INDICE: Premessa - 1. La generalizzazione dello pseudopopulismo nella postdemocrazia italiana - 2. Trasformismo di gruppo, cooptazione e postdemocrazia, a iniziare dalla mutazione del Pci - 3. Le innovazioni di Silvio Berlusconi, i rapporti di forza tra le classi e la questione del bonapartismo - 4. La trasformazione delle subculture del Pci e della Dc e il nazionalismo della Lega Nord - 5. Regime berlusconiano o postdemocrazia bipolare? - 6. Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano e la postdemocrazia nazionale - 7. Sintesi parziale: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente
Karl Dietz Verlag Berlin, 2018 |
Premessa
Fra 2011 e 2013 il sistema italiano dei partiti è entrato in una nuova fase. Non si tratta di una Terza Repubblica perché i guasti prodotti da centro-sinistra e centro-destra rimangono intatti, ma la fulminea ascesa del Movimento 5 Stelle ha cambiato la scena politica istituzionale.
Allo stesso tempo, la base elettorale di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi si è quasi estinta: Potere al Popolo! ha raccolto soltanto lo 0,8% dei voti dell’intero corpo elettorale - vale a dire circa 200 mila voti in meno di quanti ne ebbe Democrazia proletaria nel 1976, oppure circa mezzo milione in meno di quelli per il Manifesto e il Psiup nel 1972. Dal punto di vista elettorale si è dunque verificato un arretramento di oltre quarant’anni. Sottolineo questo fatto perché si tratta della tomba definitiva per le prospettive elettorali e di stabile partecipazione al gioco politico nazionale dei partiti della sinistra post-Pci; non ci si può neanche consolare con il risultato di quella costola del Partito democratico che è Liberi e Uguali.
Ci troviamo di fronte a una catastrofe che deve indurre a un ripensamento profondo. Essa non può essere scaricata sulle circostanze esterne o sui rapporti di forza tra le classi sociali. La sinistra italiana non è stata sconfitta nella lotta e non è stata travolta insieme a un movimento di massa. Non si tratta di una sconfitta che, nonostante tutto, si possa onorare nella memoria. Tutto il contrario. Il crollo del consenso elettorale non è altro che la manifestazione di un fallimento complessivo, politico e ancor più ideale. È il risultato di un processo iniziato già prima che il M5S si presentasse nelle elezioni politiche e che si deve innanzitutto al «ministerialismo», il cui culmine - certo non l’inizio - fu la partecipazione al governo Prodi II (2006-2008). Retrospettivamente, quel che nel 2006 poteva apparire come un trionfo - 110 parlamentari eletti tra le fila del centro-sinistra - può ormai considerarsi un punto di non ritorno.
E adesso? Si potrebbe dire che siamo al punto zero, ma non è così. È molto peggio, perché la storia è irreversibile e i guasti profondissimi.
Quando si è raschiato il fondo ci si deve attenere a questo principio, formulato dopo ben altra e terribile catastrofe:
«L’autocritica, un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose, costituisce l’aria e la luce del movimento proletario» [Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia (Juniusbrochure), 1915].
Non è sufficiente un’autocritica superficiale, una condanna del «rinnegato» Bertinotti - che in realtà non ha rinnegato nulla, mentre bertinottismo ed ex bertinottiani vanno avanti, seppur azzoppati - né cavarsela semplicemente appellandosi all’attivismo e al «rimbocchiamoci le maniche». Non è affatto sufficiente atteggiarsi a populisti e «movimentisti» e presentare volti nuovi. I fatti lo dimostrano in modo inoppugnabile. In questo modo si può continuare a vivacchiare tra alterne fortune, ma come nicchia elettorale marginale, entità dedite a una sorta di sindacalismo, circolo di reduci, una delle tribù della società postmoderna.
E non serve nemmeno l’appello all’unità. Unità con chi, e specialmente perché e per cosa? Perché la generosità dello sforzo attivistico individuale e collettivo dia frutti occorre ripensare tutta la cultura politica della sinistra italiana, che a cavaliere dei due secoli ha subìto un’ulteriore, fenomenale regressione. Bisogna avere il coraggio mentale - psicologico e intellettuale - di un’autocritica radicale, totale e crudele. Solo in questo modo si può sperare che il punto zero sia una partenza e non una fine.
Esistono barriere psicologiche e culturali che è molto doloroso abbattere. Realisticamente, sono anche convinto che queste barriere non saranno abbattute fino a quando la protesta sociale rimarrà confinata alle elezioni e a lotte parziali e difensive, pur indispensabili; e sono pure convinto che buona parte dell’attuale militanza di sinistra sia irrecuperabile, perché troppo incrostata da miti e atteggiamenti obsoleti. È per questo che vedo un grande rischio per il futuro: che, se e quando esploderà la protesta della società, le incrostazioni che impediscono la critica e l’autocritica del passato blocchino anche la formazione di quella minima massa critica che possa svolgere un ruolo positivo nel consolidare una sinistra anticapitalistica, internazionalista e libertaria in questo Paese.
Una condizione minima ma necessaria è mettere a punto le categorie analitiche indispensabili alla valutazione della storia dei partiti della Seconda Repubblica: non sulla cronaca, ma sui suoi presupposti e sulla sua evoluzione strutturale, traendone poi tutte le conseguenze politiche. Il testo che segue muove in questa direzione. È utile affiancarlo alla lettura di altri pezzi pubblicati sul blog di Utopia Rossa, troppo numerosi per poterli citare.
1. La generalizzazione dello pseudopopulismo nella postdemocrazia italiana
Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo la politica italiana ha dimostrato una creatività veramente fuori dell’ordinario, realizzando nuovi primati nazionali ed europei: un processo trasformistico senza precedenti per estensione e qualità; l’invenzione di una pseudonazione - la «Padania» - ad opera della Lega Nord (LN); la creazione del modello esemplare del partito-azienda o partito personal-patrimoniale (Forza Italia - FI - poi Popolo della libertà - Pdl - poi di nuovo FI); la fusione tra un mutante del Partito comunista italiano (Pci) e un mutante della Democrazia cristiana (Dc), che ha generato il Partito democratico (Pd); la prima designazione in Europa del candidato premier mediante elezioni primarie (Prodi, nel 2005); l’utilizzo di elezioni primarie per la scelta del Segretario del partito (ancora il Pd); una serie di governi «tecnici» apartitici e liberisti, ma in effetti sostenuti stabilmente dal centro-sinistra e dovuti alla forte iniziativa del Presidente della Repubblica, tanto da far parlare di regime semipresidenziale di fatto.
Infine, è emerso come primo partito nazionale un «non-partito» originale cresciuto sul Web - e anche negli spettacoli in piazza - basato sul carisma di un bravissimo comico che ha destabilizzato l’assetto bipolare e postdemocratico cui ardentemente aspiravano entrambi i partiti maggiori: il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (M5S). Il paradosso del M5S è che si tratta di una rivolta elettorale pseudopopulista contro lo pseudopopulismo dei partiti maggiori.
Tralasciando le varianti minori, il punto è che non c’è più alcun importante partito italiano che non possa dirsi fortemente personalistico e pseudopopulista.
Tuttavia, con queste constatazioni il discorso sul populismo italiano è solo abbozzato. Si pongono diversi problemi. Cosa presuppone e cosa implica quanto sopra per la struttura e la dinamica del sistema politico, e per i rapporti fra lo Stato e le classi sociali? Che rapporto esiste fra le innovazioni della Seconda Repubblica e le caratteristiche di lungo periodo della società? Come si inserisce il caso italiano in un quadro comparativo internazionale? A confronto con i populismi storici, quanto è appropriato l’uso della categoria «populismo» per i partiti italiani? Ovvero, come si pone la particolarità italiana nel processo di trasformazione dei sistemi politici europei nella direzione della «postdemocrazia» (Colin Crouch) o della «democrazia populista» (Peter Mair) intesa come fatto sistemico, in cui cambiano identità e funzioni dei partiti? E quali lezioni si possono trarre dalle vicende italiane?
2. Trasformismo di gruppo, cooptazione e postdemocrazia, a iniziare dalla mutazione del Pci
Il trasformismo è un fenomeno secolare e ricorrente della storia politica italiana. Già nel 1883 Giosuè Carducci lo caratterizzava così, con parole che ben si addicono alla situazione contemporanea:
«Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco de’ ladri, non essere più uomini e non essere ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi nei quali le due immagini si perdono, e che invece di parlare ragionando sputano mal digerendo»1.
Nel 1994 Massimo L. Salvadori2 descrisse le due principali forme assunte dalla politica italiana a partire dall’Unità: la prima è la delegittimazione a priori dell’opposizione politica in un clima di «guerra ideologica» permanente, con la conseguente negazione della possibilità di un’alternativa di governo; la seconda consiste nella messa in campo di operazioni trasformistiche o di cooptazione di parti dell’opposizione, come il «compromesso storico» di Moro e Berlinguer negli anni ‘70. In entrambi i casi, il risultato è un sistema politico che rimane bloccato fino alla traumatica crisi organica del regime. Le due forme non si escludono totalmente: all’inizio degli anni ‘60 la Democrazia cristiana fece entrare il Partito socialista nell’area di governo per ribadire l’emarginazione del Partito comunista. Nella Seconda Repubblica, partiti della sinistra italiana hanno a lungo perseguito l’obiettivo della cooptazione.
È straordinaria la quantità di eletti nelle istituzioni che durante la Seconda Repubblica hanno cambiato partito e coalizione. Tuttavia, il fenomeno va ben al di là del trasformismo «molecolare» di singoli individui. Quel che è veramente straordinario - e forse senza precedenti per dimensioni e qualità – è il trasformismo di interi gruppi: «di estrema che passano al campo moderato», scriveva Gramsci3. Nel nostro tempo, il trasformismo fu l’effetto della fine traumatica del sistema dei partiti della Prima Repubblica in seguito alle inchieste giudiziarie di «Mani pulite» nel 1992-1993, il cui senso fu ben compreso da Perry Anderson: «non fu un partito, o una classe, ma un intero ordine a convertirsi esattamente in quello a cui avrebbe dovuto porre fine»4.
