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martedì 25 agosto 2020

OPEN STATEMENT "FOR FREE DEMOCRATIC WORKER BELARUS!"

BILINGUE: ENGLISH-ITALIANO

Sent to Red Utopia by Andrej Išenko (Андрей Ищенко)

Posted by workres на 18 Серпня, 2020

Open statement to our Belarusian brothers and sisters of workers’ struggle from All-Ukrainian trade union ‘Labour Defence’.

Dear brothers and sisters in Belarus,

We are fascinated by your force and bravery in the struggle against the autocratic government. It is obvious, that conservative-oligarchic regime was afraid, first of all, the resolute and organized protest of the Belorussian working class and its independent trade unions. Just your strike and the working class protest in general allowed not only to stop open police brutality against Belarusian people, but also to resolutely raise an issue regarding the cancelation of the result of presidential elected, falsified by the regime.

We decisively support your present general democratic demands for resolute changes in Belarussian society, prosecution of those who fabricated the results of the election, and those of special police units, who extremely over-used their power.

It’s very important to remember the bitter experience of Ukraine, when just and fair uprising against Yanukovich regime in 2014 was used by openly anti-worker and anti-union forces. Just these forces are presently conducting the violent attacks against democratic rights of workers and trade union activists, increasing the retirement age and conducting the course of anti-people neoliberal reforms.

LE RADICI DELLA CRISI BIELORUSSA


di Andrea Vento (Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)

La crisi politica scoppiata in Bielorussia a seguito della diffusione di risultati delle elezioni del 9 agosto 2020, che hanno assegnato per la sesta volta consecutiva la vittoria al presidente Lukashenko con  l'80,1% dei consensi, giudicati dalla maggior parte della società civile frutto di frodi elettorali, ha fatto improvvisamente salire alla ribalta delle cronache il paese ex sovietico, dopo esser rimasto a lungo ai margini dei riflettori mediatici internazionali. Al fine di cercare di venire incontro alle necessità di conoscenza e di approfondimento degli appassionati di questioni internazionali, il Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati ha ritenuto potesse risultare utile effettuare un'analisi strutturata, sui principali aspetti economici, sociali, politici e geopolitici della Repubblica Bielorussa, allo scopo di fornire oggettivi strumenti di comprensione e di superare i limiti di una informazione che talvolta risulta condizionata da posizioni geopolitiche e condizionamenti politici preconcetti. 

Carta 2: i  corridoi trans-europei che attraversano la Bielorussia compresi i  percorsi terrestri della Nuova via della seta.


La situazione economica e sociale

Il modello economico della Bielorussia è stato definito da alcuni analisti come "socialismo di mercato"[1], essendo caratterizzato da una economia di mercato ma con forte presenza dello stato, soprattutto nei settori strategici e nei servizi essenziali, con le aziende pubbliche, secondo l'agenzia Reuters, che generano il 70% della ricchezza prodotta e assorbono 2/3 della forza lavoro[2]. Per quanto riguarda il livello di sviluppo economico la Bielorussia, a parte i tre stati baltici entrati nell'Unione Europea (Lituania, Lettonia ed Estonia), risulta, secondo il Fmi[3], la repubblica ex sovietica con il quarto Pil pro capite nominale più elevato (circa 6.500 $ nel 2019) dopo Russia (11.160 $), Kazakistan (9.140 $) e Turkmenistan (7.820 $), paesi ricchi di risorse del sottosuolo, e superiore ad Azerbaigian (4.690 $) Armenia (4.530 $), Georgia (4.290 $) e Ucraina (3.590 $). 

giovedì 20 agosto 2020

UN'ANTICA FAKE-NEWS DELL'ETRUSCOLOGIA ACCADEMICA

Intervista dell'editore Giuseppe Annulli a Roberto Massari

(18/8/2020)

    1.  Dalla lettura del tuo libro Volsinii Etrusca nelle fonti greche e latine ho avuto netta la sensazione che si tratti di un libro «rivoluzionario».

Forse sarebbe più giusto chiamarlo un libro «ribelle». Cioè un libro che rifiuta di sottostare alle intimidazioni (quelle psicologiche, perché contro quelle di carriera accademica sono vaccinato da tempo) che i principali etruscologi hanno esercitato per decenni e che i loro epigoni tentano di proseguire. L’ubicazione sulla rocca orvietana dell’antica Velzna/Volsinii - all’epoca capitale religiosa e simbolicamente «politica» della Dodecapoli etrusca - non ha alcuna base teorica, né alcun elemento di prova (storico o archeologico): eppure continua a propagarsi e anzi si diffonde sempre più grazie a Internet. Si tratta di un’invenzione fondata su un passa-parola che si perpetua nel mondo dell’etruscologia accademica (solo Pallottino non vi si associò, fino al 1984), i cui principali esponenti sono angosciati dall’idea che qualcuno un giorno rompa il velo di omertà e dimostri che l’imperatore è nudo.
Ecco, visto che la mia motivazione a strappare questo velo è stata in primo luogo etica, puoi forse aver avuto l’impressione che si tratti di un’opera rivoluzionaria. In realtà è un atto di ribellione teorica.


