1. La critica dello stile paranoide in politica di Richard Hofstadter come prototipo della visione contemporanea del populismo
Tra i più brillanti storiografi nordamericani, Richard Hofstadter impiegò i concetti di pseudoconservatorismo e di stile politico paranoide per criticare la «caccia alle streghe» anticomunista del maccartismo e la mentalità della new right statunitense a cavaliere degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso. Recentemente il concetto di stile paranoide è stato applicato al movimento del Tea Party e a Donald Trump1.
L’interesse per The paranoid style in American politics di Hofstadter valica l’Atlantico e la politica nordamericana perché, se ne abbia o meno la consapevolezza, per finalità, per metodo e per l’enfasi posta sullo stile della comunicazione politica i saggi di questa raccolta sono il prototipo degli studi contemporanei che caratterizzano il populismo come una particolare ideologia o retorica o stile o strategia di comunicazione - al limite, un «significante vuoto» - che faccia appello al popolo contro l’élite secondo uno schema dicotomico. Lo storico nordamericano non insistette in modo particolare sulla funzione del capo carismatico e sulla sua relazione diretta con il pubblico, ma l’aggiunta di queste due variabili non altera sostanzialmente i parametri dell’analisi. È anche interessante che Hofstadter riconoscesse apertamente di essere in debito con lo studio The authoritarian personality curato da Theodor W. Adorno, di cui tuttavia non condivideva del tutto il metodo e le conclusioni2. Fatto non casuale perché, come si vedrà, la visione del mondo e la posizione politica dello storico liberal era molto diversa da quella dei francofortesi.
Il nocciolo della questione è che, per quanto ci si sforzi d’impiegare le nozioni di stile paranoide e di populismo come stile in modo meramente descrittivo e avalutativo, esse hanno un intrinseco valore connotativo e normativo. Più precisamente, il metodo di Hofstadter era coerente con la sua posizione liberal e una determinata visione della modernizzazione e dell’evoluzione sociale e culturale del capitalismo nordamericano, per cui la normalità politica era definita dall’eredità del New Deal in politica interna e dall’impegno «internazionalista» nella politica estera degli Stati Uniti. A Hofstadter si deve riconoscere l’onestà e la lucidità intellettuale d’averlo riconosciuto; invece ai suoi lontani epigoni nordamericani ed europei questa lucidità pare far difetto. Ciò ha gravi implicazioni, perché l’acritica applicazione di una metodologia e di un punto di vista simile a quello di Hofstadter ai fenomeni oggi solitamente indicati come «populisti» ha l’effetto di sottovalutare la portata della complessiva trasformazione postdemocratica dei partiti e dei sistemi politici o, nel migliore dei casi, ne rende più difficile una coerente concettualizzazione.
Occorre rendersi conto che il formalismo sociologico centrato sulla definizione di uno specifico stile comunicativo populista incorre nello stesso problema della definizione formale dell’economia come scelta dell’allocazione di risorse scarse tra fini alternativi: per quanto apparentemente neutrale, questa formuletta è in realtà «imperialistica» - nel senso che ha una latitudine amplissima e può essere applicata a fenomeni tra loro diversissimi - ed è carica di un contenuto implicito ben definito, che naturalizza il capitalismo.
Il formalismo centrato su stile e generiche variabili è all’origine dell’iperinflazione dell’uso del termine populismo, per lo più come connotazione negativa; che è fenomeno ben noto agli studiosi e da essi spesso deprecato, tuttavia ciò non ha indotto una seria riflessione autocritica sul metodo d’analisi impiegato e sulle responsabilità dell’iperinflazione del termine3. Sicché, se nei lavori più attenti si afferma che i populismi latinoamericani sono diversi da quelli dell’Europa contemporanea, questa corretta constatazione è poi invalidata da analogie sommarie, dall’evocazione dello spettro del regime populistico, dall’indifferenziazione tra il regime di Perón e quello di Getúlio Vargas4. Anche più grave per le implicazioni politiche è l’assenza di riflessioni sulla differenza tra movimenti populisti e popolari all’opposizione e regimi populisti burocratizzati e consolidati; sulle tensioni interne al populismo di base e sulle sue potenzialità di radicalizzazione - e superamento - in direzione anticapitalista.