Il principe dei trasformisti fu senza dubbio Silvio Berlusconi. Tuttavia, il primo e importantissimo caso di trasformismo di gruppo fu la mutazione del Pci in Partito democratico della sinistra (Pds), fra 1989 e 1991. Il crollo del Muro di Berlino fornì l’occasione propizia, ma il cambiamento della denominazione del partito, la cui esistenza tanto aveva contribuito a fare dell’Italia un caso anomalo nel panorama dei Paesi a capitalismo avanzato, era il risultato della professionalizzazione della politica e dell’integrazione sociale dell’apparato centrale e periferico del Pci in atto da lungo tempo. L’operazione di distanziamento dalla tradizione promossa da Achille Occhetto era anche il tentativo di uscire dal vuoto di prospettive conseguente al fallimento della strategia togliattiana che il partito aveva perseguito per trent’anni, culminata nel breve periodo dei governi di «unità nazionale» ma crollata con la fine del «compromesso storico» con la Dc e la nuova marginalizzazione del partito. Uno dei paradossi della recente storia italiana è che quello che era il più grande e culturalmente agguerrito partito comunista dell’Occidente sia saltato subito a destra, ben oltre la socialdemocrazia classica.
Ho definito fondamentale la mutazione del Pci perché con i nuovi partiti sorti dal suo tronco i salariati persero il tradizionale canale di rappresentazione - sia pur indiretta e distorta – dei loro interessi minimi in quanto classe sociale.
Inoltre, il Pds fu determinante per un fondamentale cambiamento della Costituzione materiale in senso postdemocratico che ha alimentato la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, la promozione di capi e di partiti pseudopopulisti: il successo dei referendum di modifica della legge elettorale in senso maggioritario. E il paradosso finale è che attraverso diversi passaggi, dal Pds ai Democratici di sinistra (Ds) e dai Ds al Pd, sul tronco del vecchio Pci sono fioriti - fino a prevalere - personaggi provenienti dalla Dc come Matteo Renzi.
All’operazione trasformistica del Pci seguirono la trasformazione del neofascista Movimento sociale italiano nella moderata Alleanza nazionale; la confluenza di tanti politici e intellettuali dell’ex Pentapartito in Forza Italia ma anche nell’area di centro-sinistra, con la trasformazione in partiti indipendenti delle correnti o «anime» della Dc; la partecipazione ai governi o alle maggioranze locali e nazionali di centro-sinistra di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi.
In astratto, Rifondazione comunista avrebbe potuto essere un surrogato del Pci, ma a questo ruolo si opponevano due fatti. Il primo è semplicemente che il nuovo partito non nasceva in un quadro di conflitto politico e sociale che fosse in qualche misura paragonabile a quello della Resistenza. L’aspettativa maggiore di Rifondazione comunista era ereditare parte del consenso elettorale del Pci per condizionare da sinistra il quadro politico, non per contrapporre ad esso una coerente prospettiva anticapitalistica. E questa è appunto la «tara ereditaria» di Rifondazione comunista: essa nacque incorporando la frazione più tradizionalista e obsoleta della burocrazia del Pci e, con ciò, gli elementi fondamentali della cultura politica togliattiana e ingraiana che in definitiva avevano portato al fallimento storico del partito. Nello stesso tempo, entrando in Rifondazione comunista, quel che residuava dei gruppi della «nuova sinistra» si lasciava confinare entro i giochi d’apparato del partito o perdeva definitivamente quel che un tempo ne aveva fatto qualcosa di relativamente nuovo rispetto al Pci.
Che la presunta «sinistra radicale» italiana non abbia compreso subito la natura del Pds, che non ne abbia fatto un proprio nemico di classe al pari del centro-destra e che per tutta la sua storia abbia avuto il centro-sinistra come stella polare – in nome della lotta al berlusconismo e del «meno peggio» - è la ragione della distruzione delle possibilità di costruire un movimento anticapitalistico in Italia e addirittura, infine, della sua scomparsa come forza elettorale.
Il sistema italiano dei partiti si presenta molto polarizzato, ma la polarizzazione può solo in parte spiegarsi con la dicotomia destra/sinistra; altrettanto se non più rilevante sono state la «mobilitazione drammatizzante»5 pro o contro la persona di Berlusconi e, dal 2013, la polarizzazione fra tutti i partiti e il M5S. La «mobilitazione drammatizzante» è una conseguenza della personalizzazione e spettacolarizzazione della scena politica centrata sull’immagine delle vedettes. Essa tende a prevenire la valutazione razionale delle proposte politiche e dell’azione di governo, ma non è affatto imputabile al solo Berlusconi: considerando l’eterogeneità dei partiti della coalizione di centro-sinistra e la sostanziale convergenza degli obiettivi programmatici fra le due coalizioni, probabilmente la «mobilitazione drammatizzante» è stata più importante per le decisioni di voto a favore del centro-sinistra. In particolare, fino alle elezioni del 2008 ha avuto grande importanza per il bacino elettorale dei partiti a sinistra del Pds-Ds: una trappola psicologica e politica alimentata dalle opportunistiche oscillazioni delle direzioni politiche di questi partiti - che hanno strumentalizzato a fini elettorali l’appoggio ai «movimenti» - puntualmente giustificate dalla logica del «meno peggio» e dall’illusione di poter condizionare la frazione di centro-sinistra dell’imperialismo italiano.
D’altra parte, fra le due coalizioni si sono verificati momenti importanti di «consociativismo», soprattutto – ma non solo - in tema di riforme costituzionali e di legge elettorale, secondo la logica del rafforzamento del potere esecutivo, della concentrazione del potere nelle mani dei vertici dei partiti e di «protezione» dall’ingresso di nuovi concorrenti. E in nome dell’accordo sulle riforme istituzionali il centro-sinistra ha sacrificato la possibilità di legiferare sul «conflitto d’interessi» di Berlusconi.
3. Le innovazioni di Silvio Berlusconi, i rapporti di forza tra le classi e la questione del bonapartismo
La destrutturazione del sistema italiano dei partiti occorse contemporaneamente all’inizio del processo di unificazione economica e monetaria avviato con la firma del trattato di Maastricht, nel febbraio 1993. Dal punto di vista del grande capitale industriale e finanziario nazionale e internazionale, la gravità della crisi politica costituiva un ostacolo per la possibilità che l’Italia -con il suo grande debito pubblico, la più estesa industria di Stato fra i Paesi a capitalismo avanzato e con una storia (passata) di prolungato conflitto sociale - potesse raggiungere l’obiettivo dei parametri di convergenza necessari per entrare a far parte dell’unione monetaria all’inizio del nuovo secolo.
Fu così che il quadro di emergenza politica ed economica dei primi anni ‘90 entrò nel corredo genetico del nuovo sistema italiano dei partiti. Un’emergenza che pare non aver mai fine. In questo si manifesta il relativo arretramento del capitalismo italiano su scala internazionale.
Il nesso tra la posizione del capitalismo italiano nell’economia mondiale e la politica interna è sovente espresso con l’idea che il sistema politico e amministrativo nazionale costituisca un caso particolare, un’anomalia relativamente agli altri Paesi avanzati europei, gravato in modo peculiare dalla riproduzione di tare antiche. Un dogma della politica istituzionale recita che il blocco delle potenzialità del «bel Paese» dipenda in gran parte proprio dalla particolare natura delle regole del gioco politico: da ciò l’idea che sia necessario la loro «normalizzazione» mediante riforme istituzionali e del sistema elettorale. Questa la tesi che si evince già dal titolo di un libro di Massimo D’Alema scritto nel 1995: Un Paese normale. La sinistra e il futuro dell’Italia6. Per l’allora segretario del Pds, ex alto dirigente del Pci e futuro presidente del Consiglio dei ministri, la normalizzazione dell’eccezione italiana consisteva nell’accesso della sinistra al governo, nell’europeizzazione del Paese e nella riforma istituzionale e amministrativa. Tuttavia, anche la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, l’anno precedente, ambiva a normalizzare un Paese sconvolto dagli scandali, dal crollo dei partiti che avevano governato per mezzo secolo e dall’imminente minaccia di un governo costituito da «comunisti riverniciati» - quelli del Pds, appunto.
Nell’accorato appello televisivo al popolo del 26 gennaio 19947 - con cui annunciò la sua «discesa in campo» - Berlusconi spiegò le sue ragioni e obiettivi, con argomenti portati avanti per anni. Il pericolo individuato da Berlusconi era quello del venir meno di una credibile alternativa al Pds che, in quel contesto di crisi, avrebbe potuto vincere le elezioni. A questo egli oppose «il dovere civile di offrire al Paese un’alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti», e introdusse quattro innovazioni nella politica italiana.
In primo luogo, si presentò come un imprenditore, estraneo alla politica corrotta e parolaia, l’incarnazione delle virtù della competenza, del pragmatismo efficace e del successo.
In secondo luogo, diede un decisivo impulso all’adattamento del linguaggio e dei modi del confronto politico al linguaggio e al format dei programmi televisivi.
In terzo luogo, Berlusconi promise - nel 1994 e in seguito - un nuovo «miracolo economico», ma in termini diversi dalla tradizione democristiana, tutt’altro che estranea all’interventismo statale: nella forma di un fondamentalismo del mercato in linea con la svolta internazionale della politica e della teoria economica. Berlusconi anticipò anche il «conservatorismo compassionevole» di Bush figlio. Ciò era - ed è - coerente con la notevole presenza di piccole e medie imprese nell’economia italiana, con l’alto tasso di evasione fiscale e di abusivismo illegale, con l’insofferenza nei confronti dei sindacati, delle regolazioni e dei diritti socioeconomici; era coerente anche con quanto implicava l’ultimo importante atto del vecchio regime: la firma del trattato sull’Unione europea a Maastricht, in anticipo di dieci giorni proprio sul primo arresto di Tangentopoli - in flagranza di reato.
