante in Qatar.
Nel merito la stampa turca (che non può dirsi indipendente dal governo) è pessimista in modo significativo: si va dal quotidiano Hürriyet, che prevede tempi difficili per l’area, allo Yeni Şafak, il cui direttore ha sostenuto a chiare lettere che il compito delle truppe turche in quel paese consiste nell’evitare un golpe contro l’emiro e che se gli Stati Uniti si impadroniscono di Doha, alla Turchia toccherà in seguito la stessa sorte!
A questo punto si presenta all’orizzonte qualcosa di impensabile: il trovarsi fianco a fianco (benché per motivi tattici) di due tradizionali e secolari nemici, la Turchia sunnita e l’Iran sciita.
Sempre tenuto conto della posizione subordinata della stampa turca verso il governo, lo spazio dato alla recente visita ad Ankara del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e le inerenti valutazioni positive hanno un chiaro significato.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com