I termini politici sono carichi di connotazioni, specialmente quelli che hanno già una storia reale e teorica, che nel caso del populismo è anche abbastanza lunga, ricca e certamente contrastata. Per fare un esempio: non è affatto indifferente dire «imperialismo» oppure «globalizzazione», perché il primo termine evoca immediatamente un giudizio politico univoco e un certo campo di discussione teorica, il secondo giudizi che possono variare fra l’ottimistico entusiasmo e la critica pessimistica. Tuttavia, se intellettualmente coerenti, gli opposti giudizi sulla globalizzazione hanno come presupposto il modello normativo di uno spazio economico mondiale perfettamente concorrenziale e tendente all’omogeneità: un concetto molto diverso da quello dell’imperialismo come caratterizzato dallo sviluppo ineguale e combinato5. In modo simile, l’iperinflazione del populismo genera confusione e non è altro che l’effetto conseguente dell’«imperialismo» e del formalismo di cui sopra.
I problemi con l’uso del termine populismo nascono dal fatto che con lo stesso nome si indicano «cose» molto diverse: sia la protesta di massa e la rivolta - anche armata - contro le élite del potere economico e politico; sia una strategia di comunicazione e manipolazione da parte di attori politici che non hanno alcuna intenzione di intaccare l’ordine economico e politico e che fanno già parte dell’élite o aspirano a entrarvi. Ha senso parlare di populismo nel primo caso ma non nel secondo, che in effetti non ha nulla a che fare con l’assai varia e discussa classe dei movimenti populisti antioligarchici della Russia zarista, dei farmers statunitensi, della Rivoluzione messicana, dell’Apra peruviano, del Nicaragua, del peronismo argentino, della Bolivia, di Cuba e via elencando. Per il secondo caso occorre usare altri termini: ad esempio pseudopopulismo, un concetto affine al «populismo dei politici» di Margaret Canovan6.
Lo pseudopopulismo è la retorica che si rende necessaria in un sistema liberale nel quale esiste la competizione fra i partiti per il consenso elettorale, ma che è estremamente selettivo nei confronti dei bisogni sociali dei lavoratori, di fatto esclusi dalla rappresentanza parlamentare: è la democrazia ridotta a mera procedura di selezione dei quadri dell’élite, il sistema della politica e della cittadinanza ridotte a variabili dipendenti degli interessi immediati del «mercato», cioè del capitale nazionale e internazionale, la postdemocrazia. Quindi, se è vero che i partiti che si presentano come «alternativi» a quelli di governo hanno materia abbondante per la mobilitazione elettorale del risentimento e della delusione dei cittadini - facendo ricorso alla retorica pseudopopulista dai toni più accessi, anti-elitari ed etnocentrici - lo pseudopopulismo è però ampiamente utilizzato anche dai partiti dominanti di centro-sinistra e di centro-destra, non solo reattivamente ma proprio perché la postdemocrazia richiede che si presenti all’elettorato una buona amministrazione dell’esistente secondo criteri imparziali da parte di un governo forte e stabile, guidato da un leader efficiente e responsabile davanti al popolo. A questo corrisponde la rappresentazione retorica di un popolo indifferenziato, privo di contrasti che non siano quelli generati dalla patologica resistenza all’inevitabile e dagli interessi partigiani e corporativi.
È da notarsi che il concetto di pseudoconservatorismo, che per Hofstadter designava il contenuto specifico della sua interpretazione della new right, non ha avuto la stessa fortuna dello stile politico paranoide, il prototipo delle interpretazioni contemporanee dei fenomeni indicati come populisti. Un primo problema con l’impostazione dello storico statunitense sorge dal fatto che lo pseudoconservatorismo paranoide, che egli considerava un fatto di minoranza, nel frattempo ha fatto molta strada e ha assunto dimensioni niente affatto marginali: per molti riuscì a conquistare la presidenza già con Ronald Reagan e sicuramente con Donald Trump.
La critica dei presupposti metodologici e politici del lavoro dello storico americano è utile a chiarire i problemi posti da un certo utilizzo del termine populismo e a fondare un buon uso della fenomenologia dello stile paranoide. Si tratta di un bel groviglio: per scioglierlo occorrono pazienza e diversi passaggi.
