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domenica 21 febbraio 2021

POSSIBILITÀ E NECESSITÀ DI PORRE FINE ALLA PANDEMIA VIRAL-POLITICA

di Michele Nobile

         «... poiché tu non l’avrai avvertito morirà per il suo peccato e le opere giuste da lui compiute non saranno più ricordate; ma della morte di lui domanderò a te. Se tu invece avrai avvertito il giusto di non peccare ed egli non peccherà, egli vivrà, perché è stato avvertito e tu ti sarai salvato», Ezechiele, 3, 20-21

 

È trascorso più di un anno dall’inizio della pandemia di Covid-19: è tempo di bilanci. Per i governi ma anche per le forze politiche che a tali governi si oppongono. Benché qui svolga una critica radicale della strategia governativa nel trattare l’epidemia, è al bilancio complessivo di chi ancora si considera parte della «sinistra» che penso: esso dovrebbe essere fortemente autocritico per la diffusa confusione, i cedimenti al politicismo complottista, l’economicismo sindacale, la mancanza d’azione unitaria a fronte della crisi sociale più grave e letteralmente micidiale della storia della Repubblica.

Già all’inizio della prima onda epidemica il governo italiano - come tanti altri - colpevolmente ritardò l’adozione di adeguate misure di contenimento dell’epidemia: si preferivano gli aperitivi. Tardare anche una sola settimana fa grande differenza: nei primi giorni d’agosto 2020 fu stimato che se le misure poste in atto in Italia il 9 marzo fossero state istituite una settimana prima, i morti da Covid-19 sarebbero stati 12.000 in meno entro il 3 maggio, il 44% del totale al tempo1.


Se possibile, ancor più colpevole è stato il ritardo all’inizio della seconda onda di Covid-19, la cui gestione con l’altalena dei colori è catastrofica. Sono oltre 54 mila i decessi da Covid-19 in Italia dai primi di novembre a metà febbraio, con la certezza di superare abbondantemente i 100.000 morti prima dell’estate. Se si fosse riuscito a mantenere i decessi giornalieri al livello di metà luglio-metà agosto i morti da Covid-19 sarebbero stati nell’ordine di grandezza delle migliaia non delle decine di migliaia; minore sarebbe stato anche il danno economico. È stata una catastrofe socialmente insopportabile, conseguenza di una strategia completamente sbagliata per quel che concerne le misure non-farmaceutiche di prevenzione dei contagi. E ancora si tergiversa.


Grazie alla miope subordinazione dei governi a interessi economici ancor più miopi e alle nuove varianti del coronavirus, è facile prevedere che la pandemia si protrarrà ancora troppo a lungo e che, con ogni probabilità, in assenza di un lockdown che ponga fine alla barzelletta delle «zone gialle», stiamo andando incontro a una terza onda, col suo corteo di morti evitabili e di danni sociali ancor più gravi dei presenti. È un colpevole tradimento dell’articolo 32, primo comma della Costituzione secondo cui «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Si tratta di qualcosa che merita d’essere definita Strage di Stato2.

Che negli altri Paesi europei e negli Stati Uniti la dinamica dell’epidemia sia simile a quella dell’Italia non è motivo di consolazione. Significa che la logica e le priorità dei governi sono le stesse: il profitto innanzitutto. Del resto, come potrebbe essere diversamente quando la riproduzione della società si fonda su scambi monetari e sull’accumulazione di ricchezza in forma astratta, per cui la salute pubblica è un sottoprodotto, non una priorità? Da questo la contraddizione tra capitalismo e salute pubblica, evidente nelle emergenze che richiedono la sospensione temporanea e parziale dello sfruttamento del lavoro salariato. Da qui anche la difficoltà per la sinistra più o meno radicale di armonizzare la lotta contro la pandemia e quella per i diritti socioeconomici, l’occupazione e il reddito. Ma a sinistra non ci sarebbe contraddizione se si impostasse una corretta strategia contro la pandemia.  

