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domenica 9 agosto 2020

PRIMA E OLTRE IL CORONAVIRUS: LA COEVOLUZIONE DI SOCIETÀ UMANE E PATOGENI


Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo, n. 6. 
di Michele Nobile 


Mio caro Candido! tu hai conosciuto Pasquetta, la graziosa cameriera della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho gustato le delizie del paradiso, che hanno prodotto i tormenti d’inferno da cui mi vedi divorato; ne era impestata, forse ne è morta. Pasquetta doveva questo regalo a un dottissimo frate francescano, che era risalito alla fonte, perché l’aveva avuto da una vecchia contessa, che l’aveva ricevuto da un capitano di cavalleria, che lo doveva a una marchesa, che l’aveva avuto da un paggio, che l’aveva ricevuto da un gesuita, il quale, da novizio, l’aveva avuto direttamente da un compagno di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché muoio.
O Pangloss, esclamò Candido, ecco una strana genealogia! il capostipite non ne è forse il diavolo? Niente affatto, replicò il grand’uomo, era una cosa indispensabile, nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: perché se Colombo non avesse preso in un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione stessa e che, evidentemente, si oppone al grande fine della natura, non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna poi osservare che nel nostro continente, fino a oggi, questa malattia è tipicamente nostra, come la controversia. Turchi, Indiani, Persiani, Cinesi, Siamesi, Giapponesi, non la conoscono ancora: ma c’è ragion sufficiente che debbano conoscerla a loro volta fra qualche secolo.
Candido, o dell’ottimismo, Voltaire, 1759

1. La coevoluzione di società umane e patogeni: la biologia 
Da tre o quattro decenni è in corso una nuova transizione epidemiologica, cioè una nuova epoca delle malattie, della loro incidenza e distribuzione e, in particolare, della coevoluzione tra società umana e agenti infettivi. Almeno quanto a impatto sociale mondiale, la transizione pare aver accelerato nel XXI secolo: la pandemia di Covid-19 non ne è altro che la più recente e intensa manifestazione ma non sarà l’ultima. Non si può dire quando e come o con quale estensione geografica e letalità, ma prima o poi altro seguirà. Di questo si può essere certi, a meno di non essere grand’uomini come Pangloss. La transizione epidemiologica è parte integrante di un complesso di problemi globali e la si può intendere anche come una loro sintesi: della povertà e dell’ineguaglianza sociale, del cambiamento climatico e della deforestazione, della postdemocrazia neoliberista e della dittatura del partito unico. Non si può migliorare significativamente la salute mondiale senza una radicale trasformazione del rapporto tra società umana globale e biosfera. Non si può procedere nella giusta direzione nel quadro dell’economia mondiale capitalistica e del sistema internazionale degli Stati, che condensano i rapporti di forza tra dominanti e dominati e l’oppressione e lo sfruttamento. La transizione epidemiologica è un fatto sociale totale e globale, la roccia contro cui idealmente si frantumano l’apologia dell’ordine sociale capitalistico e i nazionalismi e statalismi d’ogni genere.  
Se non sul quando o sul come del prossimo evento, qualcosa sul perché di questa transizione si può però dire. Occorre chiarire prima alcuni concetti generali. Per comprendere la complessità delle transizioni epidemiologiche si deve tener conto di un gran numero di aspetti sia biologici che sociali, che possono combinarsi in modi differenti ma che, in definitiva, non possono essere separati. Nel quadro di una teoria formalizzata ma con esempi concreti, Robert Wallace e altri hanno proposto il concetto di condensazione immunoculturale proprio per significare il fatto che la cultura e la società sono parti del sistema immunitario umano al pari dei linfociti T. È un concetto perfettamente coerente con l’idea per cui i rapporti umani sono sempre rapporti socioecologici, definiti dall’indissolubile unità dialettica società-nella-natura/natura-nella-società, ora storicamente determinata come capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo1