2. Pseudoconservatorismo e new right americana
Nella primavera del 1954 Hofstadter tenne una conferenza intorno alla pseudo-conservative revolt, intervento poco dopo pubblicato come saggio. L’anno è importante: la fase acuta della «caccia alle streghe» anticomunista, che aveva come principale inquisitore il senatore Joseph McCarthy, iniziava a declinare - nel dicembre di quell’anno McCarthy venne censurato dal Senato in seguito al suicidio del collega Lester C. Hunt - ma non era ancora terminata. Ebbene, lo storico si riferiva proprio a McCarthy e a molti dei suoi seguaci come coloro che, «benché pensino di essere conservatori e di solito impieghino la retorica del conservatorismo, mostrano i segni di un’insoddisfazione seria e senza requie nei confronti della vita sociale americana, delle sue tradizioni e delle sue istituzioni». Questi - continuava - hanno in realtà «poco in comune con lo spirito temperato e portato all’accomodamento del vero conservatore; invece nella loro politica si esprime un «odio inconscio ma profondo nei confronti della nostra società»7: un atteggiamento che venne definito da Hofstadter come pseudoconservatore, termine ripreso dagli Studi sulla personalità autoritaria. Lo storico enfatizzò le caratteristiche psicologiche degli pseudoconservatori: l’idea di essere spiati, di essere vittime di un complotto, di «considerare il proprio Paese così debole da essere sempre sul punto di cadere vittima della sovversione».
Gli pseudoconservatori del tempo non erano soltanto duramente ostili alle politiche del governo federale - come il decano repubblicano Robert Taft - ma ritenevano che l’amministrazione fosse infiltrata in profondità da agenti comunisti; consideravano ogni fallimento, errore e oscillazione nei confronti dell’Unione Sovietica e della Cina popolare non come fatti fisiologici della lotta politica, ma come deliberato tradimento. I più fanatici ritenevano fossero comunisti i presidenti Roosevelt (democratico) e Eisenhower (repubblicano), o George Marshall, l’autore del celebre piano di aiuti economici all’Europa che fu il detonatore della Guerra Fredda (Marshall - un generale - fu capo di Stato maggiore durante la Seconda guerra mondiale, poi segretario di Stato e segretario alla Difesa durante l’amministrazione democratica di Truman: non esattamente un’innocente «colomba»). Il fondatore della John Birch Society, Robert H.W. Welch Jr., giunse a definire il presidente Eisenhower a dedicated, conscious agent of the Communist conspiracy e il segretario di Stato John Foster Dulles - un guerriero della Guerra Fredda! - a Communist agent8.
S’intende che nello pseudoconservatorismo paranoide si esprime un eccesso polemico - più o meno spinto - che viola i parametri di quel che si considera normale, che trascende specifiche e definite questioni e che ha invece molto a che fare con un serio problema circa la definizione della comunità politica. In effetti, mettendo in discussione la natura della comunità politica esistente - non solo la tattica o la strategia dell’avversario - lo pseudoconservatorismo proietta nella sfera pubblica un problema circa l’identità personale: in questo senso è paranoide.
A metà degli anni ‘60 Hofstadter applicò nuovamente il concetto di pseudoconservatorismo alla politica di Barry Goldwater e della John Birch Society e alla new right dell’epoca, non solo anticomunista e ostile al welfare state - un presunto complotto di stampo socialista - ma spesso contraria alla desegregazione degli afroamericani del profondo Sud. Goldwater era un politico navigato, grande propagandista per il suo partito: nella campagna presidenziale del 1960 sostenne lealmente il candidato Richard Nixon - vice di Eisenhower e quindi disprezzato dagli ultraconservatori - e nella sua campagna presidenziale del 1964 prese le distanze dall’ala conservatrice estrema, pur ricevendone aiuto. Goldwater venne sconfitto, ma diede inizio a una strategia, la southern strategy - che faceva leva sulla contraddizione razziale della coalizione newdealista puntando a strappare al Partito democratico il voto dei bianchi del Sud - poi impiegata con successo dal pragmatico Nixon, e a tecniche di propaganda e mobilitazione - propaganda postale, raccolta di fondi alla base, un certo «populismo» - che, in diverso contesto e con ulteriori sviluppi organizzativi e geografici, sarebbero più tardi state le fondamenta dell’ascesa di Ronald Reagan.
Quali i motivi della crescita dello pseudoconservatorismo? Hofstadter ne individuava tre. Apparentemente il meccanismo che aveva permesso l’integrazione sociale di successive ondate di immigrati sembrava non operare più automaticamente, o non più nello stesso modo di un tempo. Da qui la difficoltà di soddisfare quelle che definiva le aspirazioni di status. In secondo luogo, i mezzi di comunicazione di massa da una parte avevano avvicinato la politica al popolo ma, dall’altra, avevano fatto della politica una forma di intrattenimento nel quale gli spettatori si sentivano costantemente coinvolti, in modo che era diventato possibile proiettare nella sfera politica emozioni e problemi personali. In terzo luogo, il lungo esercizio del potere da parte dei liberals del New Deal aveva suscitato un profondo senso d’impotenza fra gli oppositori conservatori9.