In quarto luogo, Berlusconi inventò un nuovo modello di partito, versione portata all’estremo del «partito pigliatutto» (catch-all party).
Formato sulla base di apparati aziendali, Forza Italia è gestito come un’azienda, ispirato dai valori del mercato, dell’efficienza, del saper fare e amministrare, il prototipo del business-firm party, in effetti un caso limite del partito personalistico e pseudopopulista che ha avuto ampio successo nella politica italiana ed europea8. Il completo dominio di Berlusconi e degli uomini a lui più vicini sugli organi centrali di FI (e poi del Pdl), sull’apparato e sulla scelta dei candidati per le elezioni a sua volta ha contribuito alla stabilità della sua leadership nelle coalizioni dei partiti di centro-destra e alla sua posizione di principale vedette polarizzante della scena politica nazionale.
Al contrario, il Pds-Ds-Pd è sempre stato diviso in correnti e ha più volte cambiato leader; inoltre, Prodi è stato a capo del governo, ma non del partito maggiore della coalizione: gravi limiti alla definizione di un forte capo pseudopopulista. Dopo diversi tentativi, solo con Renzi il centro-sinistra ha infine prodotto un capo che è l’equivalente funzionale di Berlusconi.
Contro la sinistra, Berlusconi proponeva di riunire «tutte le forze che si richiamano ai princìpi fondamentali delle democrazie occidentali, a partire da quel mondo cattolico che ha generosamente contribuito all’ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria» (corsivo mio): un chiaro riferimento all’area dell’ex Pentapartito e in particolare agli elettori democristiani. L’intento era di costituire una formazione politica che svolgesse lo stesso ruolo anticomunista della Democrazia cristiana. Per anni Berlusconi continuerà a riferirsi alla Dc come «baluardo della libertà» e a figure come Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi e anche Saragat, La Malfa e Pacciardi.
In altri momenti, Berlusconi rovesciò addirittura sul Pci la responsabilità della diffusa corruzione politica, parlando della «necessità dei partiti democratici di fronteggiare un partito anti-sistema come il Pci, che poteva contare sul sostegno finanziario di Mosca» e che si era costituito «in brevissimo tempo come uno Stato nello Stato»9.
Dunque, nel 1994 Berlusconi motivò la sua decisione di diventare un attore politico definendo il Pds un partito di comunisti «riverniciati e riciclati», portatori di «un retaggio ideologico che stride e fa a pugni con le esigenze di una amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e liberista in economia». In pratica riproponeva la conventio ad excludendum nei confronti del Pci, giudicando i partiti suoi eredi privi di legittimità politica e morale per governare l’Italia. Berlusconi si proponeva come il rinnovatore di un sistema politico degenerato a causa della pressione della sinistra «anti-sistemica» (!), combinando il richiamo alla tradizione e alla famiglia - «nucleo originario di ogni società» - con l’ottimismo e l’impegno a realizzare «un nuovo miracolo italiano». La retorica del centrismo anticomunista stile anni ‘50 si coniugava con l’esaltazione delle possibilità di un’Italia «che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative ed innovative, capaci di darle una mano, di far funzionare lo Stato».
Può dirsi populista il discorso di Berlusconi?
Ovviamente - come nel caso del centro-sinistra - nel discorso di Berlusconi erano e sono assenti le classi sociali, ma sono invece enfaticamente presenti artigiani, piccoli e medi imprenditori, professionisti, commercianti, piccoli risparmiatori, proprietari della prima casa e lavoratori - nel senso più ampio - gravati dalle tasse e dallo statalismo. È stato osservato che «nel discorso politico, quindi, Berlusconi non “unifica”, come accade nelle espressioni classiche del populismo, ma “divide”, proprio perché molti sono i popoli a cui si riferisce, oltre a quello nazionale [nel senso degli italiani come un tutto], calibrando il discorso sugli interessi e le aspettative di ognuno di essi»10. La verità di questa tesi consiste nel fatto che la logica politica di Berlusconi e di Forza Italia è quella di un catch-all party portata all’estremo e messa in opera per mezzo della televisione - in misura qualitativamente nuova nel contesto italiano - e di un partito con peculiari caratteristiche, anch’esse sviluppo qualitativo del partito pigliatutto orientato a ottenere il massimo dei voti da tutte le classi sociali.
Berlusconi si rivolse esplicitamente ai vecchi «popoli» elettorali del Pentapartito; ma, sia per l’intento di fondere diversi «popoli» - cattolici, laici e socialisti craxiani - che per il proclamato liberismo, il «popolo» costruito dal berlusconismo è in realtà diverso da quello democristiano. Si tratta di un «popolo» atomizzato, scaturito dalla degradazione della subcultura cattolica come del laicismo socialista e repubblicano, indifferente all’antifascismo: in sostanza, un «popolo» postmoderno. Al berlusconismo mancava il principale attributo caratteristico del populismo storico e autentico: la lotta contro l’oligarchia socioeconomica e politica al potere. Al contrario - e fin nella cura dei particolari dell’aspetto fisico e dell’abbigliamento - Berlusconi si è sempre proposto ad un tempo come garante dei valori e della società esistenti.
I movimenti populisti sono certamente molto vari, ma se si considerano i casi che hanno conquistato al populismo un posto nella storia – narodniki nella Russia zarista e farmers statunitensi verso la fine del XIX secolo, la Rivoluzione messicana, la guerriglia di Sandino, l’Argentina peronista, la quasi-rivoluzione in Bolivia negli anni ‘50, i primi passi della Rivoluzione cubana – si noterà che quel che hanno in comune è la lotta di popolo - anche armata - contro l’oligarchia socioeconomica e politica del tradizionale blocco al potere11. Nonostante l’interclassismo, non si trattava di un «Noi» e di un «Loro» generati discorsivamente solo nell’atto politico, ma di uno scontro fra interessi di classi e frazioni di classe definiti nei rapporti di produzione.
I montoneros argentini o le milizie armate dei minatori boliviani erano parte integrante delle tensioni politiche e della contraddittorietà sociale del populismo, della sua ambiguità ma anche della possibilità di radicalizzazione di una sua sinistra; ma è ovviamente ridicolo affermare che fenomeni di sinistra possano scaturire da FI o dalla LN.
Il punto è importante perché i regimi populisti storici possono interpretarsi come soluzioni di tipo bonapartistico a congiunture di intensa lotta politica e sociale, prossime a sfociare in una crisi sistemica dalle potenzialità rivoluzionarie (un regime populista consolidato richiede che le tendenze radicali del movimento siano cooptate e/o represse). L’ultima situazione di questo genere verificatasi in Europa occidentale fu durante la «Rivoluzione dei garofani» in Portogallo, nel 1974-1975. Allora il Movimento das Forças Armadas - l’organizzazione politica dei militari in rivolta contro la dittatura di Salazar - avrebbe potuto essere impiegato per una soluzione restauratrice bonapartista, tuttavia esso era anche sottoposto alla pressione della radicalizzazione popolare e degli stessi ranghi inferiori delle Forze armate12.
Nell’Italia dei primi anni ‘90 il rapporto di forza tra le classi era del tutto diverso dagli esempi citati. Certamente, la «discesa in campo» di Berlusconi fu motivata dalla crisi acuta di legittimità e rappresentatività dei partiti di governo, una situazione senza precedenti nei Paesi liberaldemocratici del dopoguerra e paragonabile solo alla crisi della Quarta Repubblica francese, nel 1958. Tuttavia, la crisi del sistema dei partiti venne innescata dall’iniziativa dei magistrati milanesi e rimase confinata a quel livello: in sé non poteva avere alcun effetto sui rapporti di forza tra le classi. È sufficiente osservare la curva delle ore perse per conflitti di lavoro per rendersene conto: negli anni ‘50 - quelli del centrismo e della polizia di Scelba - il minimo fu di 28 milioni (1952), con una norma annuale fra i 30 e i 40 milioni di ore perse; negli anni formativi della Seconda Repubblica le ore perse oscillarono invece tra un minimo di 5,6 (1992) e un massimo di 8,7 milioni (1993); nel 2009 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati ufficiali dell’Istat) le ore perse si erano ridotte a 2 milioni13. Stando ai dati disponibili, fra i Paesi a capitalismo avanzato l’Italia continua ad essere tra quelli con più alto numero di conflitti di lavoro, ma è chiaro che la congiuntura del conflitto sociale e politico dei primi anni ‘90 - e dei primi decenni del XXI secolo - è ben lungi dal poter essere detta di tipo bonapartistico o dal richiedere un regime politico d’eccezione.
Non esisteva - e ancora oggi non esiste - alcuna necessità di un Bonaparte o di un Perón che svolgesse il ruolo di «mediatore» super partes fra le classi perché i lavoratori e le lavoratrici italiane avevano già subito una sconfitta storica: nel 1980 i licenziamenti di massa alla Fiat furono il segnale del ribaltamento dei rapporti di forza e di un’offensiva capitalistica in tutti i campi della vita sociale. E questo, a sua volta, era il risultato del «compromesso storico» berlingueriano e della «linea dell’Eur» della Cgil di Luciano Lama.
Se dal punto di vista della classe dominata il primo decennio repubblicano fu un lungo inverno - ma relativamente «caldo» - la Seconda Repubblica è stata fin dall’inizio una lunga era glaciale, punteggiata da lotte puramente difensive e da manifestazioni simboliche o disperate. È questa la causa prima della postdemocrazia e la condizione della sua riproduzione: un popolo immerso nella separazione della società dello spettacolo del tardocapitalismo. È sulla base di questa atomizzazione che prospera lo pseudopopulismo nelle sue diverse forme, che è qualcosa di qualitativamente diverso dai movimenti populisti e dalle congiunture nelle quali il conflitto sociale e politico può sfociare in regimi di tipo bonapartistico.
