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mercoledì 4 marzo 2020

La diffusione del Coronavirus annuncia pericoli maggiori


di Michele Nobile 

1) Stando alle dichiarazioni di politici ed esperti che girano sui mezzi di comunicazione di massa, alle reazioni dei governi, a quanto posso intendere dall’osservazione diretta dei comportamenti individuali in una zona più di altre interessata dall’epidemia (Bergamo) del nuovo coronavirus Sars-CoV-2, le percezioni del rischio connesse alla diffusione della malattia (Covid-19) oscillano tra estremi: dall’allarme grave, quando non vero e proprio allarmismo isterico e/o strumentale, a una tiepida preoccupazione, tendente all’indifferenza, con tutte le variazioni intermedie. 
         Senza cedere all’isteria e all’allarmismo, in sintesi la mia opinione è che esistano motivi seri di preoccupazione, sufficienti a giustificare immediate misure di contenimento e prevenzione. Tuttavia, il problema maggiore è capire la lezione di questa epidemia: quel che ci dice sul rapporto tra la nostra società – capitalistica, mondiale, ineguale – e la natura, nonché sulla preparazione dei sistemi sanitari all’irrompere di epidemie potenzialmente disastrose. 
2) Il motivo d’allarme è semplice. Secondo la stima più recente, l’epidemia d’influenza detta «spagnola» del 1918-9 (che non era affatto d’origine iberica) fece circa 50 milioni di morti, con un tasso di mortalità stimato al 2,5%. Quale sia il tasso di mortalità - o Case fatality rate Cfr - definitivo della malattia da coronavirus lo sapremo solo alla fine dell’epidemia, tuttavia la stima minima a me nota è l’1%; spesso è stato indicato il 2,3%, ma il 3 marzo il Direttore generale dell’Oms ha dichiarato che «globalmente, il 3,4% dei casi segnalati di Covid-19 è morto», precisando che il virus è meno contagioso di quello dell’influenza (https://www.who.int/dg/speeches/detail/who-director-general-s-opening-remarks-at-the-media-briefing-on-covid-19---3-march-2020). Per il quadro mondiale dell’epidemia: https://experience.arcgis.com/experience/685d0ace521648f8a5beeeee1b9125cd ). 
Su un ipotetico miliardo di contagiati nel mondo, un Cfr 2,5% implica 25 milioni di morti; su una scala «continentale» (300 milioni di persone) i morti sarebbero 7,5 milioni. 
In uno scenario del tutto ipotetico, se in Italia fossero contagiate 5 milioni di persone, con un Cfr del 2% avremmo 100.000 decessi. 



3) Un modo per ridimensionare l’allarme sociale - o per sottovalutare il rischio potenziale della diffusione del nuovo Coronavirus - è partire da alcune corrette constatazioni. 
Innanzitutto, che il Direttore dell’Oms parla di «casi segnalati»: è implicito che i contagiati che passano indenni l’influenza siano molto più numerosi di quelli accertati, il che potrebbe ridurre parecchio il Cfr, quasi al livello dell’usuale influenza. 
E poi, ogni anno la normale influenza stagionale colpisce nel mondo molte decine di milioni di persone, con una mortalità stimata di 0,1%. Cosa significa questo per un Paese come l’Italia? Le stime dei contagiati per ciascuna normale stagione influenzale variano molto di anno in anno: tra il 4% della popolazione (2,4 milioni di persone) nel 2005-6 a circa 9 milioni di persone nel 2017-8. Nelle stagioni influenzali tra il 2017 e il 2019 i casi stimati sono stati superiori a 8 milioni e 5,6 milioni tra ottobre 2019 e metà febbraio 2020. Risultato: ogni anno possono essere attribuiti all’influenza – sia direttamente sia per complicazioni – almeno 5000 decessi (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_CMORTE1_EV; Si veda anche l’articolo https://www.agi.it/fact-checking/news/2020-02-26/coronavirus-influenza-stagionale-7231278/).
E quindi, a fronte dei decessi annui per una normale influenza (senza contare altre malattie), per le guerre, per la fame, i 3.000 decessi da Covid-19 nel mondo e gli 80 in Italia appaiono statisticamente insignificanti. Tranne che per gli interessati, ovvio. 
         Tutto questo appare molto logico. Ma anche terribilmente ottimistico. 