In termini di definizione degli obiettivi politici, anche nel vivo della situazione pandemica si ripropongono due questioni, da sempre connesse: la questione di una parola d’ordine politica centrale, unificante rivendicazioni e conflitti settoriali intorno ai danni sociali ed economici prodotti dalla pandemia; e la questione della creazione d’un ponte fra quel che è necessario fare qui e ora per bloccare e sradicare l’epidemia e la più ampia prospettiva strategica. Questa dovrà investire le cause strutturali della transizione epidemiologica e preparare per le battaglie a venire per un radicale riorientamento delle politiche pubbliche, per mettere in discussione cosa, come, quanto e per chi (o a qual fine) produrre.  

Se nella congiuntura della pandemia non si definiscono l’obiettivo unificante e il ponte tra obiettivi immediati e prospettiva più ampia, allora la critica delle politiche pubbliche «neoliberiste» sarà politicamente inefficace, d’interesse limitato a chi è già convinto o sulla buona strada, motivo di manifestazioni simboliche ma non d’azione incisiva. Al limite e nonostante le intenzioni, si finirà per subire l’egemonia del padronato e del ceto politico: è quanto succede a chi sottovaluta in pratica la pericolosità dell’epidemia e la necessità delle chiusure, di chi pensa che si possa fare come al solito ignorando la specificità della situazione pandemica. Al contrario, ciò su cui occorre far leva è, a mio parere, la critica delle strategie di sanità pubblica seguite dai governi nel fronteggiare la pandemia. Infatti, tanto meno efficace la lotta alla pandemia, tanto più grave e prolungato l’intreccio di danni sanitari e sociali, inegualmente distribuiti tra le classi. Lungi dal livellare la società, la pandemia amplifica l’eterogeneità della società.

È necessaria un’iniziativa politica dal basso, chiara e decisa, unitaria al di là degli orticelli, senza mezzi termini. 

Nella situazione pandemica è indispensabile una strategia alternativa a quella dei governi, che punti a sradicare la malattia o almeno a ridurre ai minimi termini la trasmissione dei contagi. Il nucleo di questa strategia è semplice: occorre anticipare i lockdown in modo da prevenire la reazione a catena della crescita esponenziale dei contagi, agendo immediatamente non appena questi iniziano ad aumentare, senza trucchi sui codici Ateco, senza riaperture frettolose. E se questo è lo scudo, occorre anche aggredire il coronavirus mediante un esercito di operatori, volontari compresi, per testare in modo capillare la popolazione (mediante test molecolari, non gli inaffidabili test rapidi), investendo nelle risorse necessarie all’analisi dei campioni - in modo che i risultati siano rapidi - e al sequenziamento del virus per individuare le mutazioni

Più si anticipa, meno i morti; più si anticipa, più breve sarà la sospensione totale delle attività non necessarie, minori i danni sociali ed economici, l’incertezza. E quindi migliori - o non ancor peggiori - saranno le condizioni per la lotta sull’occupazione, il reddito, i diritti sociali. 

L’effetto nefasto della superficialità, dei ritardi, della riduzione dei test e delle zone colorate, in particolare di quelle gialle, è stato molto evidente nei due mesi d’inizio anno: dopo il minimo di fine dicembre - ma minimo solo relativamente al picco di novembre - pur tra alti e bassi e differenze tra Regioni e province, nel complesso i principali indicatori delineano sul livello nazionale una sorta d’altopiano invece che una ripida discesa. Quel che si «guadagna» con la zona rossa è perso quando le regioni cambiano colore. È un procedere «alla giornata» che fa danno alla salute pubblica e all’economia, che crea incertezza e logora sotto tutti gli aspetti. È un circolo vizioso che va spezzato. Adesso si è svegliato anche Walter Ricciardi (in un’intervista sul Messaggero del 15 febbraio), consigliere del Ministero della salute, secondo cui nel governo Conte prevaleva «chi voleva convivere con il virus. Questo ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia». È una «scoperta» banale e tardiva, che nulla toglie alla responsabilità - anzi le accresce - di chi sapeva ed ha taciuto e che nulla garantisce per il futuro. Che il Ministro della salute rimanga al suo posto è vergognoso. 