Quindi, dal lato biologico bisogna considerare2
a) la natura del patogeno: batteri, virus, protozoi, funghi, elminti (vermi). Sono noti 1407 parassiti umani (circa 200 virus, oltre 500 batteri e rickettsie, oltre 300 funghi, oltre 50 protozoi, circa 300 elminti, almeno due tipi di prioni); il 58% di questi patogeni noti sono di origine animale (o sono diramazioni umane di un precursore comune con altri animali), principalmente da ungulati e carnivori, poi roditori, primati, pipistrelli, cetacei, marsupiali, uccelli; alcuni patogeni come il bacillo che causa l’antrace e il Clostridium tetani si trovano nell’ambiente ma non sono facilmente trasmissibili, con la notevole eccezione del vibrione del colera. Inoltre, i parassiti e i loro vettori si evolvono e mutazioni e ricombinazioni genetiche danno vita a nuovi ceppi di batteri e virus, per cui la varietà reale degli agenti patogeni è maggiore delle specie note. Anche gli ecosistemi cambiano, in modo da bloccare o favorire la proliferazione di vettori e patogeni;  
b) se il patogeno è specie-specifico di Homo sapiens o infetta anche una o più altre specie, con scambio di materiale genetico, senza trascurare il fatto che anche gli uomini infettano gli animali e che i patogeni possono mutare in modo da essere specialisti o generalisti in base alle reazioni degli ospiti, nel senso biologico e del comportamento sociale; 
c) se il parassita ha una riserva naturale negli animali selvatici (o è presente nell’ambiente fisico) oppure è trasmesso all’uomo da animali allevati. Nel quadro ecologico e climatico dei tropici è presente una maggiore varietà di specie di parassiti, tuttavia il moderno circuito internazionale dell’allevamento industrializzato costituisce un gigantesco incubatore di patogeni; 
d) se esiste uno scambio genetico tra patogeni di animali selvatici e domestici, che dà vita a nuove varietà sconosciute al sistema immunitario umano ma che possono essere trasmessi agli uomini, innanzitutto a chi lavora e commercia animali e in ambiente rurale o periurbano e tra le loro famiglie;
e) il modo di trasmissione agli e tra gli umani, ad esempio: se il patogeno richiede necessariamente un vettore animale, se è trasmesso per via orale-fecale o per contatto con fluidi corporei oppure attraverso le vie respiratorie, se è possibile trasmissione verticale madre-figlio oppure no. I virus direttamente trasmissibili tra gli umani hanno la massima possibilità di diffondersi velocemente e su scala globale e quelli che passano attraverso le vie respiratorie - invece che per contatto sessuale o dei fluidi - possono farlo con la più grande velocità, facilmente scavalcando le barriere naturali grazie ai movimenti umani; 
f) se si tratta di un patogeno nuovo che ha compiuto il salto da una specie all’altra, oppure di un nuovo tratto di patogeno già noto;
g) se una particolare popolazione umana è geneticamente più o meno vulnerabile a un determinato patogeno. È ben noto che malattie a cui gli europei avevano sviluppato resistenza potevano essere letali per gli amerindi e le popolazioni di isole remote, ma a volte, in particolari popolazioni la resistenza acquisita a una certa malattia può essere utile anche per altre nuove; 
h) infine, occorre sempre considerare la biogeografia: la distribuzione mondiale latitudinale, longitudinale e in altitudine dei parassiti, i cambiamenti di questa distribuzione geografica (connessi ad attività umane, a cambiamenti degli ecosistemi e del clima). 