         4) Propongo un piccolo esperimento mentale. Ipotizziamo che in definitiva, a epidemia esaurita, il tasso di mortalità da Covid-19 risulti molto inferiore alle stime correnti: soltanto 0,5%, ovvero 4 decimi di punto superiore a quello dell’influenza solita. Questo numeretto (0,5) implica che su un ipotetico miliardo di contagiati nel mondo, muoiano «soltanto» 5 milioni di persone; e «soltanto» 1,5 milioni su una scala «continentale» (300 milioni di persone). Sulla scala di un Paese come l’Italia, in uno scenario ipotetico di 5 milioni di contagiati (più o meno come in una normale influenza stagionale) se il Cfr risultasse «solo» 0,5% avremmo «soltanto» 25.000 decessi in più di quelli attesi. 
         Occorre prendere sul serio la conseguenza di questo banale esercizio. 
         Direi che sul tasso di mortalità dell’epidemia di questo nuovo coronavirus c’è incertezza, e alla fine il tasso di mortalità stimato probabilmente sarà più basso di quello ottenuto facendo semplicemente la media tra casi noti e decessi. Ma questa aspettativa o speranza non è motivo per liquidare l’epidemia con un’alzata di spalle: per l’ampia diffusione, sono i virus con Cfr relativamente basso ad essere potenzialmente i più pericolosi. Pur ammettendo - come è - che per la maggior parte dei contagiati (l’80%) la sindrome non sia nulla di più grave di una normale influenza e che, a causa delle patologie pregresse, la mortalità si concentri tra gli anziani (e allora? I vecchi contano meno dei giovani?), su grandi numeri è sufficiente un tasso di mortalità molto inferiore a quello stimabile con i dati dei casi segnalati in questa fase per produrre un numero di decessi in eccesso che è socialmente inaccettabile. È sufficiente un Cfr solo qualche decimo di percentuale superiore a quello delle normali influenze. Quindi occorre combattere l’isterismo e le strumentalizzazioni con la chiarezza dell’informazione, ma non si deve neanche sottovalutare il problema.  
Credo che così s’intendano le energiche misure adottate dal governo cinese. Come si leggerà subito più avanti, non considero affatto lodevole il comportamento delle autorità cinesi. È però indubbio che esse non siano affatto inclini al masochismo e ad incrinare il consenso al regime del sedicente «socialismo con caratteristiche cinesi»: se sono giunte a imporre la quarantena un motivo c’è. 
Che i decessi siano il minimo possibile dipende anche dalle misure di contenimento del contagio.
         In breve: di fronte a un virus contagioso come le normali influenze stagionali ma che abbia un tasso di mortalità anche modestamente superiore, la prudenza impone che si agisca tempestivamente, con tutte le risorse sanitarie, i mezzi tecnici e le risorse economiche per contenerlo
Altrimenti, in sede di valutazione delle responsabilità politiche bisognerà ragionare in termini di strage per omissione di atti dovutiLa posta in gioco, per così dire, è dell’ordine delle migliaia di morti. 
         3) In questa come in precedenti e future epidemie la Cina è destinata ad avere un ruolo fondamentale. Il comportamento del governo cinese durante l’epidemia Sars del 2002-3 fu vergognoso (ma non contrario alle norme internazionali): prima per il tentativo di sopprimere l’informazione - non riuscito perché trapelò nel web, poi sottoposto a più forte controllo; in una seconda fase perché più collaborativo, ma comunque orientato a restringere informazioni e ispezioni dell’Oms. La Sars fu importante nella storia della gestione internazionale delle epidemie perché vide un braccio di ferro senza precedenti tra le autorità della Rpc e l’Organizzazione mondiale della sanità, nonché un’altrettanto inedita serie di consigli Oms circa specifiche destinazioni dei viaggi aerei (per questo e la storia della Sars, si veda David P. Fidler, SARS, governance and the globalization of disease, Palgrave MacMillan, 2004). In effetti, l’epidemia di Sars del 2002-3 fu il primo importante avvertimento del nuovo millennio circa il rischio di pandemie influenzali. Per queste il punto non è se si verificheranno, ma quando e quanto saranno pericolose. 