È vero però che la gravità della crisi richiedeva la ri-legittimazione davanti al popolo italiano di ogni singolo partito e di colmare una sorta di vuoto di potere. È a questa necessità che si devono l’operazione di ricomposizione politica lanciata da Berlusconi e i suoi modi innovativi: quelli, appunto, di aggregazione intorno a un nuovo nucleo di parte del ceto politico di governo del vecchio centro-sinistra più la LN e il partito post-fascista Alleanza nazionale. Un’altra importante innovazione di Berlusconi fu infatti l’eliminazione della concorrenza alla sua destra mediante l’alleanza elettorale14.
Se quanto sopra è corretto, allora il berlusconismo non è un fenomeno di tipo bonapartistico o populista, ma una forma innovativa di trasformismo in funzione elettorale. Questo fenomeno cade nella categoria del politicians’ populism: una delle sette categorie con cui Margaret Canovan, constatata l’incapacità della sociologia accademica di spiegare teoricamente il populismo, dichiarò di volersi limitare a una tipologia descrittiva15. Tuttavia, poiché il «populismo degli uomini politici» e il «populismo reazionario» sono fenomeni qualitativamente diversi dai populismi storici, preferisco usare il termine pseudopopulismo per indicare la modalità di legittimazione dei partiti nella postdemocrazia.
Il punto non è solo storiografico. Teoricamente, gli approcci che definiscono il populismo in termini di ideologia, di stile, di mentalità, di sentimenti d’ansia e disincanto o come un «significante» buono per qualsiasi significato sottovalutano la natura strutturale dei cambiamenti dei sistemi politici e non possono spiegarne le interazioni con le trasformazioni della riproduzione allargata del capitale. Come spiego più avanti, il berlusconismo non è che un aspetto della trasformazione dell’intero sistema italiano dei partiti e della sua economia politica. E ancor meno quegli approcci possono spiegare le relazioni fra questi processi su scala internazionale. Politicamente, non deve ingannare il fatto che nell’uso corrente la nozione di populismo sia più frequentemente associata alla destra e a formazioni fascistoidi. L’accusa «populista!» è un’arma che può essere usata per delegittimare a priori come antidemocratica, «antipolitica» e irrazionale qualsiasi sfida ai partiti di governo neoliberisti e social-liberisti, alla «governabilità», alla «competenza» e alla «responsabilità». In Italia ha un precedente nella famosa equiparazione degli «opposti estremismi»: di destra e di sinistra.
4. La trasformazione delle subculture del Pci e della Dc e il nazionalismo della Lega Nord
La crisi e il trasformismo dei partiti rimandano all’erosione e alla ridefinizione delle vecchie subculture partitiche del Pci e della Dc e del loro particolare radicamento in determinati àmbiti territoriali: le regioni «rosse» e le regioni «bianche»16.
Il fenomeno delle subculture partitiche ha carattere antropologico: coinvolge l’identità personale, le tradizioni famigliari e la conformità a determinate aspettative sociali. Vi rientrano la memoria storica e i riti e i miti connessi anche al tessuto associativo: dell’Unione Sovietica e della lotta partigiana, ad esempio, ma anche della messa, dell’oratorio parrocchiale e dell’Associazione cattolica. In particolare nel Veneto «bianco» e nelle regioni «rosse» dell’Italia centrale, le subculture sono state anche terreno fertile per la crescita di distretti di piccole e medie imprese industriali caratterizzati da rapporti di collaborazione fra imprenditori, sindacati e istituzioni locali.
Le subculture evocano l’epoca del «partito di massa», delle sue funzioni d’integrazione sociale, di mobilitazione politica e di ponte verso le istituzioni locali e nazionali dello Stato (capitalistico) per rappresentare e mediare diversi interessi di classe. Tuttavia, la tendenza alla disgregazione delle subculture era implicita nel successo dei «partiti di massa» e nella loro trasformazione in catch-all parties, già visibile nei primi anni ‘60.
Nel 1965, nel miglior momento «operaista» dei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri, Alberto Asor Rosa pubblicò Scrittori e popolo. Questo ampio studio sul populismo nella letteratura italiana contemporanea si apre con una definizione che appare in linea con le correnti analisi del populismo come fenomeno ideologico – o di ideologia debole – o stile o «significante vuoto» adattabile a ogni contenuto o strategia comunicativa: «perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello». Tuttavia, poche pagine dopo si legge una definizione più precisa di quel che Asor Rosa intendeva per populismo: «Il loro programma potrebbe essere riassunto nella formula: contro il grande capitale (quindi, spesso, anche contro la grande borghesia), in nome del popolo, contro ogni organizzazione autonoma della classe operaia»17. Ora, è interessante che questo concetto fu in effetti applicato dal critico letterario alla politica del Pci di Togliatti, tutta tesa a fare della lotta antifascista un fatto popolare e nazionale nel senso dell’alleanza fra classe dominata e borghesia progressista, ovvero orientata a controllare e canalizzare la lotta operaia negandone l’organizzazione autonoma18. In quel quadro si inserivano l’operazione togliattiana di mutilazione e reinterpretazione tutta in chiave nazional-popolare del pensiero di Gramsci, la mitizzazione del popolo e della Resistenza, «l’annullamento di quella linea divisoria che l’Ottocento aveva mantenuto in maniera abbastanza rigida tra il filone democratico e quello cristiano del nostro populismo»19. Insomma, Peppone e don Camillo non sono mai stati tanto distanti; e si coglie anche il presagio cattocomunista dello spirito dell’unità nazionale berlingueriana. Il gramscismo ulteriormente annacquato - mediato dall’ingraismo e dalle sue reincarnazioni nella sinistra post-Pci - e l’inconsapevole cattocomunismo continuano ad affliggere la sinistra italiana. Il «sovranismo» monetario e il nazionalismo antieuropeo sembrano l’eco distorta e abbruttita della «via nazionale al socialismo».
Il Pci è solitamente indicato come un esempio, se non come il modello, del partito di massa e con ideologia forte, opposto al modello del partito populista. Eppure, nonostante la formula concisa - e discutibile nella comparazione internazionale - ritengo che Asor Rosa fosse nel giusto. Nel peculiare miscuglio di populismo (nella base) e pseudopopulismo della linea togliattiana si esprimeva il fatto che il Pci tendesse a divenire o fosse già un partito pigliatutto, sia pure di tipo assai particolare a causa dell’origine nella Terza internazionale, dei rapporti con l’Unione Sovietica e dell’ideologia stalino-togliattiana che ne cementava l’organizzazione. E in questo risiede la specificità della vecchia subcultura comunista italiana.
Tuttavia, già negli anni ‘70 un populista autentico e viscerale come Pier Paolo Pasolini segnalava la tendenza all’omologazione e al venir meno della distinzione antropologica fra le subculture. Da questa prospettiva, la Seconda Repubblica segna certamente una discontinuità, ma gli attuali partiti pseudopopulisti devono comprendersi anche come un’evoluzione della logica elettoralistica del partito pigliatutto.
Il punto è importante perché gran parte del dramma della sinistra post-Pci è proprio quello della nostalgia nei confronti del Pci e dell’idealizzazione della «democrazia dei partiti», la stessa contro cui si levò il «lungo 1968» italiano fino al movimento del 1977 - l’ultimo movimento di massa radicale in Italia, contrastato con la massima violenza fisica e verbale dal Pci - e il perpetuarsi di una mentalità, sostanzialmente di matrice togliattiana, che fra alterne vicende e scissioni ha giustificato la collaborazione con il centro-sinistra in nome del «male minore» a fronte del «populismo autoritario» del centro-destra, fino al disastro dell’esperienza nel governo Prodi II (2006-2008). Non soltanto l’esperienza del Pci è storicamente irripetibile: essa è politicamente improponibile se si intende formare una corrente anticapitalistica e antiburocratica nel XXI secolo.
Quanto alla subcultura del Pci, i suoi echi si colgono ancora: ma non si devono confondere i risultati elettorali del Pd nelle regioni «rosse» con la subcultura comunista di un tempo. Il termine «democratico» nella denominazione dei partiti sorti dal Pci (Pds-Ds-Pd) si è sempre più esplicitamente riferito all’esempio del Partito democratico di Bill Clinton, qualcosa d’inconcepibile per un vecchio comunista cresciuto nel mito sovietico. Per quanto fossero rimandate a un futuro indeterminato, il popolo del Pci nutriva aspirazioni socialistiche (una minaccia latente per il sistema). Il «popolo delle primarie» del Pd sarà pure - moderatamente – progressista su certi temi «civili», ma alla fine ha scelto il giovane democristiano Matteo Renzi, «rottamatore» della dirigenza proveniente dal Pci. Un epilogo paradossale, ma che ha una sua logica.
Già nella seconda metà degli anni ‘80 la crescita dell’autonomismo in Veneto - regione di piccole imprese - e il successo della Lega lombarda di Umberto Bossi manifestavano la crisi della subcultura democristiana20. Nelle aree dove il bianco della Dc si è mutato in verde la subcultura territoriale non è scomparsa, ma ha mutato di significato: da contenitore di una subcultura nazionale – ma ideologicamente mondiale - il territorio è divenuto un contenuto, un valore in sé, costruito con l’invenzione di una pseudotradizione «nazionale» e di uno pseudopopolo «padano» in termini escludenti e in antitesi al centralismo assistenzialista di Roma «ladrona». Anche più di FI, il leghismo esprime il peculiare peso che hanno in Italia - relativamente ad altri paesi a capitalismo avanzato - il lavoro autonomo, l’artigianato, le piccole imprese e l’evasione fiscale.
Ma la ragione dell’esistenza della LN è un’altra peculiarità nazionale: la non risoluzione della dialettica di sviluppo e sottosviluppo fra Nord e Sud, lo sviluppo ineguale e combinato della formazione sociale e statale italiana.
