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domenica 31 maggio 2015

BIRDMAN (Alejandro González Iñárritu, 2014), di Pino Bertelli

[…] Nella macchina/cinema ci sono autori di un certo livello estetico, avvezzi a riconoscimenti, premi, considerazioni di genialità, anche quando fanno un film brutto, inutile e, al meglio della comprensione mercenaria, imbecille. Alejandro González Iñárritu, messicano di talento, affabulatore di film caratterizzati da una notevole forza figurativa (Amores perros, 2000; 21 grammi, 2003; Biutiful, 2010), pluripremiato in molti festival del cinema, con Birdman (2014) si è portato a casa quattro Oscar (film, regia, sceneggiatura originale, fotografia)… è costato circa 16,5 milioni di dollari e in poco tempo ne ha già incassati 102 milioni di dollari [dei quali 42 in patria, tenendo conto che negli States la visione nelle sale è stata vietata ai minori di diciassette anni se non accompagnati da un adulto, per la presenza di contenuto sessuale, linguaggio scurrile e violenza (?!)]. Vero niente. Il film è un pacco-regalo e un salvacondotto per quanti vanno al cinema (con il pop corn e la Coca-Cola) affascinati dalla struttura delle nuove tecnologie. Il linguaggio della seduzione, quando è veicolo dello spettacolare-integrato, è il linguaggio della vendita, cioè della prostituzione.
Dopo il debutto di Birdman a Venezia, nel 2014, la critica velinara è esplosa in lodi sperticate e sermoni biblici… ad una lettura non viziata dal "comune sentire", è difficile arrivare alla fine del film senza addormentarsi o ridere di tanta vaghezza espressiva. I situazionisti ci ricordano che lo spettacolo è il capitale giunto a un tale grado di accumulazione da divenire immagine, e la mercificazione dell'esistente è l'alienazione della vita umana sotto forma di merce. Non disprezziamo il fascio di cineasti per quello che dicono, ma per ciò che sono: merdre! (Ubu roi!, diceva Alfred Jarry). Il destarsi del genio esonda da un'opera che nulla ha a che fare con l'utilitarismo… l'uomo di genio è sempre in contrasto con il proprio tempo.

venerdì 29 maggio 2015

PRESENTAZIONE DEL LIBRO «UN EBANISTA ALLE FOSSE ARDEATINE. OTELLO DI PEPPE D'ALCIDE (1890-1944)»

Sabato 30 maggio 2015 - ore 18.00 - presso "La bottega del libro" di Roma, in via Antonio Tempesta 63

martedì 26 maggio 2015

DAL LIBRO DI ROBERT J. ALEXANDER, di Roberto Massari

Cari compagni,
avendo partecipato con passione, ormai oltre quarant'anni fa, alla battaglia della Terza tendenza internazionale e condividendo le considerazioni di Roberto, vi invito a rendere pubblica sul blog di Utopia Rossa questa sua breve annotazione, eventualmente allegando le pagine del libro menzionato che ricordano la nostra storia. Sono certa che potrà essere utile alla conoscenza e alla riflessione soprattutto di quanti, tra i giovani, si avvicinano con interesse e curiosità alle vicende politiche di quei giorni lontani.
Antonella Marazzi