Questa volta l’Oms ha lodato il governo cinese per l’azione tempestiva e decisa, ma le ombre non mancano. Il 21 gennaio 2019 il sindaco di Wuhan ha ammesso durante un’intervista alla televisione statale: «non soltanto non abbiamo rivelato in modo tempestivo l’informazione [circa l’epidemia nella città] ma non l’abbiamo usata per far meglio il nostro lavoro» (https://www.scmp.com/news/china/politics/article/3047230/wuhan-mayor-under-pressure-resign-over-response-coronavirus ). Da altra fonte pare che il sindaco abbia aggiunto d’essere stato costretto a questo dalle norme sulle epidemie. L’11 e il 12 gennaio 2020 la Commissione nazionale della sanità cinese comunicò all’Oms che il mercato del pesce di Wuhan era stato chiuso il primo dell’anno e che «in questa fase, non vi è infezione tra gli operatori sanitari e nessuna chiara evidenza della trasmissione da uomo a uomo» (https://www.who.int/csr/don/12-january-2020-novel-coronavirus-china/en/). Eppure, specialisti cinesi avevano già pubblicato il contrario su riviste internazionali come The lancet e altre (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0140673620301835 ). E si può continuare con altri episodi che testimoniano come la crisi emergente sia stata sottovalutata, sia pure per un periodo più breve che nel caso della Sars. Esiste anche il problema dei cambiamenti nel metodo di contare gli infetti in Cina, verificatosi due volte nell’ultima decina di febbraio, infine escludendo dal conteggio gli asintomatici. Insomma, sulle cifre ufficiali dell’epidemia nella Rpc esistono seri dubbi; e dubbi possono esserci anche a proposito di molti Paesi europei o degli Stati Uniti, che certamente non hanno con la Cina relazioni meno intense di quelle lombarde. 
Infine, ma non meno importante, c’è la situazione dei lavoratori cinesi nell’epidemia. Il China Labor Bullettin informa che le autorità centrali spingono a riprendere il lavoro nelle località e nelle imprese dove è stato interrotto, e che le autorità locali (in particolare nella provincia di Zhejiang e nelle città costiere) preparano treni speciali e offrono sussidi ai migranti e ai lavoratori che si sono spostati per il capodanno. Fa anche presente che nei dormitori e nelle abitazioni sovraffollate si è esposti al contagio ed è impossibile la quarantena; che molte imprese, specialmente nei servizi, non retribuiscono i dipendenti che non lavorano a causa dell’epidemia; che il costo della vita aumenta; che per i lavoratori mancano maschere e protezioni; che i sindacalisti agiscono come dipendenti delle autorità locali invece che come rappresentanti degli interessi dei lavoratori (https://clb.org.hk/content/workers-limbo-authorities-struggle-coherent-coronavirus-policy).  
Lo sviluppo industriale e finanziario della Cina è il maggior successo della globalizzazione del capitalismo. E si vede che lo sfruttamento del lavoro deve continuare, anche a costo di reinfiammare l’epidemia. Non è qualcosa che deve considerarsi esclusivo della Cina, ma lì l’assenza di libertà politica e sindacale rende tutto più facile che altrove, perché espone i lavoratori al dilemma: o rischiare il contagio o far la fame. Nella transizione dallo peudosocialismo al capitalismo - il partito unico è riuscito a combinare il peggio di due mondi, anche nel campo della sanità.
         4) Evidenzio velocemente alcune questioni: 
a) l’enorme importanza non solo della diagnosi precoce ma della pubblicità e correttezza dell’informazione e delle indicazioni preventive: è indispensabile per ridurre i contagi e anche per evitare che, come rimedio al malfatto, si debba ricorrere a misure estreme. 
         Chiarezza nell’informazione pubblica e tempestività e decisione dell’azione a livello nazionale sono anche indispensabili per mettere a tacere polemiche strumentali e isteriche. 
b) Se c’è qualcosa che mostra la natura mondiale e ineguale della società umana – globale, se si vuole dir così - è una pandemia da virus facilmente trasmissibili da uomo a uomo. La mondialità non è fatto recente, ma l’intensificazione dei movimenti di persone e di merci ha ridotto i tempi di trasmissione dei virus da un continente all’altro. Nel caso della Sars si sa che all’origine della sua diffusione internazionale fu un medico infettato del Guangdong, che s’era recato a Hong Kong per il matrimonio del nipote: lì, nel Metropole hotel, prima di morire contagiò altre 16 persone, tra cui uno statunitense con interessi in Vietnam (che portò l’infezione ad Hanoi), cittadini di Singapore e due canadesi. Alla velocità dei voli aerei, dalla Sars furono colpiti 32 Paesi tra cui specialmente, in ordine di casi, Cina, Hong Kong, Singapore, Vietnam, Canada, Stati Uniti, Regno Unito. 
         Il punto è che se la pandemia è per definizione globale, la gestione politica delle misure per contrastarla non lo è. Fidler - citato prima - considera la linea dell’Oms nell’epidemia Sars del 2002-3 come un esempio positivo di politica sovrannazionale della salute pubblica, ma non manca di mostrare i limiti dell’organizzazione e del regime della politica sanitaria mondiale. L’Oms è un organo indipendente, ma ha anche una sua diplomazia: per questo deve guardarsi dall’attaccare governi di Stati importanti per risorse e peso politico: il caso della Cina è esemplare, ma non è unico. Per quanto riguarda le pandemie influenzali e altre malattie facilmente trasmissibili da uomo a uomo, la politica sanitaria westfaliana-nazionale e intergovernativa ha obiettivamente fatto il suo tempo, ma rimangono intatti gli impedimenti alla politica sovranazionale. Tra questi devono porsi gli interessi politici ed economici dei governi e dei capitalismi nazionali, le logiche del neomercantilismo e della concorrenza globale. 