Per quasi un secolo e per tutta la Prima Repubblica si poneva il dramma della questione meridionale e della sovrappopolazione relativa, che alimentava di braccia l’industrializzazione settentrionale riproducendo la povertà dei meridionali. Problema affrontato a suo modo dalla Dc con la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno e gli investimenti pubblici. È un fatto di enorme portata storica che nel dibattito politico della Seconda Repubblica la «questione meridionale» e l’interventismo statale nel Mezzogiorno siano stati sostituiti dalla «questione settentrionale» - di un Nord che si dice «sfruttato» - e da un federalismo liberista che, di fatto, aggrava il divario fra Nord e Sud. Di questo la LN è stata l’avanguardia, ma non l’unico autore: non sarebbe accaduto se l’intero sistema dei partiti non si fosse spostato verso il liberismo. La LN è protezionista nei confronti della concorrenza economica internazionale ma, al contrario del vero populismo, è liberista all’interno della sua nazione: uno pseudopopulismo elevato al quadrato. Tuttavia, esso è molto diverso da quello di FI: nazionalismo «padano» e xenofobia conferiscono allo pseudopopulismo della LN un carattere più militante e relativamente più strutturato. Questa è la ragione della sopravvivenza della LN alla morte politica (in seguito a inchieste giudiziarie) del suo leader fondatore; FI invece deve ancora risolvere il problema della successione al Capo.
Potenzialmente, la LN potrebbe porsi in una posizione antagonistica nei confronti di tutti i partiti «romani» per sostenere i superiori interessi della «Padania», in una logica coerentemente nazionalistica che potrebbe considerarsi come una forma di bonapartismo. Si tratta di una carta che la LN ha giocato per distinguersi come partito «di lotta» oltre che di governo, ma solo come espediente tattico e temporaneo, anche per placare le tensioni nel «popolo» leghista conseguenti alla partecipazione del partito ai giochi e ai compromessi della politica «romana». Tuttavia, nel Nord non esiste un autentico movimento popolare nazionalista e la LN è strategicamente legata al centro-destra.
Una sinistra anticapitalista dovrebbe porre al centro della sua analisi e della sua proposta non il nazionalismo antieuropeista e nazional-monetario, ma la prima questione nazionale italiana: quella meridionale nei suoi nuovi termini, che è anche la questione del capitalismo italiano.
Infine, nella politica dei comuni e delle regioni si vede un fenomeno di territorializzazione pseudopopulista della politica: la riforma del 1993, che introdusse l’elezione diretta dei sindaci, conferì loro una legittimazione popolare e un potere di tipo presidenziale favorevole alla personalizzazione in nome dell’efficiente amministrazione del territorio. Per questo la scena politica delle grandi città e delle regioni è diventata anche un ottimo trampolino per lanciarsi nella politica nazionale, in particolare per il centro-sinistra: è il caso di Francesco Rutelli, sindaco di Roma nel 1993-2001 e posto a capo della coalizione di centro-sinistra nel 2001; del sindaco di Bari, Michele Emiliano (2004-2014), governatore della regione Puglia e noto esponente del Pd; del suo predecessore nel ruolo di governatore pugliese, Nichi Vendola (2005-2015); del sindaco di Firenze, Matteo Renzi (2009-2014).
5. Regime berlusconiano o postdemocrazia bipolare?
Fin dalla «discesa in campo» di Berlusconi, la principale preoccupazione della sinistra fu la possibilità che si formasse un nuovo regime berlusconiano o di «populismo autoritario». Non mancavano le analogie fra gli intenti di Berlusconi e il regime populista e bonapartista di Perón: tuttavia, più come evocazione di uno spauracchio che nella forma di un confronto ben informato. Ciò è palese quando si confrontino le politiche economiche e sociali del populismo e dei partiti della postdemocrazia.
Un esempio illustre che mi piace citare è quello dello storico Nicola Tranfaglia, che con tanti altri ritenne - in modo del tutto errato - che l’affinità tra Perón e Berlusconi fosse tanto pertinente da temere che gli italiani possano essere «costretti a sopportare ancora per molti anni l’egemonia trionfante dell’erede (peggiorato) di Perón nel nostro Paese»; tuttavia, precisò poi che «quello che differenzia il populismo berlusconiano rispetto agli esempi latinoamericani è la politica economica a cui si ispira la coalizione di centro-destra»21.
Al che chiedo: ma la politica economica non è l’espressione condensata dei rapporti di forza tra le classi sociali? Non è anche il risultato di un determinato disegno politico? Non è da rapportarsi a specifici assetti istituzionali, alla formazione e ristrutturazione di apparati amministrativi, ad una forma storica specifica dello Stato e del regime politico? Come è possibile separare il populismo politico dalla politica economica e sociale e dalle relazioni industriali dello stesso regime populista? Specialmente a un marxista dovrebbe essere chiaro che non è possibile. E dovrebbe quindi risultare chiaro - al di là del giudizio sul populismo autentico, che comunque non si riduce affatto a Perón - che è infondata l’analogia con partiti e movimenti cosiddetti populisti dell’Europa contemporanea.
Berlusconi avrebbe voluto essere il Reagan - non il Perón - italiano, ma il suo primo governo durò solo otto mesi (dal maggio al dicembre 1994); dal 1995 al 2001 il centro-sinistra governò invece per cinque anni (o sei, considerando che era il principale sostegno del governo «tecnico» di Dini, ex ministro del Tesoro di Berlusconi), anche con l’appoggio di partiti ed esponenti «comunisti» e dei Verdi. E fra 2006 e 2017 il centro-sinistra ha governato nel complesso più a lungo del centro-destra.
Ebbene, la periodizzazione ci dice che nell’ultima decade del secolo scorso fu il centro-sinistra, non il centro-destra, a realizzare le più importanti (contro)riforme dette liberistiche: dal più grande processo di privatizzazioni dell’industria, delle banche e dei servizi pubblici nei Paesi a capitalismo avanzato alla manovra di convergenza sui parametri di Maastricht, con quel che comportò quanto a livelli di disoccupazione, relazioni industriali e riforma delle pensioni. Fu il centro-sinistra a introdurre nuove tipologie di contratti di impiego (il «pacchetto Treu», 1997) - destinate a diventare la norma - che hanno precarizzato il lavoro, specialmente dei giovani. Né si può cogliere una differenza sostanziale tra le due coalizioni nella logica della legislazione sociale. Ad esempio, non per quanto riguarda la riforma dell’istruzione né per la gestione dell’immigrazione: fu il centro-sinistra a istituire i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la legge Turco-Napolitano del 1998. Dal punto di vista del capitale - nazionale e internazionale - il centro-sinistra ha insuperabili meriti storici.
Quel che può sembrare un paradosso si spiega col fatto che la mutazione del Pci avvenne quando la socialdemocrazia aveva già abbandonato le tradizionali posizioni «keynesiane» a favore di quel che fu poi teorizzato come the Third Way/die neue Mitte da Tony Blair e Gerhard Schröder.
Questa assumeva la stabilità e l’efficienza del mercato; una politica macroeconomica orientata alla lotta all’inflazione e alla riduzione del debito pubblico, non all’obiettivo della piena occupazione; la flessibilità salariale e nell’organizzazione del lavoro è esaltata, perché occorre mantenere un tasso di disoccupazione tale che non acceleri l’inflazione22. La «terza via» non è un fondamentalismo del mercato, ma sicuramente rompe con la tradizione socialdemocratica: l’intervento pubblico è ammesso a fronte di «fallimenti del mercato» e di «esternalità negative»; e al principio della riduzione della diseguaglianza sociale si oppone quello dell’eguaglianza delle opportunità. Ma la pratica è stata anche peggiore della teoria.
Inserendosi nel processo di trasformazione della sinistra europea, il Pci passò direttamente dalla tradizione statalista del riformismo togliattiano al social-liberismo, saltando uno stadio che possa dirsi socialdemocratico nel senso classico. Il social-liberismo del Pds-Ds-Pd non è identico al neoliberismo del centro-destra, ma si tratta di prospettive che convergono nei risultati. Secondo il centro-sinistra, la ri-regolazione del mercato del lavoro secondo criteri di flessibilità salariale e occupazionale dovrebbe beneficiare i lavoratori. Tuttavia, il capitalismo italiano è ormai da decenni su una traiettoria declinante nei settori tecnologicamente più innovativi e dalla domanda più dinamica, con importanti economie di scala. La compressione della domanda interna e della spesa pubblica hanno accresciuto l’importanza dei mercati esteri, ma con l’impossibilità di svalutare e la ridotta crescita dell’investimento e della produttività - in gran parte conseguenti alle privatizzazioni - diminuisce anche la competitività. Un circolo vizioso. Il punto di forza del Pds-Ds-Pd è che ha potuto gestire meglio del centro-destra queste contraddizioni grazie alla moderazione dei maggiori apparati sindacali. Per esempio: l’attacco berlusconiano all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (sui licenziamenti per «giusta causa») causò grandi proteste; l’operazione è invece riuscita al governo «tecnico» di Monti e a quello Pd di Renzi. D’altra parte, Berlusconi è stato accusato dai liberali più lucidi - ad esempio da The Economist, in modo insolitamente mordace - d’essere troppo occupato a proteggere se stesso, maldestro nell’azione di governo, polemico con le istituzioni europee e alleato di un partito euroscettico (la LN). Dal punto di vista del lavoro, il centro-destra ha rigirato il coltello in ferite già aperte.
Quanto alla macroeconomia dei regimi populisti storici, essa era espressione di un’instabile alleanza tra frazioni di classi - la dominante e quelle dominate - con l’obiettivo di rompere i vincoli della dipendenza economica e di promuovere lo sviluppo del capitalismo nazionale. Ne conseguivano politiche di sostituzione delle importazioni, di nazionalizzazione, di assistenza sociale e di sindacalizzazione burocratica, da cui derivavano contrasti con l’imperialismo e i suoi alleati interni, in particolare nei tradizionali settori esportatori. Di qui le lotte nell’alleanza populista e le contraddizioni dei regimi, spesso spezzati da un colpo di Stato militare sostenuto dall’imperialismo. Teoricamente, il populismo latinoamericano è associabile allo strutturalismo economico di Celso Furtado e Raúl Prebisch e alla Cepal delle Nazioni Unite: una prospettiva alternativa sia al neoliberismo che al social-liberismo della «terza via». Politicamente, il bonapartismo dei regimi populisti esprime una contraddizione interna all’economia mondiale capitalistica: quella fra dipendenza internazionale dai centri imperialisti e aspirazioni di sviluppo della borghesia nazionale.