2. La coevoluzione di società umane e patogeni: i rapporti socioecologici 
L’evoluzione dei parassiti umani, la loro diffusione e i cambiamenti del ciclo vitale dei vettori e delle loro riserve naturali avvengono per le vie della selezione naturale. Tuttavia, la malattia e la diffusione epidemica non si riducono affatto a una lotta a due tra il singolo individuo e il patogeno aggressore. La diffusione di un patogeno tra gli umani - specialmente se si tratta di zoonosi - dipende dall’insieme delle interazioni che si verificano in un ecosistema tra condizioni biotiche (degli organismi viventi), abiotiche (tutti gli aspetti non biologici) e tra le specie, interazioni che possono promuovere o ostacolare le infezioni tra gli umani, limitando o aumentando numero e infettività dei vettori o determinandone la ricerca di nuovi ospiti. Condizioni ecosistemiche, biotiche e abiotiche, che da sempre - e con intensità ed ampiezza crescenti - le attività umane spesso modificano, secondo modi e fini socialmente specifici. 
Che degli umani entrino in contatto con un patogeno nel suo ambiente naturale ed eventualmente ne rimangano infetti sono solo i primi due passi necessari da cui può scaturire un’epidemia, ma non è detto che siano sufficienti. L’accadere dell’epidemia dipende dalle modalità di trasmissione del patogeno, dalla densità delle popolazioni dei vettori e degli umani, dai tessuti del corpo umano interessati dall’infezione, dall’interazione con altri patogeni e malattie, dal fatto che siano o meno possibili infezioni secondarie (cioè da umano a umano, non solo da animale a umano, fino a quei casi in cui il contagio dalla riserva biologica diviene irrilevante, come per l’influenza o Covid-19) e dal numero riproduttivo di base R0, cioè dal numero di infezioni secondarie per ciascuna infezione primaria. Se questo numero è basso (o inferiore a 1), tanto più se la popolazione umana interessata è al di sotto di una certa massa critica (per il morbillo 250-400 mila persone) o isolata ed è alta la letalità del patogeno, la sua diffusione sarà limitata e tenderà ad estinguersi, a causa della morte o della guarigione ed eventuale immunizzazione degli ospiti umani. Viceversa, date certe condizioni, il ciclo riproduttivo del patogeno e della malattia può essere alimentato in modo da esplodere esponenzialmente oppure da divenire endemico. Tuttavia, Antia et al. mostrano che il numero riproduttivo di base di un patogeno può aumentare (oltre la soglia epidemica R> di 1) a causa di cambiamenti ecologici o del comportamento umano ma anche in funzione delle mutazioni nel corso di una serie di infezioni: descrivono un meccanismo che sfocia in un’epidemia anche se R0 è inizialmente < di 13
Queste considerazioni sono analiticamente indispensabili ma, poiché Homo sapiens è animale sociale, in pratica non possono essere separate da una più precisa definizione dei rapporti sociali umani in una determinata forma storica. Quindi l’ingresso e la diffusione di un patogeno e la distribuzione della malattia e della salute dipendono dalla struttura sociale, dai rapporti di potere tra gli uomini, dal modo in cui essi lavorano e trasformano gli ecosistemi incorporando nella società parte della natura, come nell’agricoltura e nell’allevamento. Le attività umane e le particolari logiche delle diverse forme sociali influiscono sull’evoluzione dei parassiti. L’evoluzione è naturale-sociale: dipende dalla storia genetica (dalla filogenesi) di parassiti, ospiti intermedi (prima degli umani), dai cambiamenti ecologici, dalla biologia umana e dall’adattamento del sistema immunitario, dai modi di vivere degli umani che influenzano la durata del periodo d’infettività e il numero medio dei contagi per infezione primaria. 