Per contrastare gli interessi politici ed economici nazionali è fondamentale il senso di responsabilità e d’indipendenza dei medici, dei lavoratori della sanità e dei ricercatori nell’individuare e segnalare tempestivamente anomalie e casi preoccupanti. 
c) Stante l’interdipendenza economica mondiale, le guerre e il sottosviluppo, e gli inevitabili flussi umani che accompagnano tutto questo, è demagogico e irrealistico pensare di chiudere le frontiere. Divieti e limitazioni dei viaggi e degli ingressi dall’estero hanno senso se mirati e adottati con la consapevolezza che possono essere necessari, ma che sicuramente non sono sufficienti, perché non garantiscono affatto l’immunità dal contagio che può venire da dove è meno atteso. Questo è un argomento per contrastare la sciocca e strumentale xenofobia, ma vuol anche dire che se la guerra contro le epidemie dovrebbe dev’essere sovranazionale, le battaglie si combattono in territori determinati, subnazionali e nazionali. E qui si manifesta l’altro grande problema, cioè l’orientamento concreto delle politiche sociali da qualche decennio a questa parte: tagli alla spesa per la sanità, privatizzazioni, criteri mercantili nel settore pubblico ecc. È il motivo dell’impreparazione operativa a fronteggiare adeguatamente emergenze come quella in corso e una ragione in più per combattere queste politiche dette neoliberiste, in effetti con una buona dose di neomercantilismo. Chi ha letto l’articolo di Piero Bernocchi - «La Wuhan “de noantri”», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/02/la-wuhan-de-noantri.html) in questo stesso blog intende quanto sia diversa la mia idea circa l’epidemia da Sars-CoV-2. Tuttavia, condivido pienamente quanto da lui riportato da un documento dei Cobas sanità. Se si prende sul serio l’epidemia, allora occorre 

«assumere personale per scongiurare episodi di quarantena di operatori sanitari che metterebbero in crisi l'intero sistema operativo; rivedere l'appalto sulle pulizie e sanificare tutti gli ospedali e strutture ambulatoriali; dotare i vari presìdi di zone di prefiltraggio per l'accesso ai DEA, ai Pronto Soccorso e ai reparti di Malattie Infettive, nonché stanze di isolamento; fornire per il personale tutti gli strumenti previsti dalle normative in vigore, col coinvolgimento degli RLS, delle RSU e delle OO.SS. nelle misure da adottare per garantire salute e sicurezza ai lavoratori».

L’epidemia offre un’opportunità: anche su essa si deve far leva per diffondere l’urgenza e l’assoluta necessità di rovesciare completamente la politica sanitaria nazionale. 
d) Lo stesso discorso vale a livello mondiale per i Paesi detti sottosviluppati - ad esempio dell’Africa subsahariana - ma anche per un gigante demografico ed economico come la Cina, che è tra i focolai d’infezioni. Almeno una parte delle risorse utilizzabili per fronteggiare nuovi virus, suscettibili di diventare pandemici e pericolosi, potrebbe essere utilizzata per le patologie endemiche, che ogni fanno milioni di morti (ben oltre un milione la tubercolosi, oltre 1,5 milioni l’Aids, mezzo milione la malaria), e le malattie tropicali «dimenticate».  
         5) Infine la questione in prospettiva più importante. Non è un caso che dal 1999 si sia verificata un’impennata senza precedenti delle pubblicazioni sull’epidemia di «spagnola» del 1918, (Howard Phillips, «The recent wave of “Spanish” flu historiography», in Social history of medicine, settembre 2014) tra cui consiglio, non solo perché tradotto, L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondodi Laura Spinney, da cui si può imparare molto per il futuro. La causa immediata per l’esplosione d’interesse per la «spagnola» fu effetto diretto dell’ampia epidemia d’influenza «aviaria», a partire da Hong Kong nel 1997. Ma quella fu la classica goccia che fa traboccare il vaso - che d’allora continua a traboccare - perché di patologie da virus emergenti o riemergenti si parlava già negli anni Ottanta: basti ricordare l’Aids. 