Carissimi, vi invio 4 pagine tratte da un librone gigantesco di Robert J. Alexander che ho visto solo di recente [International Trotskyism 1929–1985: a documented analysis of the movement, Duke University Press, Durham (NC) 1991 - 1.124 pagine], in cui si traccia una storia sintetica di tutti i gruppi e gruppetti trotskisti nel mondo, paese per paese.
Di Roberto Massari, della Lega comunista e della Terza tendenza internazionale si parla nelle 4 pagine allegate. Non mancano errori (come per es. quando si dice che scindemmo e invece fummo espulsi in Italia e in altri paesi) e vi sono grandi carenze, calcolando lo spazio dedicato a gruppetti molto ma molto più piccoli e meno importanti di noi. Ma per lo meno se ne parla.
Tenete conto che il Segretariato Unificato (nella persona di Maitan e suoi stretti collaboratori, Moscato compreso) fece di tutto per far scomparire tracce della Terza tendenza internazionale dai verbali del X Congresso mondiale della Quarta - 1973 - e in generale dalla storia del trotskismo. Maitan neanche vi accenna nelle sue due autobiografie (quella nazionale che pubblicai io e quella internazionale pubblicata da Alegre).
Onore quindi ad Alexander (studioso statunitense, a sua volta trotskista, morto nel 2010), anche se lui non si sarebbe mai immaginato gli effetti che avrebbero potuto avere gli enormi Indici posti alla fine del suo librone: scorrendo quelle le pagine con migliaia (non esagero: migliaia!) di sigle di gruppi e gruppetti trotskisti nel mondo si ha l'immagine visiva di una grande follia: si capisce anche fisicamente come tutto ciò non abbia niente a che vedere con la lotta di classe nella storia, ma piuttosto con le condizioni psichiche di chi tali gruppi ha creato (e mi ci metto anch'io, sia pure per il periodo 1975-1980 e con le dovute distinzioni qualitative) o vi ha militato dentro.
Impressiona, tuttavia, la capillare distribuzione del fenomeno in quasi tutti i paesi del mondo. L'intera vicenda meriterebbe uno studio di psicopatologia politica su grandissima scala, anche in considerazione del livello teorico-culturale mediamente alto (in certi casi molto alto) di vari personaggi coinvolti. Niente a che vedere con l'inconsistenza teorica della gruppettistica maoista o del localismo anarchico. Ma pur sempre un segno della follia umana, esaminata sotto l'angolo visuale del declino storico inarrestabile del movimento operaio organizzato…
Saluti,

Roberto

ALLEGATO
Cliccare qui per visualizzare e scaricare le immagini delle quattro pagine del libro di Robert J. Alexander citate nell'articolo (seguite dalla trascrizione delle stesse).

venerdì 15 maggio 2015

COLOMBIA: LA PLANIFICACIÓN DEL TERROR ESTATAL Y LA ESTRATEGIA DE CONFUNDIR, por Azalea Robles

Las contradicciones entre acumulación de capital y supervivencia de la humanidad y del planeta alcanzan niveles ostensiblemente críticos, el complejo militaro-industrial implementa cada vez más guerras para seguir su crecimiento perverso. En este contexto aparece como un imperativo ético y político el análisis medular de las guerras: no podemos ya contentarnos con las explicaciones postizas y seudo antropológicas de “guerras tribales” o de “no hay cultura de paz en esos pueblos”: pronunciamientos cuya naturaleza distila colonialismo y constituye la argucia para evitar ir al centro del problema. Evidentemente hay plétora de seudo estudios e instituciones que difunden, algunos más sutilmente que otros, esas premisas cosméticas. Aquellos que tienen un altísimo interés en impedir la comprensión de la realidad, y por consiguiente la posibilidad concreta de transformación de la misma, financian estos tanques de pensamiento.

1. ‘CULTURA DE ACEPTACIÓN DEL SAQUEO’ DISFRAZADA DE ‘CULTURA DE PAZ’

Sería digna de aguaceros de risas en una representación de teatro grotesco, la existencia de “Estudios de Preservación del Medio Ambiente”, financiados por la industria farmacéutica o petrolera, o bien la existencia de “Cátedras de Cultura de Paz”, cuya línea se dedica a esquivar el análisis de la raíz de la guerra. Cátedras impartidas en Europa o EE.UU., en países en los que radican las principales empresas fabricantes de armas y las depredadoras energéticas: unas cátedras que se centran en “enseñarles” a becados provenientes de países como el Congo, Afganistán, Colombia, etc., la manera de ser más “pacíficos”, de “resolver los conflictos desde la civilidad” y de “desarrollar una cultura de paz”, obviando olímpicamente que la guerra y la paz tienen raíces económicas y se desarrollan en contextos de desigualdad social, y no son meros asuntos de Cultura. Así los países que dedican millonarios presupuestos en guerras imperialistas y cuya supremacía mundial radica en una historia de prácticas colonialistas y genocidas, muy lejanas de la Cultura de Paz que pregonan de fachada, imparten cátedras de asimilación mental a la cultura de la aceptación del saqueo más desmedido, a la vez que ‘bombardean humanitariamente’ en su relance colonial. Así los becarios de países que sufren la voracidad capitalista de las guerras por el saqueo de los recursos, son adiestrados en la retórica que sirve para perder de vista el núcleo del problema; es el zorro enseñándoles a las gallinas con qué salsa deben ser comidas.