I rapporti socioecologici possono variare in modo da diluire la capacità di trasmissione del parassita tra i vettori e da questi agli ospiti umani; oppure, viceversa, il complesso insieme di condizioni può avere l’effetto opposto, fare in modo da favorire il salto di specie (spillover) agli umani e/o una più forte virulenza. Quindi il successo di un patogeno - la sua capacità d’evolversi, di divenire endemico o di dar vita a una fiammata epidemica - è influenzato in modo decisivo da tante componenti della vita sociale e da cambiamenti ecologici prodotti dall’azione umana: dalla densità delle popolazioni umane e animali; dalla frequenza dei contatti tra umani, tra animali domestici e selvatici; dalla deforestazione e dall’estensione e profondità dei cambiamenti ecologici; dalla riduzione della biodiversità delle specie (animali e vegetali) selvatiche e addomesticate. Decisiva è la struttura interna della società, con quel che comporta per le disuguaglianze di ricchezza e di potere politico che influiscono direttamente sulle diverse condizioni di salute, d’ambiente di vita e di lavoro dei singoli individui e di comunità, di caste e di classi sociali. Determinanti sono i traffici commerciali e i conflitti tra società, sia per la diffusione geografica di vettori e patogeni sia per gli effetti socioeconomici che favoriscono l’esplodere di epidemie; è quindi importante lo sviluppo tecnico dei mezzi di trasporto: la capacità di superare le barriere naturali e di accelerare i movimenti di merci e persone. Esistono quindi condizioni sociali e momenti storici che fungono da amplificatori della diffusione di malattie.
Si considerino alcuni esempi di trasmissione di patogeni dagli animali agli uomini, che qui presento nel modo più elementare. Per il virus Ebola, così detto da un fiume della Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), il problema fondamentale non è il consumo occasionale di carne di primati infetti ma la diagnosi iniziale sbagliata (la tendenza a considerare i quadri clinici come malaria) e le risorse del sistema sanitario, per cui nell’epidemia del 1976 il virus fu trasmesso attraverso siringhe e aghi infetti e gli ospedali di Maridi in Sudan e di Yambuku nello Zaire diventarono luoghi d’infezione e di morte anziché di cura, situazione che non è difficile si riproponga. Le epidemie più recenti di Ebola (2014-6, 2018-20), più gravi delle precedenti ed estese a più Paesi (Guinea, Liberia, Sierra Leone, Nigeria, Senegal, incluse le capitali Conakry e Monrovia), si spiegano con l’estensione della deforestazione per l’estrazione di prodotti primari (tra cui la coltivazione di palma da olio) e i cambiamenti produttivi ai margini delle foreste - promossi dai governi - che ha portato gli escrementi di pipistrelli infetti a contagiare i frutteti, ma anche con le tensioni politiche interne e situazioni di conflitto. I virus influenzali sono normalmente ospitati in gran varietà nelle anatre e in altri volatili acquatici. Tuttavia, il problema contemporaneo è la ricombinazione tra più virus di diversa origine animale e geografica negli enormi allevamenti industriali di pollame. In un altro articolo spiegherò che se il metodo e le prassi dell’allevamento industriale di suini e pollame è statunitense e diffuso - insieme al conseguente rischio biologico - in tutti gli allevamenti del mondo di questo tipo e lungo la filiera del settore, esistono anche determinate e note ragioni ecologiche, sociali e politiche per cui la Cina sia all’origine di tanti ceppi di virus influenzali. Fatto che nulla ha a che fare con il razzismo ma molto con l’eredità di una grande civiltà millenaria e ancor più con il formidabile sviluppo del capitalismo in quel Paese, manifesto anche nell’assimilazione dei metodi d’allevamento e nell’incorporazione nel circuito internazionale del capitale delle fabbriche di carne. E per Covid-19 il problema non è tanto quello del passaggio del coronavirus Sars-Cov-2 da un pangolino a un umano, ma principalmente del commercio di animali vivi in mercati cittadini di cui è ben noto il rischio biologico, come minimo dall’epidemia di Sars del 2002-3, e il fatto che l’inadeguata sorveglianza abbia permesso che continuasse il commercio di una specie selvatica vietata ma molto gradita alle classi più ricche della Cina (il pangolino, in questo caso). 