Differenziare i provvedimenti in base alla situazione locale è in linea di massima una buona idea: non riconoscendo il coronavirus alcun confine politico, l’unità più adeguata è però in pratica la provincia, non la Regione. Tuttavia, se differenziare sarebbe stato utile e relativamente facile nell’aprile 2020, ora è diventato difficile e, almeno col metodo utilizzato, dannoso. Quando 16 Regioni passarono al giallo il primo di febbraio, sulla base dell’indice di replicazione diagnostica, l’Associazione italiana di epidemiologia notò che «tredici Regioni hanno questo indice di replicazione diagnostica [diverso dall’indice Rt] superiore ad uno e quasi tutte le rimanenti, tranne Valle d’Aosta e Sicilia, lo hanno comunque in crescita»; invitava quindi a chiedersi il motivo di questa differenza tra gli indici (che in teoria dovrebbe essere minima) e ad adottare comunque «decisioni improntate alla massima cautela»3. Si sono visti i risultati di questo ingiallimento, che è da abolire ma che tanto è stato rivendicato dagli pseudogovernatori regionali, che ora sembrano ipocritamente pentiti. Oggi tutte le Regioni e province in arancione dovrebbero passare al rosso (Abruzzo, Bolzano, Campania, Emilia Romagna, Liguria, Molise, Toscana, Trento Umbria), anche tutta o quasi tutta la gialla Lombardia, e le altre in arancione, facendo però attenzione ad alcune province da rosso. 

Si insiste tanto sulla responsabilità dei comportamenti individuali ma per le esigenze del profitto e per demagogia si pretende di mantenere le occasioni che più di tutte favoriscono il contagio: la mobilità e l’attività quotidiana di milioni di lavoratori, di milioni di studenti. 

Già nei primi di marzo, sindacati degni di questo nome avrebbero dovuto imporre un lockdown dal basso mediante lo sciopero. E questo è tanto più urgente ora, mentre si diffondono varianti altamente contagiose che, a quanto pare, diventeranno dominanti entro poche settimane. Ripeto: il rischio è una terza onda, un terzo picco di morti, l’ulteriore crescita della circolazione del coronavirus tra i più giovani, già in atto. Se la sinistra non prende posizione subito, chiaramente e compattamente s’assume una grave responsabilità, di cui finirà per pagare lo scotto. 

Al fine di piegare rapidamente verso il basso le curve dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi e, conseguentemente, per ridurre i danni sociali ed economici conseguenti dalla «guerra» al coronavirus è necessario un lockdown nazionale o quasi nazionale, con esclusione delle produzioni e dei servizi necessari alla riproduzione sociale e alla lotta contro la pandemia. Per questo sono necessari scioperi e se possibile uno sciopero generale o più scioperi generali, in cui il mezzo e il fine coincidono. L’obiettivo può essere quello indicato dallo stesso Ministero: un’incidenza di 50 casi per 100.000 abitanti che permetterebbe, come recita il report settimanale, «il completo ripristino sull’intero territorio nazionale dell’identificazione dei casi e tracciamento dei loro contatti». Stando allo stesso report (n. 40, settimana 8-14 febbraio, quindi già sorpassato mentre scrivo) siamo invece a una media nazionale di 135,46 casi per 100.000 abitanti; al di sotto di 100 sono solo Calabria, Sardegna, Sicilia, Val d’Aosta, Veneto. 