sabato 9 maggio 2015

GUATEMALA: RENUNCIA LA VICEPRESIDENTE ROXANA BALDETTI, por Marcelo Colussi

El presidente de Guatemala Otto Pérez Molina y Roxana Baldetti
El día viernes 8 de mayo, tras un par de semanas de ánimos políticos caldeados, renunció la vicepresidente de Guatemala, Roxana Baldetti. Eso fue el final de un complejo proceso, no exento de ribetes policiales, que mantuvo en vilo a la sociedad guatemalteca por varios largos días. Y que la sigue manteniendo en un estado de movilización que hacía buen tiempo no se veía, el cual puede dispararse de modo impredecible.
Baldetti renuncia porque su espacio político se había reducido dramáticamente en pocas semanas, y en estos momentos ya había quedado asfixiada y en completa soledad. Su salida, para nada gloriosa, es el final casi obligado de una larga cadena de hechos corruptos. Ella es la cara visible de una red de mafiosos funcionarios enquistados en el Estado desde hace ya algunas décadas (cara visible porque así parece que lo decidieron los poderosos factores de poder de la Embajada de Estados Unidos y la coordinadora del alto empresariado, habiéndosele perdonado la vida –al menos por el momento– al actual presidente, el general Otto Pérez Molina, ex kaibil ligado a la lucha antiguerrillera, acusado de violaciones a los derechos humanos). Dicha red mafiosa y corrupta es producto directo del Estado contrainsurgente, de la corporación militar que tomó un desmedido poder (político, pero también, y fundamentalmente, económico) en los años de la guerra interna, y que se viene perpetuando como grupo delincuencial de cuello blanco manejando diversos negocios ilícitos a la sombre de sus cargos públicos (narcoactividad, contrabando, crimen organizado, etc.).

lunedì 4 maggio 2015

LUCHA CONTRA LA CORRUPCIÓN EN GUATEMALA: ¿CORTINA DE HUMO?, por Marcelo Colussi

En Guatemala históricamente la gran masa de la población vive mal, muy mal. El 53% está por debajo de la línea de pobreza. A eso se le suma una cantidad de problemas igualmente complejos que hacen de la vida cotidiana casi un suplicio: racismo, machismo, corrupción, violencia desbocada, impunidad.
Terminó una guerra interna de 36 años y nada ha cambiado. Los problemas mencionados siguen intactos. El retorno de esta precaria democracia hace ya casi 30 años, después de haber despertado algunas esperanzas, se muestra hoy día como otro fiasco más. Se suceden las elecciones cada cuatro años, y todo sigue igual. ¡O peor!
Las esperanzas que se podían tener algunos años atrás, terminada la larga guerra con la Firma de los Acuerdos de Paz en 1996, ya se han disipado. Hoy la situación general del país es una olla de presión lista para estallar en cualquier momento. Sucede, sin embargo, que no hay dirección para tanto malestar. Las fuerzas de la izquierda están diezmadas, fragmentadas, y la protesta popular es básicamente reactiva (las movilizaciones contra las industrias mineras y energéticas en lo fundamental). De todos modos, si bien no hay organización política que pueda direccionar tanto malestar, a la clase dirigente le preocupa ese mar de fondo, por cierto muy turbulento.