3. L’evoluzione della virulenza 
Quanto al danno che i parassiti infliggono all’ospite, è obsoleta da quattro decenni (ma già prima era contestata) la teoria dell’avirulenza, secondo cui il danno si riduce in funzione della riproduzione del patogeno e quindi della sua diffusione nella popolazione umana. L’evoluzione della virulenza può seguire quella strada ma anche marciare in senso contrario. Per l’evoluzione della virulenza da tempo prevale la teoria del trade-off o del compromesso tra i due fattori della virulenza e della trasmissione (in particolare per le malattie che non richiedono un vettore), che si stabilizzerebbero a un livello intermedio matematicamente ottimale ma che non è necessariamente quello più bassoLa pietra miliare della teoria del trade-off è un saggio di R. M. Anderson e R. M. May del 1982, che iniziava contestando i testi di medicina, parassitologia ed ecologia che riportavano «dichiarazioni non supportate secondo cui le specie di parassiti “di successo” si evolvono in modo innocuo per i loro ospiti», sostenendo invece la tesi generale che « la complessa interazione tra virulenza e trasmissibilità dei parassiti lascia spazio a molti percorsi di coevoluzione, con molti punti finali». Dopo aver discusso una serie di modelli epidemiologici e alcuni esempi, in particolare la deliberata introduzione da parte del governo australiano della mixomatosi al fine di controllare la popolazione di conigli selvatici, gli autori affermavano che 