E dovrebbe esser chiaro che, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, il nazionalismo economico del populismo è cosa qualitativamente diversa da quel presunto populismo che privatizza servizi e industrie statali, deregolamenta il mercato del lavoro e liberalizza il sistema finanziario. Il Washington consensus fu appunto concepito per smantellare il nazionalismo populista latinoamericano. Il populismo è assai poco liberale, ma sicuramente non è liberista; e malgrado le uscite retoriche sulle istituzioni europee, Forza Italia e Lega Nord sono invece partiti ultraliberisti, almeno per quanto riguarda lavoratori salariati e diritti sociali.
La postdemocrazia neo e social-liberista esprime invece la volontaria incorporazione nella politica degli interessi immediati del capitale - interno e internazionale - in un contesto di intensificata concorrenza mondiale, instabilità finanziaria e squilibrio tra domanda - alimentata da bolle speculative negli Stati Uniti - e offerta mondiale. Per il controllo disciplinare della classe dominata usa come strumenti i vincoli alla spesa pubblica, la mercificazione dell’erogazione dei servizi, le privatizzazioni e la subordinazione della crescita della domanda aggregata e della stabilità dell’occupazione al contenimento dell’inflazione e del costo del lavoro.
Riprendendo un’analisi di Mark Blyth e Richard S. Katz23 si possono così stilizzare due epoche della politica economica dal punto di vista del funzionamento del sistema dei partiti. Nel modello del partito pigliatutto teorizzato da Otto Kirchheimer24 già nei primi anni ‘60 erano presenti gli elementi che solitamente confluiscono nella definizione corrente del populismo, idealmente completata dall’assunzione del popolo come modello di virtù opposto alla corruzione della politica e alla costruzione della dicotomia fra un «Noi» e un «Loro»:
- la riduzione del bagaglio ideologico;
- la convergenza sulle questioni fondamentali della politica economica e sociale;
- il ridimensionamento - se non l’abbandono - del riferimento a una specifica classe sociale o clientela culturale;
- la concentrazione del potere nelle mani dei leader del partito;
- la centralità dell’immagine del leader e delle sue capacità comunicative;
- la spettacolarizzazione della politica e la personalizzazione drammatizzante della competizione, esaltate dall’importanza e dal format dei programmi televisivi;
- il ricorso a tecniche di marketing per definire il prodotto da vendere agli elettori e l’importanza della politica simbolica;
- il ridimensionamento degli apparati del partito, come del ruolo e del peso degli iscritti;
- la parallela riduzione della partecipazione elettorale.
Il richiamo della concettualizzazione di Kirchheimer e il confronto con l’autentico populismo storico dovrebbe essere utile a chiarire che in Italia non abbiamo a che fare con partiti populisti ma con lo pseudopopulismo, fenomeno qualitativamente diverso.
Schematicamente, la grande differenza tra i partiti pigliatutto e i partiti pseudopopulisti della postdemocrazia contemporanea è che per estendere il proprio mercato elettorale i primi reagivano a domande sociali in espansione con la distribuzione di risorse crescenti o con la promessa di farlo; pure per questo erano importanti i rapporti con associazioni fiancheggiatrici che organizzavano categorie sociali, anche delle classi subalterne: sindacati, cooperative e agricoltori. Nel sistema postdemocratico e liberista del cartel party, invece, i partiti riducono l’offerta di servizi pubblici e la spesa sociale, compensando con politiche simboliche poco costose l’azione di riduzione delle aspettative e di stretta selezione delle domande sociali. Agiscono come imprese oligopolistiche, partiti-cartello.
Concretamente, ciò può essere spiegato in relazione ai rapporti di forza tra le classi - ora decisamente sbilanciati a vantaggio del capitale - e alle trasformazioni dell’economia mondiale, quel che si suole designare come globalizzazione. A loro volta, questo insieme di cambiamenti - per ciascun paese diversi nei tempi e nei modi - ha portato all’avvento delle politiche neoliberiste e social-liberiste (del tipo della «terza via»). In breve: si tratta della compiuta riduzione della democrazia a procedura di scelta fra i candidati di diverse fazioni di un’unica élite politica.
Questa prospettiva implica trasformazioni delle funzioni dei partiti, della definizione del popolo e dei termini della legittimazione politica. Non si tratta più di rappresentare e mediare gli interessi di una classe (per la sinistra) o di categorie sociali e culturali, ma di proporre «soluzioni» sulla base di criteri «oggettivi» nel presunto interesse della nazione come impresa economica25. Una logica a cui non si sottrae neanche il sovranismo nazional-monetario di sinistra, che antepone in modo velleitario la «soluzione nazionale» alla realtà dei rapporti di forza tra le classi e al compito prioritario di contribuire al conflitto sociale e alla lotta contro partiti e governi postdemocratici secondo obiettivi autonomamente elaborati da movimenti reali.
L’appello elettorale dei partiti pseudopopulisti è rivolto a un popolo che non presenta fratture di classe, ma «problemi» individuali. Ad esempio, la polarizzazione pro o contro Berlusconi non si deve al fatto che i partiti si richiamino a classi o categorie sociali diverse, e neanche alla divisione fra destra e sinistra in senso proprio. Il popolo elettorale di centro-sinistra ha contorni confusi, avendo coalizzato social-liberisti, democristiani, liberali, tecnocrati, comunisti, verdi, regionalisti e perfino micropartiti nati da scissioni della LN (nelle politiche del 2006); dei governi di Renzi e Gentiloni è stato ministro l’ex segretario del Pdl e successore designato di Berlusconi, Angelino Alfano.
Quanto alle funzioni del partito, quella di governo prevale decisamente sulla funzione di rappresentanza; conseguentemente, decade la necessità di un partito strutturato e ben radicato nel territorio. Non solo gli iscritti si riducono spontaneamente, ma la militanza è in gran parte sostituita deliberatamente da sondaggi e tecniche di marketing affidate a ditte specializzate e dalla centralità della costruzione dell’immagine del leader fondatore (Berlusconi, Bossi e altri) o consacrato dal popolo con elezioni primarie aperte (per il Pd). Il M5S si rivolge direttamente al popolo degli elettori atomizzati attraverso la televisione, il Web e i social networks.
Octavio Ianni definì la differenza tra la politica economica del populismo brasiliano e quella dei generali golpisti come contrasto fra sviluppo (nazionale) e modernizzazione (dipendente)26; Stuart Hall caratterizzò la politica della signora Thatcher come «populismo autoritario» e «modernizzazione regressiva»27. In Italia non abbiamo avuto un regime «populista» berlusconiano, ma insieme una «modernizzazione regressiva» e una postdemocrazia strutturata intorno a due poli - neo e social-liberista - in competizione e in osmosi, e quattro importanti forme differenti di pseudopopulismo (FI, LN, Pd e M5S), più diverse varianti minori.
Mentre le politiche economiche e sociali dei governi convergono nell’esaltazione del libero mercato - ma con diversa coerenza a seconda che si tratti degli interessi dei lavoratori o delle banche - i partiti cooperano ad accrescere i poteri del governo e a distanziare le istituzioni che si dicono rappresentative dalle pressioni popolari.
Lo pseudopopulismo è la manifestazione di un processo di trasformazione della statualità e della politica in direzione autoritaria già colto e teorizzato in diversi modi a cavaliere degli anni ‘70 e ‘80 da diversi studiosi - ad esempio da Nicos Poulantzas, Alan Wolfe e Claus Offe, in Italia da Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo28 - ma anche auspicato dalle note tesi del rapporto sulla governabilità delle democrazie scritto per la Commissione Trilaterale, nel 1975.
Quindi, lo pseudopopulismo ha carattere sistemico ed esprime la natura e le interne contraddizioni di quella che Colin Crouch ha definito postdemocrazia29. Tratti caratteristici della postdemocrazia sono la convergenza dei partiti di destra e sinistra sulle questioni fondamentali della politica economica e sociale e il declino dei diritti sociali in nome della competitività e delle compatibilità finanziarie; l’ulteriore concentrazione del potere nell’esecutivo; la compiuta riduzione della democrazia a procedura di scelta fra i candidati di diverse fazioni di un’unica élite politica; la centralizzazione ulteriore del potere nelle mani dei leader del partito; la personalizzazione drammatizzante della competizione politica; l’uso massiccio della televisione – un mezzo che, a sua volta, promuove la personalizzazione e la drammatizzazione; il conseguente ridimensionamento degli apparati del partito, come del ruolo e del peso degli iscritti; la crescita dell’astensionismo.
Tutti questi aspetti si ritrovano anche nella politica italiana, ma l’Italia - è vero - rimane un caso particolare, si potrebbe dire «all’avanguardia» nel dispiegarsi dello pseudopopulismo postdemocratico e delle sue contraddizioni.
6. Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano e la postdemocrazia nazionale
Nonostante le differenze, esiste un concetto che può applicarsi sia ai populismi storici e latinoamericani che alla situazione italiana per comprendere la condizione strutturale per cui in Italia lo pseudopopulismo sia così forte e variegato relativamente ad altri paesi europei a capitalismo avanzato. Si tratta del concetto di sviluppo ineguale e combinato.
Strutturalmente, si può dire che il populismo sia tipico di paesi che sono inglobati nell’economia mondiale in una posizione dipendente, relativamente sottosviluppata dal punto di vista capitalistico e che emerga in congiunture in cui le contraddizioni della modernizzazione capitalistica della società periferica si fanno più acute. Ebbene, l’Italia è un Paese a capitalismo avanzato, ma per molti aspetti il suo capitalismo è relativamente arretrato rispetto ad altri paesi europei.