Sulla base della valutazione negativa della strategia governativa la conseguente parola d’ordine unificante è la cacciata dell’intera classe politica responsabile del disastro e del governo da essa costituito, responsabile di migliaia, forse decine di migliaia di morti evitabili.

Considerato il tempo perso e lo stato dei rapporti di forza tra le classi non nutro grandi aspettative sulla mobilitazione sociale. Tuttavia, ritengo che gli obiettivi indicati siano adeguati a ridurre i danni sanitari e sociali, ad elevare il livello di coscienza politica dei settori sociali che possono essere raggiunti, a dare una prospettiva adeguata a lotte parziali. Come minimo sono utili per la loro funzione educativa, che potrà dare i suoi frutti più avanti. O semplicemente per dissociarsi in modo inequivocabile da una Strage di Stato, perché sono le decisioni politiche che ora decidono il ritmo dell’epidemia, della sua mortalità, delle sofferenze sociali e psicologiche. 

 

1        Raffaele Palladino-Jordy Bollon-Luca Ragazzoni-Francesco Barone-Adesi, «Excess deaths and hospital admissions for COVID-19 due to a late implementation of the lockdown in Italy», International journal of environmental research, vol. 17, n. 16, 5 agosto 2020. Ma si vedano anche, come parziale selezione di molti studi: Silvia Caristia et al., «Effetto dei lockdown nazionali e locali sul controllo della pandemia da COVID-19: una rapid review», in Epidemiologia e prevenzione, n.5-6, settembre-dicembre 2020, numero monografico, «Studi e riflessioni dell’epidemiologia italiana nel primo semestre della pandemia; Giorgio Guzzetta-Flavia Riccardo-Valentina Marziano, et al., «The impact of a nation-wide lockdown on Covid-19 transmissibility in Italy», Emerging infectious diseases, vol. 27, n. 1, gennaio 2021, ma in ArXiv dal 26 aprile 2020; Hua Zheng-Aldo Bonasera, «Aggressive COVID-19 “second wave” in Italy», medRxiv preprint, 12 novembre 2020, che in assenza di misure adeguate prevedeva 130.000 morti per la fine del 2020; i numerosi interventi di Andrea Crisanti; Luca Ricolfi, La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, La nave di Teseo, Milano 2021.  

2        Rimando ai miei precedenti articoli e al libro : Michele Nobile, «Covid e aerosol: un rischio generale per la seconda onda imminente», 9 ottobre 2020, http://utopiarossa.blogspot.com/2020/10/covid-e-aerosol-un-rischio-generale-per.html; «Covid-19 è Strage Di Stato», 13 novembre 2020, http://utopiarossa.blogspot.com/2020/11/covid-19-e-strage-di-stato.html; «Una prospettiva di lotta dentro e oltre la pandemia», 25 novembre 2020, http://utopiarossa.blogspot.com/2020/11/di-michele-nobile-siamo-nel-mezzo-della.html e per una visione più ampia sulla pandemia e la transizione epidemiologica mondiale: Michele Nobile,  Un solo mondo, una sola salute. Il rapporto fra capitalismo, pandemie ed ecosistemi, Massari editore, Bolsena 2020

3        AIE, «Ma siamo proprio sicuri che il giallo è il colore giusto?», https://www.epidemiologia.it/ma-siamo-proprio-sicuri-che-il-giallo-e-il-colore-giusto/L’indice di replicazione diagnostica RDt e l’indice di riproduzione di base Rt si differenziano innanzitutto perché il primo si basa sulla data della diagnosi di positività, l’altro su quella del contagio. In teoria dovrebbero dare risultati assai simili ma in pratica i risultati differiscono perché la data del contagio è meno affidabile. È per questo motivo che è consigliabile confrontarli e, comunque, prudenza consiglia di considerare anche altri indicatori empiricamente osservabili. Si veda anche Maria Teresa Giraudo et al., «Rt or RDt, that is the question!», in Epidemiologia e prevenzioneop. cit..

 

 


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