«Questi studi formali chiariscono che la traiettoria coevolutiva seguita da una particolare associazione parassiti-ospite dipenderà in definitiva dal modo in cui la virulenza e la produzione degli stadi di trasmissione del parassita sono collegati tra loro: a seconda delle specificità di questo legame, il corso coevolutivo può essere essenzialmente verso zero virulenza, o verso virulenza molto elevata, o verso un grado intermedio», 

infine concludendo: 

«La capacità di moltiplicarsi rapidamente all'interno dell'ospite o produrre un gran numero di stadi di trasmissione (entrambi attributi frequentemente correlati con la patogenicità del parassita) sarà spesso utile per il successo riproduttivo anche se l’ospite alla fine viene ucciso da tale azione»4.

Esistono circostanze in cui una forte virulenza - con manifestazioni della malattia come starnuti, tosse o diarrea - può favorire la diffusione del parassita; se il serbatoio di ospiti umani è grande e l’infezione può essere trasmessa prima della morte dell’ospite (o anche dopo, in fin dei conti, a causa dei rituali funerari), non c’è motivo per cui la virulenza debba spontaneamente ridursi. E comunque, se nel frattempo sono morte o danneggiate centinaia di migliaia o milioni di persone, non è motivo di allegria che il parassita si evolva in modo da ridurre i danni agli ospiti, a meno di non essere dei dottor Pangloss. 
Tuttavia, anche la teoria del trade-off è soggetta a critiche. Essa offre un utile quadro concettuale formalizzato, ma la sua elegante semplicità (semplicità relativa, poiché in epidemiologia sono importanti i modelli matematici) si basa solo su due parametri (virulenza e trasmissione): a volte funziona, altre no. Le critiche rimandano all’insieme delle variabili socioecologiche già indicate e a quadri clinici da infezioni verticali (dalla madre al figlio prima della nascita), alla possibilità di coinfezione da parte di più parassiti o di ceppi in competizione dello stesso, alla particolarità dei tessuti umani colpiti, al caso di malattie che si manifestano a distanza di molto tempo (come certe infezioni che provocano tumori). La virulenza non è un dato fisso ma può variare in un senso o nell’altro per un complesso insieme di cause che non riguardano solo il successo riproduttivo del parassita (fitness) ma anche l’ospite umano (per fenomeni di immunopatologia), l’eterogeneità della popolazione, la possibilità che l’associazione di parassiti e ospiti non sia in equilibrio - perché troppo recente o per cicli successivi di estinzione e ricolonizzazione da parte del parassita di popolazioni locali membri di una popolazione più ampia (metapopolazione) - le condizioni ecologiche e della biogeografia, la biodiversità, le misure di sanità pubblica. A seconda delle finalità - tattiche o strategiche5 - e della loro struttura i modelli matematici sono utili, ma è bene non dimenticare mai la complessità dei fenomeni biologici che genera variabilità e incertezza.
Eppure nei primi tempi della pandemia di Covid-19, ma da parte di orbi ancora oggi, si sentivano affermazioni del genere «ma è solo un influenza un po’ più forte e che diventerà come le altre». Tesi venata di ottimismo alla Pangloss, l’idea dell’avirulenza ha avuto e ancora ha un ruolo nefasto per il contenimento della pandemia, per la comprensione del suo significato storico, per la corretta definizione del problema politico che pone. Che, detto in breve, non è né quello del complotto né di una deriva totalitaria, ma dell’obiettivo fallimento di un sistema sociale e politico che subordina la salute dei popoli al profitto, in un regime di tipo postdemocratico che da tempo concentra le decisioni in vertici partitici e statali, che non ha affatto bisogno della pandemia ma che la tratta a suo modo, oscillante tra chiusure autoritarie e aperture liberiste. L’ignoranza è scusabile per i comuni cittadini ma è imperdonabile in coloro che hanno posizioni di potere o che comunque si prendono la responsabilità di far dichiarazioni pubbliche, tanto peggio se laureati in medicina. Se poi si aggiunge qualcosa come «e tanto colpisce solo i vecchi», «se si distingue tra morti per e morti con coronavirus l’epidemia si riduce a nulla», siamo di fronte a un cinismo insopportabile. Che si sia mossi da interessi economici o politici o semplicemente dall’idiotismo ideologico, così si dimostra di non aver compreso alcuna lezione di prudenza né dalla storia dell’influenza detta «spagnola» - confinata per sempre nel passato, come dagli ottimisti virologi di qualche decennio fa - né dalle esperienze di importanti epidemie del XXI secolo. Ma i fatti più gravi sono stati la grave sottovalutazione delle informazioni dalla Cina (nonostante schizofrenici atteggiamenti apologetici nei confronti della gestione dell’epidemia da parte del regime cinese, sicuramente infondati come minimo per la cruciale fase iniziale) e il non voler o saper vedere quanto evidente nei primi focolai italiani. Questo è veramente un atteggiamento alla Pangloss, però per nulla divertente bensì politicamente criminale. 
Non è concepibile farsi prendere impreparati da una seconda onda di Covid-19. Non faccio predizioni, né su una seconda onda né sulla sua virulenza, ma il punto è proprio questo: che non si può sapere con certezza quel che accadrà nei prossimi mesi. Si può sperare per il meglio, tuttavia una seconda onda è una possibilità, già verificatasi per le epidemie d’influenza «spagnola» (1918-9), asiatica (1957-60), di Hong Kong (1968-70), Sars (2002-4), «suina» (2009-10)6. Di sicuro siamo molto lontani dalla cosiddetta immunità di gregge che comunque, se affidata al mero diffondersi dei contagi invece che alla vaccinazione (se un vaccino fosse disponibile), non è soluzione accettabile. In questo caso la cosiddetta immunità di gregge rappresenterebbe un ulteriore clamoroso fallimento della politica sanitaria, la versione epidemiologica del laisser faire, laisser passer, una logica liberista parente di quella dell’eugenetica nazista: lasciamo pure crepare i meno adattati e i più deboli, quelli che non sono produttivi, gli altri vadano a lavorare. È terrificante che qualcuno possa indugiare anche solo per un momento a un’idea del genere. 

4. L’ approccio ecosociale alla salute e alla malattia
Ritengo Richard Levins e Cynthia Lopez abbiano riassunto in modo molto efficace il contrasto metodologico e politico tra un approccio ecosociale - dialettico e olistico - e visioni tradizionali del rapporto tra l’umanità e la natura, applicandolo in particolare alla questione della salute, dell’incorporamento - alla lettera: nei corpi umani - della dialettica capitalismo-nella-natura/natura-nel-capitalismo:  