Allo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano nel suo complesso nell’economia mondiale corrisponde lo sviluppo ineguale e combinato interno alla stessa formazione sociale italiana. Si tratta di un complesso di fatti spesso presentati, nella logica della teoria della modernizzazione per stadi o del riformismo di sinistra, come «tare» dell’arretratezza, ma che in effetti sono la forma specifica dello sviluppo capitalistico italiano a partire dall’unificazione statale del Paese: il Risorgimento.
Innanzitutto, abbiamo lo squilibrio tra il Nord e il Mezzogiorno. Le partecipazioni statali e l’intervento straordinario per il Mezzogiorno sono stati strumenti non solo del potere democristiano, ma anche della stabilizzazione sociale, di grandi affari per le imprese e della regolazione dei flussi migratori che hanno alimentato il «miracolo italiano».
E poi - con cambiamenti che non rovesciano il quadro - abbiamo i dualismi intersettoriali e infrasettoriali, l’alto peso specifico della piccola borghesia tradizionale, del piccolo commercio e della piccola proprietà, la struttura proprietaria famigliare dei grandi gruppi, le risorse umane «congelate» nella bassa produttività e nella disoccupazione nascosta in agricoltura, il tasso basso della popolazione attiva, il dualismo fra consumo pubblico e consumo privato e servizi sociali e amministrazione pubblica poco efficiente30. Insomma, una serie di contraddizioni secolari in cui l’arretratezza si combina con lo sviluppo ed è funzionale alla riproduzione di un determinato tipo di modello sociale.
Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano è fra i motivi della cronica distanza tra «Paese legale» e «Paese reale», del difetto di egemonia culturale borghese, delle dimensioni dell’organizzazione e della subcultura del Pci, dell’esplosione della conflittualità nel 1968-1969…
Si tratta di problemi secolari, ma che pur trasformati continuano a influire sulla vita quotidiana e la politica. Sono la ragione per cui, se postdemocrazia e pseudopopulismo sono fenomeni strutturali internazionali, in Italia hanno forma e sostanza più intense e perverse che in altri paesi.
7. Sintesi parziale: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente
La grande illusione della politica italiana è che i problemi della nostra società siano principalmente di natura politica o generati dalla politica: statalismo, assistenzialismo, clientelismo, corruzione, elitarismo e via elencando.
L’illusione non è soltanto al centro e a destra: è anche a sinistra. Forse specialmente a sinistra, nonostante la retorica sui diritti sociali e l’insistenza su un modello alternativo al neoliberismo, perché dentro quella retorica c’è l’idea che i drammi sociali si possano affrontare condizionando «da sinistra» il quadro politico. Concretamente, questo ha significato avere il centro-sinistra come punto di riferimento: le differenze tra Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi sono state solo di tattica, non strategiche. Divergenze e scissioni hanno sempre ruotato intorno alle questioni dell’opportunità o meno - in un dato momento - di fare cartello elettorale e di partecipare a maggioranze di governo - locali e nazionali - con il centro-sinistra. Il tutto rafforzato dalla «narrazione drammatizzante» circa il rischio di un regime berlusconiano e del «populismo autoritario». Non credo proprio che l’illusione sia tramontata. Essa continua a vivere nell’ansia di costruire un «soggetto» che possa avere un buon risultato alle elezioni; il tutto condito non più dalla velleitaria pretesa di «far da ponte tra Piazza e Palazzo», ma dall’ancor più velleitaria speranza che la rappresentanza parlamentare in regime postdemocratico serva a qualcosa.
Detto in poche parole, quel che l’illusione politicista impediva di prendere sul serio - o proprio di vedere - è che i problemi della società italiana sono il prodotto del capitalismo italiano e della sua posizione nelle diverse configurazioni storiche dell’economia mondiale, e che la ristrutturazione del sistema politico italiano è parte di una trasformazione internazionale dei sistemi di partito e dei regimi politici. Non che manchino corrette analisi parziali: del resto, non è difficile criticare il neoliberismo, la destra e la globalizzazione neoliberista. Le questioni cruciali sono: da una parte, un’analisi semplicistica, dall’altra - ancor più grave - l’incoerenza politica. Perché, ad esempio, se si denuncia la globalizzazione neoliberista come fatto «epocale» che tende a omogeneizzare verso il basso le condizioni di vita e di lavoro e a ridimensionare drasticamente la sovranità nazionale e popolare, allora bisognerebbe assumere come nemici politici quei partiti che della suddetta globalizzazione si fanno agenti. In Italia questo significava anche - se non principalmente - il centro-sinistra, non solo il centro-destra. Si è puntato il dito verso il trasformismo berlusconiano, ma non si è voluto vedere - o trarne la logica implicazione politica - la trasformazione del mutante del Pci in agente della postdemocrazia e dell’imperialismo italiano. È stato denunciato il «populismo autoritario» di Berlusconi e il pericolo di una sua egemonia, ma non lo pseudopopulismo del centro-sinistra e il suo indispensabile contributo alla costruzione di un regime postdemocratico.
Nel suo piccolo - che tanto piccolo non era, visto che nel 2006 riuscì a far eleggere la bellezza di 110 forchettoni rossi nel centro-sinistra - la cosiddetta «sinistra radicale» italiana ha fatto da stampella al centro-sinistra e quindi alla postdemocrazia31. Di questo hanno preso atto gli elettori che l’hanno abbandonata in massa: una catastrofe meritata e, come si diceva, «che viene da lontano».
Il risultato è stato il rapido successo di una rivolta elettoralistica e pseudopopulista contro i pilastri della postdemocrazia, espressasi nel voto per il Movimento 5 Stelle.
La nausea nei confronti dell’opportunismo trasformista è una delle principali ragioni di quella che impropriamente e con fuorviante connotazione moralistica si usa definire «antipolitica». Tuttavia, se la politica nel suo senso più alto è il confronto e lo scontro fra modelli alternativi di società - o almeno tra proposte di politica economica, sociale e culturale che siano fra loro qualitativamente alternative, pur nel quadro della società capitalistica - ad essere antipolitici sono in realtà i partiti di governo, sia di centro-destra che di centro-sinistra, i cui obiettivi programmatici sono sostanzialmente convergenti nei campi delle politiche economiche e sociali e della politica estera. E questa è anche la ragione della popolarità di Grillo e dello spettacolare successo del M5S. Ma il trasformismo coinvolge ora anche il «partito non-partito» di Grillo, visto sempre più come nuovo veicolo per iniziare dal nulla una carriera politica.
E i fatti dimostrano inequivocabilmente che non basta appellarsi per via elettorale al potere al popolo per dar vita a un populismo degno di questo nome. Ripeto ancora una volta: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente.
1 Giosuè Carducci, «Libertas», Don Chisciotte, 4 gennaio 1883.
2 Massimo L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, il Mulino, Bologna 1994.
3 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, Einaudi, Torino 1975, p. 962.
4 Perry Anderson, L’Italia dopo l’Italia. Verso la Terza Repubblica, Castelvecchi, Roma 2014; la tesi di Anderson è nel capitolo sull’Italia del suo The new old world, Verso, London/New York 2009, p. 323.
5 Cfr. Renato Mannheimer, «Le elezioni del 2001 e la “mobilitazione drammatizzante”», in Dall’Ulivo al governo Berlusconi. Le elezioni del 13 maggio 2001 e il sistema politico italiano, a cura di Gianfranco Pasquino, il Mulino, Bologna 2002; Paolo Mancini, «The Italian public sphere: a case of dramatized polarization», Journal of Modern Italian Studies, vol. 18, n. 3, 2013.
6 Massimo D’Alema, Un Paese normale. La sinistra e il futuro dell’Italia, Mondadori, Milano 1995.
7 Discorso intitolato «Per il mio Paese», in L’Italia che ho in mente. I discorsi “a braccio” di Silvio Berlusconi, Mondadori, Milano 2001, pp. 273-6. Tranne diversa indicazione, tutte le citazioni di Berlusconi si riferiscono a questo discorso.
8 Jonathan Hopkin-Caterina Paolucci, «The business firm model of party organisation: cases from Spain and Italy», European Journal of Political Research, vol. 35, n. 3, 1999; Mauro Calise, «The personal party: an analytical framework», Italian Political Science Review / Rivista Italiana di Scienza Politica, vol. 45, n. 3, 2015.
Su Forza Italia e il Pdl: Patrick McCarthy, «Forza Italia: nascita e sviluppo di un partito virtuale», in Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni (edizione 1995), a cura di Piero Ignazi e Richard S. Katz, il Mulino, Bologna 1995; Emanuela Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna 2001; Paul Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003; Caterina Paolucci, «Forza Italia», in I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, a cura di Luciano Bardi, Piero Ignazi e Oreste Massari, Università Bocconi editore, Milano 2007; Id., «From Democrazia Cristiana to Forza Italia and the Popolo della Libertà: partisan change in Italy», Modern Italy, vol. 13, n. 4, 2008; Chiara Moroni, Da Forza Italia al Popolo della libertà, Carocci, Roma 2008; Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, a cura di Paul Ginsborg ed Enrica Asquer, Laterza, Roma/Bari 2011; Piero Ignazi, Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo, il Mulino, Bologna 2014.
Come introduzioni al populismo in Italia segnalo solo pochi testi complessivi che ritengo di particolare interesse: Alfio Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2000; Id., La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2005; Marco Tarchi, «Populism Italian style», in Democracies and the populist challenge, a cura di Yves Mény e Yves Surel, Palgrave, Basingstoke/New York 2002; Id., «Italy: a country of many populisms», in Twenty-first century populism: the spectre of Western European democracy, a cura di Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell, Palgrave Macmillan, Houndmills/New York 2008; Id., Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, il Mulino, Bologna 2015; Id., «Italy: the promised land of populism?», Contemporary Italian Politics, vol. 7, n. 3, 2015; Roberto Biorcio, Il populismo nella politica italiana. Da Bossi a Berlusconi, da Grillo a Renzi, Mimesis, Milano/Udine 2015; Fabio Bordignon, Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2014.