Tutte le epidemie sono il risultato della sinergia di un insieme di fattori, biologici, ecologici e sociali. Alcune malattie possono dirsi ancestrali, nel senso che risalgono a prima dell’allevamento e addomesticamento di animali e dell’agricoltura, non hanno bisogno di grandi concentrazioni umane, sono endemiche: lebbra, framboesia, febbre gialla, malaria (John R. Butterly, «A brief primer of infectious diseases. Humans, their environment, and evolution», in Diseases of poverty. Epidemiology, infectious diseases, and modern plagues, Dartmouth College Press, Hanover (NH) 2015, di Lisa V. Adams e Butterly, J. R. Butterly). 
Ma esistono virus e relative malattie che si sono evoluti insieme alla società umana dopo la diffusione dell’allevamento e dell’agricoltura, e che continuano a mutare e a combinarsi, a emergere e a riemergere a causa di fatti sociali, di pratiche umane, dei cambiamenti locali e globali del rapporto tra società e ambiente. I virus influenzali sono esemplari: non per caso alcune recenti influenze sono state denominate «aviaria» e «suina»; non per caso quest’ultima influenza Covid-19 si è sviluppata a partire da un mercato d’animali vivi, come già la Sars. C’è uno scambio biologico tra anatre, suini e umani, tra specie animali, tra animali domestici e selvatici, passaggi dagli animali all’uomo e dall’uomo agli animali tanto più frequenti quanto più gli animali ci sono vicini, tanto più facili perché sono sorti allevamenti di tipo industriale in cui i virus possono incubare in modo massiccio. Il ceppo dell’influenza suina del 2009 è una variante del H1N1 responsabile della «spagnola». 
         Sono numerosi i motivi della diffusione delle infezioni virali: dall’uso smodato di antibiotici che creano ceppi ad essi resistenti, a carenza di aghi e siringhe in ospedali di zone rurali povere e di igiene nei Paesi sviluppati, dal traffico d’animali ai viaggi internazionali. Faccio due esempi che avvicinano alla questione del nesso tra recenti sviluppi della società mondiale ed epidemie di vario genere. Questione globale nel senso planetariom, ma anche perché racchiude in sé molte delle cause particolari. 
         La deforestazione e l’avanzare dell’agricoltura espone i lavoratori a vettori di virus: è il caso delle febbri emorragiche argentina, boliviana e di Lassa (tutte con mortalità del 15-30%) e del «vaiolo delle scimmie», che hanno per vettori i roditori. Un discorso analogo si può fare con i pipistrelli e le epidemie da virus Nipah in Malesia (1998-9) e Kerala (India, 2018): la deforestazione spinge i pipistrelli che si nutrono di frutti a migrare verso i frutteti, poi i maiali mangiano i frutti contaminati dalla saliva dei pipistrelli e passano il virus agli umani. 
         La diffusione del virus responsabile della febbre della Rift valley è il risultato della costruzione di dighe in Mauritania (1987) ed Egitto (1993): queste hanno fatto proliferare le zanzare, che trasmettono un virus tratto dal sangue di ruminanti infetti. La febbre da virus del Nilo occidentale si è presentata anche a New York nel 1999 e al momento la stima è che da allora i contagiati siano oltre 50.000. 
         Il riscaldamento globale ha un effetto simile a quello delle dighe ma su scala enormemente più ampia, con diffusione del vasto assortimento di malattie di cui le zanzare sono vettori. 
         Il significato dell’epidemia da Sars-CoV-2 va colto nel contesto complessivo dell’emergenza e riemergenza di virus, della deforestazione, dell’intensificazione dei movimenti umani, della privatizzazione della sanità e di sistemi sanitari inadeguati a fronteggiare grandi emergenze quando non problemi minori, della persistenza di condizioni sociali, di vita e di lavoro che favoriscono le epidemie. E del riscaldamento globale e dell’inadeguatezza delle politiche statali a proposito, che è la sintesi ultima dell’irrazionalità complessiva dell’estensione e dello sviluppo del capitalismo - senza dimenticare il contributo degli pseudosocialismi estinti e viventi. A sua volta, il riscaldamento globale è potente causa diretta dei cambiamenti degli ecosistemi che risultano in nuove epidemie. 
Qualcuno ha detto che l’epidemia in corso potrebbe essere la Chernobyl del regime cinese. Vedremo. Il tempo ci dirà anche dell’impatto globale dell’epidemia.


Tuttavia, posta nel contesto complessivo, questa epidemia (o pandemia?) suona come un avvertimento, uno squillo d’allarme. Ci avverte che i rapporti sociali che danno forma al mondo sono malati, che il peggio deve venire e verrà, a meno di non ricorrere a una cura radicale che può cominciare solo dall’abolizione del capitalismo. 

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