«Quando passiamo da un modello che assegna pesi relativi ad influenze isolabili (“fattori” o “variabili indipendenti”) a un modello di determinazione dell’intero sistema, possiamo vedere l’importanza assoluta di ciascuno di essi perché:
 è sbagliata ogni teoria che si limita a preoccuparsi solo della nostra specie e spinge in secondo piano il resto della natura.
È difettosa ogni teoria che vede la nostra specie come un tutto indifferenziato e ignora l’ingiustizia che ci infliggiamo l’un l’altro.
È troppo ristretta ogni teoria che pone solo l’individuo a confronto con l’“ambiente” senza riuscire a vederlo come una “particella” unica formata in un campo ecosociale.
È sbagliata ogni teoria che separa la mente dal corpo, che vede l’impatto psicologico della posizione sociale ma respinge gli intricati e intrecciati percorsi attraverso i quali una società gerarchica crea effetti negativi sulla salute e mina la capacità delle persone di prevenirli o ridurli.
È erronea ogni metodologia che contrappone i metodi quantitativi a quelli qualitativi o considera solo la causalità unidirezionale, dalle variabili “indipendenti” alle “dipendenti”, senza tenere conto dei feedback tra di loro.
Infine, ogni politica derivata dalla teoria è irrimediabilmente distorta se la “politica” è intesa come l’allocazione delle risorse e la redazione di regolamenti da parte di coloro che controllano regolano le risorse; se viene negato un vero conflitto di interessi e vengono semplicemente accettate come “vita” le condizioni di contorno in cui la politica si forma; e se i ricercatori non sono a disposizione di tutte le parti interessate»7.  

