Durante la Seconda guerra mondiale molti criminali ebbero la possibilità di uscire dai lager per arruolarsi nell’esercito, dove erano ricattabili e potevano fungere anche da informatori della polizia. Si può dire che da quel momento cominciò la collaborazione organica tra la criminalità organizzata e il regime sovietico che proseguirà nell’èra brezneviana, cominciando via via ad assumere anche connotati economici.
Il salto di qualità, tuttavia, sarà compiuto dalla malavita russa con le privatizzazioni iniziate sotto la presidenza di Gorbačëv, col passaggio all’economia di mercato. Sorse una leva di nuovi imprenditori che in gran parte provenivano dai ranghi del Pcus e dal Kgb, ma anche dal mondo della criminalità organizzata. Questa era dotata di risorse finanziarie di dubbia provenienza, ma era detentrice di capitali da investire nelle aziende privatizzate, nella creazione di nuove banche e nella speculazione finanziaria. La serie di crisi politiche e istituzionali successive al 1991 consentì lo sviluppo di reti criminali (anche di clan in concorrenza tra loro) che poterono stringere alleanze e accordi con gli oligarchi dell’economia e i nuovi dirigenti, ex funzionari dei vecchi apparati, bisognosi in forma crescente di protezioni di natura extralegale.
La mafia russa è strutturata in clan alla maniera della camorra, senza una gerarchia sovraordinata, in modo che ogni clan finisce col decidere per conto proprio. La gerarchia esiste invece all’interno del singolo clan, a partire dal boss (avtoritet o pachan), a seguire con i capitani (brigadier), un consigliere anziano (sovietnik) e il contabile (obščak). Ognuna di queste figure svolge precisi compiti nell’organizzazione, sia in relazione all’attività del clan, sia nei rapporti con le istituzioni politiche (cioè con lo Stato di Putin), sia con gli oligarchi, le cui fortune economiche sono spesso di origine malavitosa.