    2.  La correlazione Velzna-Orvieto, storicamente, come tu dimostri nel libro, risulta una falso. Perche?

  A questa domanda risponde l’intero libro. Qui posso solo approfittare per dire che non si tratta di un unico grande falso, ma di una serie più o meno concatenata di falsi, più o meno grossolani. Si comincia con l’affermazione presente in quasi tutti i testi di etruscologia che K.O. Müller, celebre filologo dell’Ottocento, avrebbe formulato tale teoria nel 1828: io mostro che si tratta di un falso, riportando il testo tedesco. Falsa è l’attribuzione a Zonaras della decisione romana di costruire una seconda Velzna (bolsenese), al posto di quella presunta orvietana (e sono costretto a dire che per la prima volta è apparsa una traduzione fedele del testo di Zonaras - la mia). Falsa è la datazione al III-II sec. della costruzione dei circa 6 km di mura bolsenesi, perché non è immaginabile che i romani l’abbiano consentita durante le guerre puniche. La lista dei falsi si allunga con esempi minori che si possono leggere nel libro.
Ovviamente ho dovuto anche accennare alle motivazioni che hanno consentito la nascita di una simile sequela di falsi. E ho indicato due piste di ricerca che spero altri possano approfondire: il ruolo durante il fascismo del MinCulPop e le sue connivenze con il Ministero della propaganda nazista diretto da Goebbels. E gli interessi turistici dei notabili orvietani (gerarchi e possidenti terrieri).  

    3.  La Velzna etrusca, quindi, è da identificare con l'odierna Bolsena (Velzna-Volsinii-Bolsena). Però mancano le risultanze archeologiche. É così?

Non è così globalmente, ma lo è in parte. L’affermazione va infatti relativizzata.
Vi sono elementi archeologici che dimostrano chiaramente l’esistenza di una Velzna etrusca sulle colline bolsenesi prima della rivolta servile e la conquista romana del 264: 1) i circa 6 km di mura ciclopiche costruite in funzione anticeltica nel V-IV sec. (VI-IV secondo Pallottino); 2) i residui di costruzioni arcaiche sotto gli edifici della città romana (dettagliatamente descritti da Angelo Timperi nel suo libro del 2010, mai smentito da alcuno) ed elementi architettonici di «riuso» sparsi variamente; 3) presenza notevole e diffusa di tombe e necropoli nei dintorni di Bolsena; 4) così come la presenza di numerosi borghi etruschi arcaici sempre nei dintorni di Bolsena (gli almeno 5 castella citati due volte da Livio e tutti facenti parte della città-stato di Velzna/Volsinii); 5) due attestazioni epigrafiche con il locativo «Velznalthi» (cioè «[fatto] a Bolsena»); 6) l’epigrafista Morandi aggiunge anche la ricchezza dei gioielli e dei manufatti in oro trovati in territorio volsiniense, a suo avviso senza eguali nei ritrovamenti archeologici in altre città-stato etrusche.
Mancano però 1) le tracce di un abitato imponente quale ci si sarebbe attesi da una città così importante (probabilmente ancora da dissotterrare nella parte alta dei colli volsinei)  e manca 2) una necropoli monumentale interna alla cinta muraria o ad essa affiancata.

   4.  Secondo te perchè l'archeologia accademica e ufficiale rimane dell'idea (salvo ripensamenti dopo la lettura del tuo libro) che la capitale della dodecapoli etrusca sia da identificare con Orvieto?

Perché alcuni dei più famosi etruscologi (escluso Pallottino dal 1939 al 1984) presero questa cantonata sulla base di ipotesi precedenti e non hanno poi avuto il coraggio di ammettere l'errore. Quindi, invece di fare autocritica (per es. nel 1946 quando cominciarono a riaffiorare le mura ciclopiche volsiniensi in tutta la loro estensione), preferirono irrigidirsi e creare un fronte compatto contro le «novità archeologiche» prodotte dalla Scuola francese di Roma sotto la guida di Bloch. Tanto che questa a un certo punto dovette interrompere le ricerche. Insomma, il prestigio accademico sembrerebbe essere stata la molla principale della fake-news. Lo dico, sperando vivamente che non vi fossero invece anche interessi economici da parte orvietana legati allo sfruttamento turistico dell’appropriazione indebita dell’eredità di Velzna. A questo riguardo temo di aver sottovalutato nel mio libro le manovre che erano state compiute da alcuni notabili orvietani, verso la fiine dell’Ottocento, proprio per appropriarsi di tale titolo.