Note
1) Sulla condensazione immunoculturale: Robert G. Wallace-Deborah Wallace-Rodrick Wallace, Farming human pathogens. Ecological resilience and evolutionary process, Springer-Verlag, New York 2009. Sul concetto di rapporti socioecologici e la dialettica società-nella-natura/natura-nella-societàrimando a Jason W. Moore, Capitalism in the web of life. Ecology and the accumulation of capital, Verso, Londra 2015, e al primo articolo di questa serie, «Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo. Introduzione», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/dialettica-di-una-pandemia-capitalismo.html
2) Per l’origine, la distribuzione mondiale delle malattie, gli stadi evolutivi con riferimento anche alla transizione più recente: Michael Greger, «Human/animal interface. Emergence and resurgence of zoonotic infectious diseases», Critical reviews in microbiology, 33, 2007; Nathan D. Wolfe-Claire Panosian Dunavan-Jared Diamond, «Origins of major human infectious diseases», Nature, vol. 447, n. 7742, 2007; Mark Woolhouse-Rustom Antia, «Emergence of new infectious diseases» e Jean-François Guégan-Franck Prugnolle-Frédéric Thomas, «Global spatial patterns of infectious diseases and human evolution», in Stephen C. Stearns-Jacob C. Koella, a cura di, Evolution in health and disease, Oxford University Press, 2008; Jan Slingenbergh-Lenny Hogerwerf-Stéphane de la Rocque, «The geography and ecology of pathogen emergence», in Serge Morand- Boris R. Krasnov, a cura di, The biogeography of host-parasite interactions, 2010; Anneke Engering-Lenny Hogerwerf-Jan Slingenbergh, «Pathogen host environment interplay and disease emergence», Emerging microbes & infections, 2(2), 2013http://dx.doi.org/10.1038/emi.2013.5; Serge Morand, «Diversity and origins of human infectious diseases», in Michael P. Muehlenbein, a cura diBasics in human evolution, Academic Press, Londra 2015; Frank M. Snowden, Epidemics and society. From the Black death to the present, Yale University Press, 2019. Per le transizioni epidemiologiche e il rapporto tra clima e salute: Tony A. J. McMichael, «Human culture, ecological change and infectious disease. Are we experiencing history's fourth great transition?», Ecosystem health, vol. 7, n. 2, 2001; Human frontiers, environments and disease. Past patterns, uncertain futures, Cambridge University Press, Cambridge 2001
3) R. Antia-R. H. Regoes-J. C. Koella-C. T. Bergstrom, «The role of evolution in the emergence of infectious diseases», Nature, vol. 426, dicembre 2003.
4) R. M. Anderson-R. M. May, «Coevolution of hosts and parasites», Parasitology, 85, 1982, pp. 411, 424, 425. Per la critica: S. Alizon-A. Hurford-N. Mideo-M. Van Baalen, «Virulence evolution and the trade-off hypothesis. History, current state of affairs and the future», Journal of evolutionary biology, vol. 22, n. 2, 2008; Dieter Ebert-James. J. Bull, «Challenging the trade-off model for the evolution of virulence: is virulence management feasible?», Trends in microbiology, vol. 11, n. 1, 2003.
5) Riprendo la distinzione da Charles J. Puccia-Tamara Awerbuch-Richard Levins, «Models for new and resurgent diseases», Annals of the New York Academy of Sciences, vol. 740, dicembre 1994. Secondo gli autori i modelli tattici sono basati su conoscenze dettagliate, specifiche, misure precise, sono orientati all’intervento e alla sorveglianza; i modelli strategici hanno natura più qualitativa, sono utili quando lo stato delle conoscenze o la complessità del problema non consente misure precise o le domande che ci si pone hanno carattere globale o interdisciplinare: forniscono intuizioni e spunti di ricerca. Per lo studio delle malattie emergenti indicano come compiti: «identificare lo stretto rapporto tra cambiamento biologico e malattia; indagare la risposta evolutiva di ospiti e parassiti ai cambiamenti nell’ambiente; riconoscere la necessità di comprendere la variabilità e l’incertezza, sia in natura, sia nei dati, sia nella risposta degli organismi; considerare le relazioni tra infezioni multiple e le risposte alternative dell’ospite e dell’agente; sviluppare la comprensione delle risposte fisiologiche e comportamentali degli uomini alla malattia e le influenze che questo ha sui risultati» (p. 226). 
6) Su questo cito un solo studio, il più recente a mia conoscenza, che non usa un modello matematico ma che è descrittivo della frequenza, distanza nel tempo, lunghezza e intensità del succedersi delle onde epidemicheFabian Standl et al., «Subsequent waves of viral pandemics, a hint for the future course of the SARS-CoV-2 pandemic», medrivx preprint, 14 luglio 2020, https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2020.07.10.20150698v1  
7Richard Levins-Cynthia Lopez, «Toward an ecosocial view of health», International journal of health services, vol. 29, n. 2, 1999, p. 266. Per le relazioni dialettiche tra organismo e ambiente seguo il modello evolutivo secondo equilibri punteggiati, i cui testi sono pubblicati anche in Italia dagli anni Ottanta del secolo scorso: si vedano le traduzioni dei libri di Stephen J. Gould, Niles Eldredge, Richard Lewontin, Stephen Stanley. Per quel che riguarda in particolare la prospettiva ecosociale delle malattie e della salute, spesso applicata all’agricoltura, sono fondamentali i lavori di Richard Levins, quelli più accessibili al vasto pubblico sono stati scritti con Lewontin: The dialectical biologist, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1985 e Biology under the influence. Dialectical essays on ecology, agriculture, and health, Monthly Review Press, New York 2007. Per la discussione delle visioni dell’epidemiologia e la più precisa definizione dell’epidemiologia ecosociale: Nancy Krieger, Epidemiology and the people's health. Theory and context, Oxford University Press, New York 2011, p. 223.
Per la documentazione delle epidemie in epoca antica (Egitto, impero ittita) e del loro impatto: Philip Norrie, A history of disease in ancient times. More lethal than war, Palgrave Macmillan, 2016      

Altri articoli della serie
n. 1 «Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo. Introduzione», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/dialettica-di-una-pandemia-capitalismo.html
n. 2 «La pandemia di Covid-19 come sintomo di una nuova transizione epidemiologica», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/la-pandemia-di-covid-19-come-sintomo-di.html
n. 3 «(Non) lezioni dalla storia. Commercio e sanità internazionale dalla febbre gialla a Covid-19», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/07/lezioni-e-non-dalla-storia-dalla-febbre.html
n. 4 «Biopolitica e contraddizioni dei regimi sanitari internazionali», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/07/biopolitica-e-contraddizioni-dei-regimi.html
n. 5 «L’interiorizzazione dei criteri capitalisticiL’Oms e la crisi della sanità internazionale»,http://utopiarossa.blogspot.com/2020/07/linteriorizzazione-dei-criteri.html
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