9 Silvio Berlusconi, «Decennale della caduta del Muro di Berlino», Roma, Palazzo dei Congressi, 9 novembre 1999, in L’Italia che ho in mente. I discorsi “a braccio” di Silvio Berlusconi, cit., p. 64.
10 Chiara Moroni, Da Forza Italia al Popolo della libertà, cit., p. 163 (corsivo mio).
11 Marco D’Eramo, «Populism and the new oligarchy», New Left Review, II/82, 2013. Mi permetto di rimandare anche ai miei Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012, «Pseudopopulismo e stile paranoide in politica», Utopia Rossa, 3 agosto 2017 e «Postdemocrazia, pseudopopulismo e la trappola dell’antipopulismo», Utopia Rossa, 14 gennaio 2018.
12 Roberto Massari, Problemi della Rivoluzione portoghese, Controcorrente, Roma 1976.
13 Istat, «Tavola 10.22 - Conflitti di lavoro, lavoratori partecipanti e ore non lavorate per settore di attività economica - Anni 1949-2009»; per gli anni 1946-1988 si veda il «Grafico n. 42» in Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, p. 602. Tra 1948 e 1956: 80 lavoratori uccisi, 5.746 feriti, 69 mila arrestati, con un totale di 22.538 anni di prigione; VIII Congresso nazionale del Partito comunista italiano, Forza e attività del partito. Dati statistici, documenti per i delegati, Roma 1956. La maggior parte delle vittime e dei condannati erano comunisti.
14 È opportuna una precisazione circa il consenso reale dei partiti pseudopopulisti, in particolare di FI-Pdl e della LN. Con rarissime eccezioni, il consenso elettorale è solitamente espresso sulla base delle percentuali calcolate sui voti validi. Questo metodo è una buona approssimazione del consenso quando il tasso di partecipazione alle elezioni si attesta intorno al 90% o più, come è stato a lungo in Italia; ma quando l’astensionismo cresce e il tasso di partecipazione cade all’80% o meno - un fenomeno iniziato nel 1979 e che ha avuto impennate nelle elezioni politiche di 1996, 2008 e 2013 - l’immagine dell’opinione pubblica che si può ricavare dai risultati elettorali ne risulta deformata. Questo è quanto accaduto in Italia, con gravi implicazioni sul piano politico specialmente a sinistra, quando si parlava di «egemonia» o «regime» berlusconiano. Se si calcola il consenso elettorale sul totale dei cittadini con diritto di voto (adv) invece che sui soli voti validi, si vedrà allora che nel 1987 la Dc aveva il consenso del 29% degli adv (13 milioni di voti) e il Pci del 22% (10 milioni di voti). Nel 1994 il consenso per Berlusconi fu di 8 milioni di voti, il 17% degli adv. Il miglior risultato conseguito da FI fu nel 2001, col 22% degli adv (11 milioni di voti); nel 2008 il nuovo Pdl, risultato della fusione di FI e An, ottenne 13,6 milioni di voti, risultato pari al 29% degli adv e di poco inferiore a quelli di FI e An nel 2006 (anno di forte crescita dell’astensionismo). Il massimo successo elettorale della LN fu nel 1992, con 3,3 milioni di voti, pari al 7% degli adv; negli anni seguenti i voti per la LN si dimezzarono, risalendo a 3 milioni nel 2008 per dimezzarsi nuovamente nel 2013. Nel 2008 l’intera coalizione di centro-sinistra ottenne 13 milioni di voti e 17 milioni la coalizione di centro-destra; nel 2013, rispettivamente 10 e 9,9 milioni di voti (il 21% degli adv); il M5S di Grillo, 8,6 milioni di voti, il 18,5% degli adv. Soltanto nel 2008 il centro-destra si è avvicinato ai risultati della Dc nella sua fase discendente, per poi essere travolto - insieme al Pd - dal M5S.
15 Margaret Canovan, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982.
16 Sulla questione delle subculture si veda la discussione in La politica e le radici, a cura di Carlo Baccetti, Silvia Bolgherini, Renato D’Amico e Gianni Riccamboni, Liviana, Novara 2010: Ilvo Diamanti, «Le subculture territoriali sono finite. Quindi (r)esistono» e Antonio Floridia, «Le subculture politiche territoriali in Italia: epilogo o mutamento?».
17 Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1976 (1ª ed. 1965), pp. 13 e 17 (corsivo mio).
18 Si leggano in particolare le pp. 153-64 del capitolo «La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo».
19 Alberto Asor Rosa, op. cit., p. 162.
20 Sulla LN: Laura Balbo-Luigi Manconi, I razzismi possibili, Feltrinelli, Milano 1990; Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993; Id., «La Lega, imprenditore politico della crisi. Origini, crescita e successo delle leghe autonomiste in Italia», Meridiana, n. 16, 1993; Id., Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma 1996; Id., Mappe dell’Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro… e tricolore, il Mulino, Bologna 2009; Lorella Cedroni, «Lega Nord», in I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, cit.; Roberto Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma/Bari, 2010.
21 Nicola Tranfaglia, Il populismo autoritario. Autobiografia di una nazione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010, pp. 138 e 94 (corsivo mio).
22 Sul Pds-Ds-Pd: Carlo Baccetti, Il Pds. Verso un nuovo modello di partito?, il Mulino, Bologna 1997; Paolo Bellucci-Marco Maraffi-Paolo Segatti, Pci, Pds, Ds. La trasformazione dell’identità politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; Roberto De Rosa, «Partito democratico della sinistra - Democratici di sinistra», in I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, cit.; Duccio Tronci, Chi comanda Firenze. La metamorfosi dei poteri e i suoi retroscena attraverso la figura di Matteo Renzi, Castelvecchi, Roma 2013; Michele Prospero, Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux, Roma 2015.
Sulla «terza via» come fenomeno internazionale: Philip Arestis-Malcolm C. Sawyer (a cura di), The economics of the Third Way: experiences from around the world, Edward Elgar, Cheltenham (UK)/Northampton (US) 2001, con un capitolo sull’Italia di Augusto Graziani. Per la questione più ampia: Gerassimos Moschonas, In the name of social democracy: the great transformation, 1945 to the present, Verso, London/New York 2002. Su neoliberismo e social-liberismo nella crisi globale: Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, entrambi per Asterios, Trieste 2012.
23 Mark Blyth-Richard S. Katz, «From catch-all politics to cartelisation: the political economy of the cartel party», West European Politics, vol. 28, n. 1, 2005. Sui partiti, il partito-cartello e i sistemi di partito: Peter Mair, Ruling the void: the hollowing of Western democracy, Verso, London/New York 2013 [Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016]; Id., «Ruling the void? The hollowing of Western democracy», New Left Review, II/42, 2006.
24 Otto Kirchheimer, «La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale», in Sociologia dei partiti politici, a cura di Giordano Sivini, il Mulino, Bologna 1971.
25 Questo è il senso dello pseudopopulismo o di ciò che Peter Mair definisce «democrazia populista» come fenomeno generale dei sistemi politici europei (in particolare portando l’esempio di Tony Blair) in «Populist democracy vs party democracy», in Democracies and the populist challenge, cit.
26 Utile anche per capire la differenza tra populismo e pseudopopulismo: «Ciò che differenzia la politica economica inaugurata nel 1964 [cioè dopo il colpo di Stato militare che rovesciò il populista João Goulart] è che essa ha sostituito l’ideologia della modernizzazione all’ideologia dello sviluppo. Nel modo in cui si stava attuando, lo sviluppo tendeva a rendere più dinamiche le forze produttive, implicava l’indipendenza politica e, in una certa misura, spingeva verso l’autonomia economica. Invece, l’ideologia della modernizzazione - posta in pratica dopo il 1964 - denota uno sforzo teso a perfezionare lo statu quo e a rendere più facile il funzionamento dei processi di concentrazione e centralizzazione del capitale» (Octavio Ianni, O colapso do populismo no Brasil, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 1968 [La fine del populismo in Brasile, il Saggiatore, Milano 1974, p. 214]).
27 «Culturalmente, il progetto del thatcherismo si definisce come una forma di “modernizzazione regressiva” - il tentativo di “educare” e disciplinare la società in una versione particolarmente regressiva della modernità, paradossalmente trascinandola indietro attraverso una versione ugualmente regressiva del passato» (Stuart Hall, The hard road to renewal: Thatcherism and the crisis of the left, Verso, London/New York 1988, p. 2).
28 Nicos Poulantzas, L’État, le pouvoir, le socialisme, Presses universitaires de France (PUF), Paris 1978 [Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979]; Id., Il declino della democrazia, Mimesis, Milano/Udine 2009; Alan Wolfe, The limits of legitimacy: political contradictions of contemporary capitalism, Free Press, New York 1977 [I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, De Donato, Bari 1981]; Claus Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas, Milano 1977; Luigi Ferrajoli-Danilo Zolo, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano 1978.
29 Mi riferisco a Colin Crouch, Post-democracy, Polity Press, Cambridge 2004 [Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003]. Rimando inoltre alla seconda parte del mio Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, cit., pp. 217-405.
30 Questi aspetti del capitalismo italiano erano sottolineati da Augusto Graziani nella sua «Introduzione» al libro L’economia italiana: 1945-1970, il Mulino, Bologna 1972, ristampato in una nuova edizione aggiornata col titolo Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
31 Cfr. Roberto Massari (a cura di), I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale», Massari ed., Bolsena 2007. L’epiteto «forchettoni» è ovviamente spregiativo, ma non si riferisce alla corruzione personale. I testi del volume non sono moralistici, ma sviluppano un’analisi della sinistra post-Pci fredda, documentata e fondata su criteri scientifici.
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