Intuile dire che l’etica imporrrebbe oggigiorno di rendere giustizia a Bolsena, restituirle il nome di Velzna e invece fare tesoro dell’ipotesi - mia, ma anche della principale responsabile degli scavi dell’area di Campo della Fiera e altri - secondo cui il Fanum Voltumnae era ubicato a Orvieto. A loro differenza, però (in accordo col noto etruscologo orvietano Pericle Perali) io penso che l'intera antica Orvieto coincidesse con il Fanum Voltumnae, cioè che Orvieto non fosse una città ma, per l’appunto, un fano.

Nel mio libro  sostengo che proprio questo era il nome dell’antica città sacra degli etruschi (come pensava anche il valleranese Francesco Orioli) e che bisogna smetterla con l’affermazione secondo cui si ignorerebbe il nome dell’Orvieto etrusca: l’area compresa tra il pianoro e le zone sottostanti in latino si chiamava semplicemente Fanum Voltumnae (in seguito forse Fanum Vertumni o semplicemente Fanum - ma anche di questo mi occupo nel libro riesaminando la preziosa testimonianza di Procopio/Belisario).

Mi confortano in questa mia ipotesi lo storico Livio e il geografo Tolomeo. Ma di ipotesi appunto si tratta: posso formularla solo come molto probabile e non con la certezza matematica con cui escludo che l’antica Velzna stesse a Orvieto, dopo aver esaminato i 24 autori latini e greci d’accordo con me.     

5.  A quando la presentazione del tuo libro a Bolsena?

Quando il sindaco Paolo Dottarelli vorrà organizzarla, dopo aver letto il libro come mi ha promesso. Nel fargli la dedica per il libro gli ho detto e scritto - scherzosamente ma non troppo - che i cittadini bolsenesi (ormai lo sono anch’io) lo hanno eletto sindaco di Bolsena, mentre io l’ho fatto diventare «sindaco della Dodecapoli etrusca».
Non è in effetti solo uno scherzo perché fino ad oggi è stato sistematicamente impedito a Bolsena, ai suoi abitanti, di rivendicare la continuità storica con l’antica capitale etrusca. Ora è arrivato il momento di riappropriarsene e spero non solo a fini turistici. Per es. per ottenere i finanziamenti con i quali fermare il degrado che nel parco di Turona sta devastando importanti rimanenze di edifici etruschi e, soprattutto, per riprendere gli scavi nella parte alta delle colline bolsenesi alla ricerca dell'abitato cittadino dell’antica città-stato volsiniense.

(19 agosto 2020)   


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

venerdì 14 agosto 2020

GUATEMALA: DESAPARICION FORZADA DE PERSONAS

por Marcelo Colussi

 

La impunidad: una constante histórica

 

Comprender todo no significa perdonar todo” (Sigmund Freud)

 

  

Salir de una guerra no es sólo firmar un acuerdo de paz y guardar las armas. En Guatemala eso sucedió hace ya 25 años, pero no se vive en paz. Lejos de eso, el clima de violencia y de zozobra que atravesamos a diario nos confronta con una situación bélica. La muerte sigue rondando altiva en cada rincón, y las causas estructurales que encendieron la mecha de un alzamiento armado varias décadas atrás no han desaparecido; por el contrario, podría decirse que se mantienen igual o más fuertes que hace medio siglo: más de la mitad de la población continúa por debajo del límite de la pobreza estipulado por Naciones Unidas y los índices socio-económicos son alarmantes: desnutrición, analfabetismo, marginación, falta de oportunidades, racismo y patriarcado están a la orden del día. 

 

Guatemala vivió varias décadas de guerra interna, y eso aún está presente como mensaje cultural en el colectivo: para quienes la sufrieron, como recordatorio de las peores épocas; para quienes no la vivieron dirrectamente, como fantasma que ha dejado enseñanzas y, básicamente, ruptura en la memoria histórica. “eso aquí no pasó”. ¡Pero pasó! Borrar la historia es imposible. Y peor aún: es enfermizo, porque la historia no se puede borrar. Somos la historia; querer negarlo trae inconmensurables problemas.

 

En el marco de la Guerra Fría que libraban las por ese entonces dos grandes superpotencias, Estados Unidos y la Unión Soviética, y desde la lógica de la Doctrina de Seguridad Nacional y combate al enemigo interno, el país en su conjunto se vio atravesado por un clima de desconfianza paranoica, de muerte y de terror que marcó todos los rincones del quehacer nacional. Nadie podía escapar a esas dinámicas. Pero lo peor es que el Estado, supuesto regulador de la vida nacional entre todos sus habitantes, para el caso de esta guerra no funcionó, precisamente, como regulador. Tomó parte activa en la contienda siendo principalísimo actor, pero pasando por encima de toda norma, y poniéndose de lado de una de las partes enfrentadas. Claramente: de la clase dominante, enfrentando no solo al movimiento guerrillero sino a toda la población que le servía de base (campesinado indígena sumamente pobre, indígena perteneciente a los pueblos mayas en su mayor medida, mano de obra tremendamente barata para esa clase dominante).

 

Extremando las cosas, se podría llegar a decir que la “guerra contra el comunismo” lo justificaba todo. Pero entonces, si se sigue esa línea de argumentación, se desdibuja la esencia misma del Estado: de regulador de la vida de todos pasó a ser un actor de la contienda con las manos manchadas de sangre, por lo que la confianza en la institucionalidad mínima que debería existir, desaparece. El Estado, paraguas de todos sus habitantes que debería cobijar y defender por igual la dignidad de todos sus ciudadanos, fue el gran incumplidor de esa tarea.

domenica 9 agosto 2020

PRIMA E OLTRE IL CORONAVIRUS: LA COEVOLUZIONE DI SOCIETÀ UMANE E PATOGENI


Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo, n. 6. 
di Michele Nobile 


Mio caro Candido! tu hai conosciuto Pasquetta, la graziosa cameriera della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho gustato le delizie del paradiso, che hanno prodotto i tormenti d’inferno da cui mi vedi divorato; ne era impestata, forse ne è morta. Pasquetta doveva questo regalo a un dottissimo frate francescano, che era risalito alla fonte, perché l’aveva avuto da una vecchia contessa, che l’aveva ricevuto da un capitano di cavalleria, che lo doveva a una marchesa, che l’aveva avuto da un paggio, che l’aveva ricevuto da un gesuita, il quale, da novizio, l’aveva avuto direttamente da un compagno di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché muoio.
O Pangloss, esclamò Candido, ecco una strana genealogia! il capostipite non ne è forse il diavolo? Niente affatto, replicò il grand’uomo, era una cosa indispensabile, nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: perché se Colombo non avesse preso in un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione stessa e che, evidentemente, si oppone al grande fine della natura, non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna poi osservare che nel nostro continente, fino a oggi, questa malattia è tipicamente nostra, come la controversia. Turchi, Indiani, Persiani, Cinesi, Siamesi, Giapponesi, non la conoscono ancora: ma c’è ragion sufficiente che debbano conoscerla a loro volta fra qualche secolo.
Candido, o dell’ottimismo, Voltaire, 1759

1. La coevoluzione di società umane e patogeni: la biologia 
Da tre o quattro decenni è in corso una nuova transizione epidemiologica, cioè una nuova epoca delle malattie, della loro incidenza e distribuzione e, in particolare, della coevoluzione tra società umana e agenti infettivi. Almeno quanto a impatto sociale mondiale, la transizione pare aver accelerato nel XXI secolo: la pandemia di Covid-19 non ne è altro che la più recente e intensa manifestazione ma non sarà l’ultima. Non si può dire quando e come o con quale estensione geografica e letalità, ma prima o poi altro seguirà. Di questo si può essere certi, a meno di non essere grand’uomini come Pangloss. La transizione epidemiologica è parte integrante di un complesso di problemi globali e la si può intendere anche come una loro sintesi: della povertà e dell’ineguaglianza sociale, del cambiamento climatico e della deforestazione, della postdemocrazia neoliberista e della dittatura del partito unico. Non si può migliorare significativamente la salute mondiale senza una radicale trasformazione del rapporto tra società umana globale e biosfera. Non si può procedere nella giusta direzione nel quadro dell’economia mondiale capitalistica e del sistema internazionale degli Stati, che condensano i rapporti di forza tra dominanti e dominati e l’oppressione e lo sfruttamento. La transizione epidemiologica è un fatto sociale totale e globale, la roccia contro cui idealmente si frantumano l’apologia dell’ordine sociale capitalistico e i nazionalismi e statalismi d’ogni genere.  
Se non sul quando o sul come del prossimo evento, qualcosa sul perché di questa transizione si può però dire. Occorre chiarire prima alcuni concetti generali. Per comprendere la complessità delle transizioni epidemiologiche si deve tener conto di un gran numero di aspetti sia biologici che sociali, che possono combinarsi in modi differenti ma che, in definitiva, non possono essere separati. Nel quadro di una teoria formalizzata ma con esempi concreti, Robert Wallace e altri hanno proposto il concetto di condensazione immunoculturale proprio per significare il fatto che la cultura e la società sono parti del sistema immunitario umano al pari dei linfociti T. È un concetto perfettamente coerente con l’idea per cui i rapporti umani sono sempre rapporti socioecologici, definiti dall’indissolubile unità dialettica società-nella-natura/natura-nella-società, ora storicamente determinata come capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo1