Informiamo il lettore che il saggio qui pubblicato costituisce il seguito di «Donald Trump: vedette pseudopopulista della società dello spettacolo», apparso sul blog qualche settimana fa a firma dello stesso Nobile. Chi fosse interessato ad approfondire i concetti di stile paranoide in politica e personalità autoritaria potrà trovare un utile compendio nelle schede di psicopatologia politica presenti sul nostro sito. [la Redazione]
INDICE: 1. La critica dello stile paranoide in politica di Richard Hofstadter come prototipo della visione contemporanea del populismo - 2. Pseudoconservatorismo e new right americana - 3. Lo stile paranoide in politica - 4. Pseudoconservatorismo e politica basata sullo status sociale - 5. Controcritica della critica elitaria e centrista di Hofstadter al populismo - 6. Prospettive: liberarsi della critica elitaria del populismo - 7. Prospettive: per un buon uso del concetto di stile politico paranoide e per la critica del complottismo, in particolare di sinistra - 8. Prospettive: liberarsi della nostalgia per la «democrazia dei partiti» liberaldemocratica e assumere lo pseudopopulismo e lo pseudoconservatorismo come tratti tipici della postdemocrazia - Bibliografia
Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe,
mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma
e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano,
che a’ buoni effetti che quelli partorivano; […]
(Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro I, capitolo 4)
mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma
e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano,
che a’ buoni effetti che quelli partorivano; […]
(Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro I, capitolo 4)
University of Chicago Press, 1979 |
1. La critica dello stile paranoide in politica di Richard Hofstadter come prototipo della visione contemporanea del populismo
Tra i più brillanti storiografi nordamericani, Richard Hofstadter impiegò i concetti di pseudoconservatorismo e di stile politico paranoide per criticare la «caccia alle streghe» anticomunista del maccartismo e la mentalità della new right statunitense a cavaliere degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso. Recentemente il concetto di stile paranoide è stato applicato al movimento del Tea Party e a Donald Trump1.
L’interesse per The paranoid style in American politics di Hofstadter valica l’Atlantico e la politica nordamericana perché, se ne abbia o meno la consapevolezza, per finalità, per metodo e per l’enfasi posta sullo stile della comunicazione politica i saggi di questa raccolta sono il prototipo degli studi contemporanei che caratterizzano il populismo come una particolare ideologia o retorica o stile o strategia di comunicazione - al limite, un «significante vuoto» - che faccia appello al popolo contro l’élite secondo uno schema dicotomico. Lo storico nordamericano non insistette in modo particolare sulla funzione del capo carismatico e sulla sua relazione diretta con il pubblico, ma l’aggiunta di queste due variabili non altera sostanzialmente i parametri dell’analisi. È anche interessante che Hofstadter riconoscesse apertamente di essere in debito con lo studio The authoritarian personality curato da Theodor W. Adorno, di cui tuttavia non condivideva del tutto il metodo e le conclusioni2. Fatto non casuale perché, come si vedrà, la visione del mondo e la posizione politica dello storico liberal era molto diversa da quella dei francofortesi.
Il nocciolo della questione è che, per quanto ci si sforzi d’impiegare le nozioni di stile paranoide e di populismo come stile in modo meramente descrittivo e avalutativo, esse hanno un intrinseco valore connotativo e normativo. Più precisamente, il metodo di Hofstadter era coerente con la sua posizione liberal e una determinata visione della modernizzazione e dell’evoluzione sociale e culturale del capitalismo nordamericano, per cui la normalità politica era definita dall’eredità del New Deal in politica interna e dall’impegno «internazionalista» nella politica estera degli Stati Uniti. A Hofstadter si deve riconoscere l’onestà e la lucidità intellettuale d’averlo riconosciuto; invece ai suoi lontani epigoni nordamericani ed europei questa lucidità pare far difetto. Ciò ha gravi implicazioni, perché l’acritica applicazione di una metodologia e di un punto di vista simile a quello di Hofstadter ai fenomeni oggi solitamente indicati come «populisti» ha l’effetto di sottovalutare la portata della complessiva trasformazione postdemocratica dei partiti e dei sistemi politici o, nel migliore dei casi, ne rende più difficile una coerente concettualizzazione.
Occorre rendersi conto che il formalismo sociologico centrato sulla definizione di uno specifico stile comunicativo populista incorre nello stesso problema della definizione formale dell’economia come scelta dell’allocazione di risorse scarse tra fini alternativi: per quanto apparentemente neutrale, questa formuletta è in realtà «imperialistica» - nel senso che ha una latitudine amplissima e può essere applicata a fenomeni tra loro diversissimi - ed è carica di un contenuto implicito ben definito, che naturalizza il capitalismo.
Il formalismo centrato su stile e generiche variabili è all’origine dell’iperinflazione dell’uso del termine populismo, per lo più come connotazione negativa; che è fenomeno ben noto agli studiosi e da essi spesso deprecato, tuttavia ciò non ha indotto una seria riflessione autocritica sul metodo d’analisi impiegato e sulle responsabilità dell’iperinflazione del termine3. Sicché, se nei lavori più attenti si afferma che i populismi latinoamericani sono diversi da quelli dell’Europa contemporanea, questa corretta constatazione è poi invalidata da analogie sommarie, dall’evocazione dello spettro del regime populistico, dall’indifferenziazione tra il regime di Perón e quello di Getúlio Vargas4. Anche più grave per le implicazioni politiche è l’assenza di riflessioni sulla differenza tra movimenti populisti e popolari all’opposizione e regimi populisti burocratizzati e consolidati; sulle tensioni interne al populismo di base e sulle sue potenzialità di radicalizzazione - e superamento - in direzione anticapitalista.
I termini politici sono carichi di connotazioni, specialmente quelli che hanno già una storia reale e teorica, che nel caso del populismo è anche abbastanza lunga, ricca e certamente contrastata. Per fare un esempio: non è affatto indifferente dire «imperialismo» oppure «globalizzazione», perché il primo termine evoca immediatamente un giudizio politico univoco e un certo campo di discussione teorica, il secondo giudizi che possono variare fra l’ottimistico entusiasmo e la critica pessimistica. Tuttavia, se intellettualmente coerenti, gli opposti giudizi sulla globalizzazione hanno come presupposto il modello normativo di uno spazio economico mondiale perfettamente concorrenziale e tendente all’omogeneità: un concetto molto diverso da quello dell’imperialismo come caratterizzato dallo sviluppo ineguale e combinato5. In modo simile, l’iperinflazione del populismo genera confusione e non è altro che l’effetto conseguente dell’«imperialismo» e del formalismo di cui sopra.
I problemi con l’uso del termine populismo nascono dal fatto che con lo stesso nome si indicano «cose» molto diverse: sia la protesta di massa e la rivolta - anche armata - contro le élite del potere economico e politico; sia una strategia di comunicazione e manipolazione da parte di attori politici che non hanno alcuna intenzione di intaccare l’ordine economico e politico e che fanno già parte dell’élite o aspirano a entrarvi. Ha senso parlare di populismo nel primo caso ma non nel secondo, che in effetti non ha nulla a che fare con l’assai varia e discussa classe dei movimenti populisti antioligarchici della Russia zarista, dei farmers statunitensi, della Rivoluzione messicana, dell’Apra peruviano, del Nicaragua, del peronismo argentino, della Bolivia, di Cuba e via elencando. Per il secondo caso occorre usare altri termini: ad esempio pseudopopulismo, un concetto affine al «populismo dei politici» di Margaret Canovan6.
Lo pseudopopulismo è la retorica che si rende necessaria in un sistema liberale nel quale esiste la competizione fra i partiti per il consenso elettorale, ma che è estremamente selettivo nei confronti dei bisogni sociali dei lavoratori, di fatto esclusi dalla rappresentanza parlamentare: è la democrazia ridotta a mera procedura di selezione dei quadri dell’élite, il sistema della politica e della cittadinanza ridotte a variabili dipendenti degli interessi immediati del «mercato», cioè del capitale nazionale e internazionale, la postdemocrazia. Quindi, se è vero che i partiti che si presentano come «alternativi» a quelli di governo hanno materia abbondante per la mobilitazione elettorale del risentimento e della delusione dei cittadini - facendo ricorso alla retorica pseudopopulista dai toni più accessi, anti-elitari ed etnocentrici - lo pseudopopulismo è però ampiamente utilizzato anche dai partiti dominanti di centro-sinistra e di centro-destra, non solo reattivamente ma proprio perché la postdemocrazia richiede che si presenti all’elettorato una buona amministrazione dell’esistente secondo criteri imparziali da parte di un governo forte e stabile, guidato da un leader efficiente e responsabile davanti al popolo. A questo corrisponde la rappresentazione retorica di un popolo indifferenziato, privo di contrasti che non siano quelli generati dalla patologica resistenza all’inevitabile e dagli interessi partigiani e corporativi.
È da notarsi che il concetto di pseudoconservatorismo, che per Hofstadter designava il contenuto specifico della sua interpretazione della new right, non ha avuto la stessa fortuna dello stile politico paranoide, il prototipo delle interpretazioni contemporanee dei fenomeni indicati come populisti. Un primo problema con l’impostazione dello storico statunitense sorge dal fatto che lo pseudoconservatorismo paranoide, che egli considerava un fatto di minoranza, nel frattempo ha fatto molta strada e ha assunto dimensioni niente affatto marginali: per molti riuscì a conquistare la presidenza già con Ronald Reagan e sicuramente con Donald Trump.
La critica dei presupposti metodologici e politici del lavoro dello storico americano è utile a chiarire i problemi posti da un certo utilizzo del termine populismo e a fondare un buon uso della fenomenologia dello stile paranoide. Si tratta di un bel groviglio: per scioglierlo occorrono pazienza e diversi passaggi.
2. Pseudoconservatorismo e new right americana
Nella primavera del 1954 Hofstadter tenne una conferenza intorno alla pseudo-conservative revolt, intervento poco dopo pubblicato come saggio. L’anno è importante: la fase acuta della «caccia alle streghe» anticomunista, che aveva come principale inquisitore il senatore Joseph McCarthy, iniziava a declinare - nel dicembre di quell’anno McCarthy venne censurato dal Senato in seguito al suicidio del collega Lester C. Hunt - ma non era ancora terminata. Ebbene, lo storico si riferiva proprio a McCarthy e a molti dei suoi seguaci come coloro che, «benché pensino di essere conservatori e di solito impieghino la retorica del conservatorismo, mostrano i segni di un’insoddisfazione seria e senza requie nei confronti della vita sociale americana, delle sue tradizioni e delle sue istituzioni». Questi - continuava - hanno in realtà «poco in comune con lo spirito temperato e portato all’accomodamento del vero conservatore; invece nella loro politica si esprime un «odio inconscio ma profondo nei confronti della nostra società»7: un atteggiamento che venne definito da Hofstadter come pseudoconservatore, termine ripreso dagli Studi sulla personalità autoritaria. Lo storico enfatizzò le caratteristiche psicologiche degli pseudoconservatori: l’idea di essere spiati, di essere vittime di un complotto, di «considerare il proprio Paese così debole da essere sempre sul punto di cadere vittima della sovversione».
Gli pseudoconservatori del tempo non erano soltanto duramente ostili alle politiche del governo federale - come il decano repubblicano Robert Taft - ma ritenevano che l’amministrazione fosse infiltrata in profondità da agenti comunisti; consideravano ogni fallimento, errore e oscillazione nei confronti dell’Unione Sovietica e della Cina popolare non come fatti fisiologici della lotta politica, ma come deliberato tradimento. I più fanatici ritenevano fossero comunisti i presidenti Roosevelt (democratico) e Eisenhower (repubblicano), o George Marshall, l’autore del celebre piano di aiuti economici all’Europa che fu il detonatore della Guerra Fredda (Marshall - un generale - fu capo di Stato maggiore durante la Seconda guerra mondiale, poi segretario di Stato e segretario alla Difesa durante l’amministrazione democratica di Truman: non esattamente un’innocente «colomba»). Il fondatore della John Birch Society, Robert H.W. Welch Jr., giunse a definire il presidente Eisenhower a dedicated, conscious agent of the Communist conspiracy e il segretario di Stato John Foster Dulles - un guerriero della Guerra Fredda! - a Communist agent8.
S’intende che nello pseudoconservatorismo paranoide si esprime un eccesso polemico - più o meno spinto - che viola i parametri di quel che si considera normale, che trascende specifiche e definite questioni e che ha invece molto a che fare con un serio problema circa la definizione della comunità politica. In effetti, mettendo in discussione la natura della comunità politica esistente - non solo la tattica o la strategia dell’avversario - lo pseudoconservatorismo proietta nella sfera pubblica un problema circa l’identità personale: in questo senso è paranoide.
A metà degli anni ‘60 Hofstadter applicò nuovamente il concetto di pseudoconservatorismo alla politica di Barry Goldwater e della John Birch Society e alla new right dell’epoca, non solo anticomunista e ostile al welfare state - un presunto complotto di stampo socialista - ma spesso contraria alla desegregazione degli afroamericani del profondo Sud. Goldwater era un politico navigato, grande propagandista per il suo partito: nella campagna presidenziale del 1960 sostenne lealmente il candidato Richard Nixon - vice di Eisenhower e quindi disprezzato dagli ultraconservatori - e nella sua campagna presidenziale del 1964 prese le distanze dall’ala conservatrice estrema, pur ricevendone aiuto. Goldwater venne sconfitto, ma diede inizio a una strategia, la southern strategy - che faceva leva sulla contraddizione razziale della coalizione newdealista puntando a strappare al Partito democratico il voto dei bianchi del Sud - poi impiegata con successo dal pragmatico Nixon, e a tecniche di propaganda e mobilitazione - propaganda postale, raccolta di fondi alla base, un certo «populismo» - che, in diverso contesto e con ulteriori sviluppi organizzativi e geografici, sarebbero più tardi state le fondamenta dell’ascesa di Ronald Reagan.
Quali i motivi della crescita dello pseudoconservatorismo? Hofstadter ne individuava tre. Apparentemente il meccanismo che aveva permesso l’integrazione sociale di successive ondate di immigrati sembrava non operare più automaticamente, o non più nello stesso modo di un tempo. Da qui la difficoltà di soddisfare quelle che definiva le aspirazioni di status. In secondo luogo, i mezzi di comunicazione di massa da una parte avevano avvicinato la politica al popolo ma, dall’altra, avevano fatto della politica una forma di intrattenimento nel quale gli spettatori si sentivano costantemente coinvolti, in modo che era diventato possibile proiettare nella sfera politica emozioni e problemi personali. In terzo luogo, il lungo esercizio del potere da parte dei liberals del New Deal aveva suscitato un profondo senso d’impotenza fra gli oppositori conservatori9.
3. Lo stile paranoide in politica
Da storico di professione, Hofstadter mise a confronto lo pseudoconservatorismo a lui contemporaneo con altri movimenti della storia statunitense: quelli contro gli Illuminati alla fine del XVIII secolo (in opposizione a Thomas Jefferson), contro la massoneria negli anni ‘20 del XIX secolo (in opposizione a Andrew Jackson), il nativismo anticattolico, l’ostilità contro i mormoni; e anche il movimento populista e il People’s Party degli anni ‘80 e ‘90 del XIX secolo, l’attività del sacerdote cattolico Coughlin negli anni ‘30 del ‘900. Il filo conduttore fra questi movimenti e lo pseudoconservatorismo è un certo stile politico paranoide, che non è da intendersi in senso clinico perché mentre l’autentico paranoico teme per se stesso, il paranoide politico è invece preoccupato per la collettività politica e i valori della società. Hofstadter precisò che questo stile non era peculiare degli Stati Uniti, tanto che i suoi trionfi maggiori erano stati nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica staliniana, e che negli Stati Uniti esso interessava solo una minoranza - per quanto rumorosa. Inoltre è da intendersi bene perché lo storico parlasse di stile. Non si riferiva al contenuto di verità della posizione politica: lo stile paranoide è più spesso associato a cause cattive, ma Hofstadter non riteneva che le buone cause ne fossero a priori immuni; egli si riferiva ai modi con cui si esprime una causa politica e - si potrebbe dire - al quadro d’insieme in cui essa viene articolata e motivata. In sintesi, questi sono i tratti dello stile politico paranoide:
- la presunzione che esista una gigantesca cospirazione, con origini e/o estensione internazionale;
- il punto fondamentale non è semplicemente l’affermazione dell’esistenza di un determinato complotto, ma assumere la cospirazione come «la forza motrice degli eventi storici. La storia è una cospirazione, messa in movimento da forze demoniache»;
- la posta in gioco è apocalittica: si tratta «della nascita e della morte di interi mondi, ordini politici, sistemi di valori umani»;
- il nemico «è un perfetto modello di malizia, una specie di superuomo amorale, sinistro, onnipresente, potente, crudele, sensuale, amante del lusso»; nel processo storico è «un agente libero, attivo, demoniaco»;
- ne consegue che non è possibile alcun compromesso con il nemico perché, per lo spazio vitale del paranoide, si tratta di una lotta per la vita o per la morte: lo stile è quello della crociata;
- particolare importanza è attribuita ai rinnegati della parte avversa, che confermano l’esistenza della cospirazione e, nello stesso tempo, provano che le conversioni possono avvenire anche in senso favorevole al bene;
- il paranoide è ossessionato dall’accumulazione di «prove», presentate in modo da confermare l’ipotetica cospirazione. Il punto - scrisse Hofstadter - è che le «prove» non sono essenzialmente armi nella battaglia politica o mezzi per «convincere un mondo ostile», ma modi con cui il paranoide protegge la propria mente.
Infine, ma niente affatto ultimo per importanza perché si tratta dello specifico meccanismo causale, il paranoide proietta sul nemico aspetti della propria psiche che egli non può accettare. L’aggressività che ravvisa nei cospiratori alieni non è altro che la sua personale aggressività10.
Si può concludere che il paranoide politico soffra di una sorta di complesso della vittima, che si combina con l’identificazione con un capo che alimenta fantasie di narcisistica potenza.
Theodor W. Adorno |
Stante l’esplicito richiamo di Hofstadter, si giustifica un confronto tra il suo discorso e quello dei francofortesi, in particolare sul punto della proiezione morbosa come «traslazione sull’oggetto di impulsi socialmente vietati del soggetto». Si possono portare gli esempi dell’omosessualità e del meccanismo proiettivo dei nazisti, che nell’immagine dell’ebreo «esprimono la propria essenza. Sono avidi di possesso esclusivo, appropriazione, potere senza limiti, ad ogni costo»11. Tuttavia la critica dei francofortesi, in questo caso della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, non era centrata sulla psicopatologia individuale, ma sul rovesciamento del progresso della razionalità strumentale capitalistica in barbarie scatenata, per cui «la razza, oggi, è l’autoaffermazione dell’individuo borghese, integrata nel collettivo barbarico»12. E se l’antisemitismo borghese è inteso come «il travestimento del dominio nella produzione», gli ebrei possono diventare il capro espiatorio dell’ingiustizia economica del capitalismo:
«Il lavoro produttivo del capitalista, che egli giustificasse il suo profitto col rischio dell’imprenditore, come nell’epoca liberale, o con lo stipendio del direttore, come avviene oggi, era l’ideologia che copriva la sostanza del contratto di lavoro e la natura rapinatrice del sistema economico complessivo. Per ciò si grida: al ladro! e si indica l’ebreo»13.
Horkheimer e Adorno non risparmiavano neanche la società liberale nordamericana: deridevano l’idea del «caos culturale» e rovesciavano il concetto di sovranità del consumatore nella tesi che l’industrializzazione della produzione classificasse e organizzasse sistematicamente i consumatori. Quel che chiamavano l’industria culturale non è altro che la sussunzione dei salariati alla riproduzione allargata del capitale sia nel processo di lavoro e valorizzazione che nel consumo e nelle loro aspirazioni: «per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono inculcate e diffuse artificialmente»14. Notare che per i francofortesi «l’industria culturale, lo stile più rigoroso e inflessibile che ci sia mai stato, si rivela come il traguardo e il punto di arrivo di quel liberalismo a cui si vuole rimproverare la sua mancanza di stile» ed essa «realizza sarcasticamente l’idea della cultura organica, che i filosofi della personalità opponevano alla massificazione»15.
L’idea di un atteggiamento politico paranoide è senz’altro importante, ma la questione cruciale è il punto di vista dal quale si definisce cosa sia la normalità politica e si valuta ciò che è detto patologico. Si può anche scoprire che in quel che era considerata normalità si annidavano cause congenite di degenerazione e che infine la patologia è diventata normalità. Qualcosa del genere si è verificato con la trasformazione della liberaldemocrazia in postdemocrazia e con la normalizzazione dello pseudoconservatorismo e dello pseudopopulismo.
4. Pseudoconservatorismo e politica basata sullo status sociale
Hofstadter fu uno degli intellettuali statunitensi più autorevoli della sua generazione. Il suo lavoro storiografico convergeva con la teoria liberale del pluralismo politico modellata sul mercato e il calcolo dei costi e dei benefici - il cui nucleo è la riduzione della democrazia a procedura di scelta razionale fra attori nel mercato politico - con la teoria della modernizzazione per fasi di Walt Rostow e con la sociologia di Daniel Bell, poi noto negli anni ‘60 anche per la tesi della «fine delle ideologie». Con Bell pubblicò nel 1955 il libro The new American right. Era un’area intellettuale che può essere intesa come The vital center, dal significativo titolo di un volume del 1949 di Arthur M. Schlesinger Jr.; e con Louis Hartz presupponeva che carattere distintivo della storia nordamericana fosse la libertà dal retaggio medievale e feudale europeo e, quindi, una cultura politica essenzialmente liberale. Da questo punto di vista la «mentalità americana», liberale, democratica, individualistica, orientata pragmaticamente, poteva essere contrapposta alla mentalità totalitaria del fascismo e del comunismo. Tuttavia con i concetti di pseudoconservatorismo e di stile paranoide Hofstadter introdusse la considerazione dell’irrazionalità nella politica e nella cultura americana, in questo distinguendosi dall’«eccessivo razionalismo» basato sullo scontro di interessi della storiografia «progressista».
Dunque, quando Hofstadter definiva la patologia dello stile paranoide, egli aveva come punto di riferimento una determinata normalità politica: quella del consensus dell’élite bipartitica degli anni ‘50 e ‘60. La competizione politica normale non metteva in discussione i pilastri su cui poggiava l’evoluzione della società nordamericana passata attraverso le esperienze della Grande Depressione e del New Deal, della Guerra mondiale e dell’internazionalismo. Se la critica dello stile paranoide di Hofstadter era politicamente motivata dall’intento di liquidare la patologia di destra - il maccartismo, la John Birch Society, Barry Goldwater e affini - egli badava bene a distinguere questa new right dell’epoca dalla ragionevole opposizione del Partito repubblicano al New Deal, incarnata dal senatore Taft, e dal centrismo repubblicano rappresentato dal generale Eisenhower, presidente dal 1953 al 1961, che aveva accettato il dato di fatto dell’innovazione strutturale newdealista e il ruolo internazionale degli Stati Uniti quale garante del mondo libero. Il liberale Hofstadter non metteva in discussione l’anticomunismo né la lotta contro lo spionaggio sovietico, ma l’assurda equiparazione di socialismo e New Deal e la sindrome paranoide di chi si impegnava fanaticamente a combattere un inesistente complotto comunista nei vertici politici, nell’amministrazione e nelle istituzioni culturali del Paese invece che il nemico reale all’estero, spingendo l’anticomunismo in politica estera oltre i limiti della realistica considerazione dei rapporti di forza e del rischio nucleare.
Per Hofstadter patologicamente paranoide era la politica che rinunciava alla costruttiva mediazione fra interessi sociali ben definibili e circoscrivibili, risultante in compromessi e in policies attuabili, per farsi invece portavoce della difesa di un certo status sociale - in sostanza quello del maschio bianco protestante - utilizzando una retorica apocalittica. Gli pseudoconservatori paranoidi non si confrontano con le cause reali dei problemi interni e internazionali ma li trasfigurano, sentendosi impotenti: per questi, in definitiva, ad essere minacciata è l’identità; per questo il paranoide vuole assicurare la conformità della società a determinati valori, importando nella politica secolare lo stile del fondamentalismo religioso. Ad esempio, benché il deficit spending beneficiasse materialmente piccoli imprenditori, professionisti, farmers e colletti bianchi, questi stessi individui potevano battersi contro la crescita della spesa pubblica perché immorale secondo la loro mentalità, formatasi sui valori del risparmio e del duro lavoro.
Al contrario della politica degli interessi, la politica basata sullo status e lo stile paranoide non ammette compromessi, ma è una lotta manichea tra il bene e il male. Alla razionalità del calcolo e della mediazione fra interessi organizzati e canalizzabili, la politica paranoide sostituisce l’appello diretto del capo carismatico alla massa atomizzata della società dei consumi - qui è palese l’influsso dei francofortesi. Per Hofstadter la politica basata sugli interessi era tipica dei periodi di depressione economica, in cui la materialità dei bisogni riduceva lo spazio della retorica simbolica; mentre la politica basata sullo status poteva trovare consenso nella società opulenta.
In definitiva i maestri dello stile paranoide non sono tanto interessati all’esercizio costruttivo del potere, quanto alla critica di quello che ritengono il suo cattivo uso da parte dell’establishment. Si può anche dire che sono bravi a condurre con successo una campagna elettorale, ma non nell’amministrare il potere entro i parametri dei rapporti di forza e degli interessi costituiti. È per questo che la new right contro cui si scagliava Hofstadter era da lui definita come pseudoconservatrice: nella retorica manichea e nel complottismo paranoide si dava qualcosa che in senso generico appariva come «rivoluzionario». E se tra gli anni ‘50 e ‘60 il pericolo veniva da destra, poco dopo l’accusa di manicheismo paranoide ricadde ovviamente sui nuovi movimenti sociali e la new left.
5. Controcritica della critica elitaria e centrista di Hofstadter al populismo
Nel secondo dopoguerra Hofstadter fu tra gli storici che criticarono la tradizione storiografica in cui si erano formati, quella «progressista» che simpatizzava con il populismo degli ultimi decenni del XIX secolo. Il suo The Age of Reform: from Bryan to F.D.R. (1955) fu un grande successo che gli valse il premio Pulitzer per la storiografia, ma diede anche luogo a una polemica assai aspra.
In un intervento del 1959 John Higham notò che nella storiografia statunitense era emersa una corrente revisionista, poi indicata come consensus history: se i grandi nomi del progressismo - Frederick Jackson Turner, Charles A. Beard, Vernon Louis Parrington - avevano enfatizzato le divisioni, i drammi, le discontinuità della storia americana, ora si tendeva a fare di questa storia qualcosa di avventuroso ma sostanzialmente conservatore, ridimensionando la portata delle divisioni e dei conflitti: omogeneità e continuità prevalevano sull’eterogeneità e la discontinuità16. La Rivoluzione ha perso il suo carattere rivoluzionario - scriveva Higham - non si parla più di «rivoluzione del 1800» e anche la «seconda rivoluzione» - la Guerra di Secessione - risulta non essere poi tanto rivoluzionaria; i populisti della rivolta agraria sono ora presentati come «businessmen rurali delusi dalla mitologia pastorale»; «le classi sono trasformate in miti, le sezioni [il Nord e il Sud, in genere le grandi aree degli Stati Uniti] hanno perso la loro solidarietà, le ideologie sono evaporate in climi di opinione. La frase “l’esperienza americana” è diventata un incantesimo». E ancora: l’approccio psicologico tende a predominare, trasformando gli scismi della società in scismi dell’animo, in ansia per l’adattamento ai cambiamenti (inevitabili); si afferma un nuovo pragmatismo non volto all’innovazione guidata dal pensiero, ma all’adattamento alla tradizione. Se prima si vedeva nei grandi cambiamenti economici motivo di conflitto e di lotta al privilegio, ora l’enfasi è posta sulla continuità e la prosperità della nazione. Per Higham era questo, in breve, il clima trasmesso dalla nuova generazione di storici, fra cui Hofstadter.
Il consensus era dunque quello degli americani intorno ai valori della modernità capitalista, che può essere completato dall’idea che nel Nordamerica non abbia mai avuto luogo una transizione al capitalismo e che quindi da sempre l’individualismo del mercato sia stato il principio dominante. La successiva generazione di storici ha invece studiato la persistenza di forme economiche non capitalistiche, non solo della schiavitù ma della piccola produzione mercantile, dell’autoconsumo, di scambi e di mentalità non assimilabili a quelle dell’imprenditore capitalista e alla produzione specializzata in funzione del mercato e del massimo profitto. È questione importante per comprendere la politica degli Stati Uniti nei primi decenni dopo l’indipendenza, l’espansione territoriale e anche la persistenza - pur dopo l’ottocentesca «rivoluzione del mercato» di un’ampia classe di farmers ancora nei primi decenni del ‘900.
In particolare a The Age of Reform di Hofstadter vennero mosse accuse forti: privilegiare lo studio dell’ideologia del movimento populista tralasciandone il più ampio contesto storico e sociologico; selezionare i temi ideologici e presentarli in un modo per cui il populismo appare come un movimento nostalgico, incarnazione di un «mito agrario» obsoleto, di cui sarebbero parte l’antisemitismo e la visione cospirativa della storia. Secondo Norman Pollack, il più duro fra i critici, da una parte Hofstadter riduceva il populismo a un movimento irrazionale e patologico - paranoide - dall’altra attribuiva ad esso un orientamento capitalista. Insomma, per il modo in cui veniva presentato da Hofstadter il populismo non aveva ragion d’essere nelle condizioni socioeconomiche dei farmers, né costituiva una valida protesta contro l’ordine esistente. Pollack demolì i cinque temi intorno ai quali Hofstadter aveva costruito l’ideologia del populismo - non il movimento sociale e politico concreto: «l’idea di un’età dell’oro, il concetto di armonie naturali, la versione dualistica delle lotte sociali, la teoria cospirativa della storia e la dottrina del primato della moneta»17.
Lawrence Goodwyn © Duke University Archives |
Qui non posso discutere in modo più articolato il populismo nordamericano e la storia della storiografia in merito, ma è chiaro che si è verificata un’ulteriore revisione che è anche una radicale controcritica dell’interpretazione di Hofstadter. Pubblicato nel 1976, credo che il volume Democratic promise: the populist moment in America di Lawrence Goodwyn sia ancora il lavoro più significativo della revisione della revisione. Già dal titolo si comprende che l’interpretazione di Goodwyn era del tutto contraria a quella degli anni ‘50: il suo è uno studio di storia sociale e politica, non di storia delle idee reinterpretate e decontestualizzate; da esso il populismo emerge come un grande movimento sociale che riesce a scuotere centinaia di migliaia di persone dalla passività indotta da condizioni di vita ed economiche estremamente dure; che acquista fiducia e forza grazie alla lotta contro lo sfruttamento dei mercanti-usurai, le banche, le compagnie ferroviarie, e all’organizzazione di un grande ma fragile sistema cooperativistico; questo movimento sociale era animato da uno spirito democratico e capace di autoeducarsi con le proprie forze; si orientò al compito politico quasi impossibile di superare le divisioni sezionali e l’ampia presa dei partiti maggiori - l’eredità della Guerra civile - e la demagogia della cultura dominante per entrare nella scena politica come terzo partito indipendente. I populisti vedevano la propria lotta come gemella di quella degli operai dell’industria - la nuova classe operaia, in gran parte di immigrati cattolici; tuttavia, nonostante le dure lotte che gli operai degli anni ‘80 e ‘90 sostennero in alcune località e settori, la loro coscienza politica non era ancora all’altezza di quella dei populisti. Inoltre, pur con tutti i limiti e le contraddizioni che si possono immaginare, alcuni leader della Farmers’ Alliance bianca sostennero l’organizzazione degli afroamericani: un passo che avrebbe potuto dar luogo all’alleanza tra farmers bianchi e afroamericani ex schiavi nel Sud. Altro compito che retrospettivamente appare impossibile, ma che impedisce di bollare il populismo nordamericano come retrogrado, paranoide, antimoderno.
Goodwyn ha insistito con forza sull’organizzazione cooperativistica dei farmers e sul processo di autoeducazione alla partecipazione democratica, di creazione di una cultura alternativa a quella dell’establishment politico ed economico. Il passaggio dal movimento sociale alla formazione di un terzo partito indipendente - il People’s Party - si spiega con l’esperienza dell’ostruzionismo finanziario a cui andò incontro il cooperativismo e con la presa di coscienza di dover agire sul piano nazionale, rompendo le tradizionali identità partitiche sezionali. La fusione di fatto con il Partito democratico fu un passo ulteriore, in effetti voluto da personalità politiche locali estranee al movimento originario. È inoltre semplicistica la riduzione della proposta centrale del movimento dei farmers al ripudio del gold standard e alla sua sostituzione con l’argento: era un’idea dei proprietari delle miniere d’argento - sostenuta dai minatori - fatta propria dal candidato democratico-populista Bryan nelle elezioni presidenziali del 1896, ma che si contrapponeva a più interessanti e moderne proposte di reflazione svincolata da qualsiasi standard metallico che circolavano nel movimento populista con l’intento di finanziare adeguatamente gli agricoltori, riducendone l’incertezza, il peso dei debiti e la minaccia di esproprio conseguente dalle ipoteche. Ma quello non era affatto l’unico obiettivo. La piattaforma del People’s Party approvata a Omaha nel luglio 1892 rivendicava la nazionalizzazione delle ferrovie, del telegrafo e dei telefoni; l’opposizione al monopolio speculativo della terra, la nazionalizzazione della terra in eccesso posseduta dalle compagnie ferroviarie e da stranieri; l’imposta progressiva sul reddito, un sistema di casse di risparmio statali (il sistema della Federal Reserve venne introdotto solo nel 1913). Si esprimeva solidarietà alle lotte dei Knights of Labor - l’organizzazione sindacale dell’epoca - e all’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a otto ore; si pretendeva lo scioglimento dell’agenzia Pinkerton, il braccio armato padronale per la repressione delle lotte operaie; si rivendicava la generalizzazione del voto segreto, l’elezione diretta dei senatori (all’epoca questi erano eletti dalle legislature degli Stati), l’introduzione del referendum, la limitazione a un solo incarico degli uffici di Presidente e Vicepresidente (il limite di due mandati venne introdotto oltre mezzo secolo dopo).
Insomma, per Goodwyn nel populismo c’era passione, dignità, orgoglio, speranza ma non paranoia - certo non al punto da poter caratterizzare come paranoide il movimento; le rivendicazioni erano giustificate dalle condizioni reali, non frutto di irrazionali visioni complottistiche. Il populismo è giudicato - con convincenti argomenti - come il più grande movimento democratico della storia degli Stati Uniti e il maggior esperimento cooperativistico mondiale.
Ed è anche chiaro che, attraverso la ricostruzione delle motivazioni socioeconomiche, della dinamica organizzativa del cooperativismo, dell’azione di conferenzieri e dei tanti giornali locali del movimento, dell’autoeducazione, dello spirito democratico e della volontà di riscossa, ma anche dei problemi e degli errori, Goodwyn si proponeva di trarre dal populismo della fine del XIX secolo delle lezioni di metodo utili a un movimento democratico e popolare nel presente. Una ricostruzione storiografica e una motivazione politica di segno completamente diverso da quello del centrismo liberal di Hofstadter, il cui metodo è ora moneta corrente in tema di identificazione e connotazione del populismo.
6. Prospettive: liberarsi della critica elitaria del populismo
Il metodo d’analisi e il criterio con cui Hofstadter giudicava i fenomeni designati come populisti erano perfettamente coerenti con la sua posizione politica, cioè con un punto di vista centrista in piena Guerra Fredda.
All’epoca il suo talento si scagliò contro l’anticomunismo pseudoconservatore perché trattava di difendere dagli attacchi dei paranoidi il centro politico liberaldemocratico, l’ambito dell’accordo bipartitico fra il centro e le ali liberal del Partito democratico e del Partito repubblicano. Tuttavia, da quel punto di vista e con lo stesso metodo, nulla impediva - e infatti così fu - che il metodo impiegato da Hofstadter per caratterizzare il populismo statunitense della fine del XIX secolo potesse venire impiegato come arma per screditare intellettualmente e per attaccare politicamente la new left e i movimenti di rivolta degli anni ‘60 del XX secolo.
Oltre mezzo secolo dopo, benché la retorica e gli stili comunicativi e d’organizzazione che possono dirsi pseudopopulistici possano rintracciarsi in tutti i partiti - certo con intensità, forme e tempi diversi - la polemica antipopulistica è nell’immediato rivolta contro partiti per lo più fortemente pseudoconservatori, ancor più a destra del centro contemporaneo, a sua volta decisamente spostato a destra rispetto al centro politico degli anni ‘60. Che questi partiti utilizzino una loro particolare definizione etnonazionalista di popolo e si atteggino ad avversari dell’establishment non ne fa però dei partiti populisti; tanto è vero che una simile retorica può essere utilizzata perfino da personaggi e partiti con responsabilità di governo: è il caso del «rottamatore» Matteo Renzi. Non si tratta di una questione terminologica, ma di sostanza.
L’essenza del populismo come movimento d’opposizione - è poi da vedersi come e in qual misura i nuovi capi del regime rinnovino o integrino la classe dominante - è l’attacco ai poteri dell’oligarchia economica e sociale. È quindi indispensabile distinguere i fenomeni che possono dirsi populistici perché volti a far convergere e unire come popolo movimenti di massa che lottano contro i poteri economici e politici dallo pseudopopulismo dei partiti postdemocratici, al governo e all’opposizione, per i quali il richiamo al popolo costituisce una strategia comunicativa, essenzialmente con finalità elettorali e di rafforzamento o integrazione dell’assetto di potere.
Il centrismo liberaldemocratico e postdemocratico giudicherà sempre come patologici i movimenti sociali e politici che, sia pur confusamente e in modo parziale, attaccano i pilastri del potere economico e politico. Lo spettro contro il quale si rivolge preventivamente la corrente antipopulistica contemporanea è quello di autentici movimenti popolari che prendano sul serio l’idea che la sovranità sia del popolo, e non delle élite partitiche e burocratiche.
Da quanto sopra consegue che nell’approccio al cosiddetto populismo contemporaneo occorre innanzitutto liberarsi dell’ipoteca del punto di vista centrista, liberaldemocratico e - a maggior ragione - postdemocratico. O se si preferisce: occorrono almeno l’onestà e la lucidità intellettuali di dichiarare esplicitamente da quale punto di vista si analizzano e si valutano i partiti e i sistemi politici. Anche a sinistra, dove per lo più si sostiene il ritorno a un assetto della costituzione materiale che è oramai tramontato - e che è molto mitizzato, quasi un’epoca d’oro - il metodo con cui si interpretano i fenomeni detti populisti non è in sostanza diverso da quello del centrista Hofstadter. Qui non metto in discussione il valore descrittivo e il contenuto informativo dei lavori intorno allo pseudopopulismo dei partiti del centro-destra e della destra - che in effetti dovrebbe estendersi anche al centro-sinistra e alla sinistra; tuttavia, se non si fa chiarezza sul metodo e su cosa sia il populismo, non solo non è possibile andare oltre il populismo dal basso - che pure è un fenomeno progressivo - ma, ben più grave, non si può articolare una critica coerente ed efficace del regime postdemocratico e dello pseudopopulismo elitario, rischiando così di subirne l’egemonia.
Infatti, per quanto la nozione di populismo sia di solito applicata criticamente nei confronti di partiti che possono dirsi di destra o estrema destra, con il metodo e il criterio di valutazione oggi prevalenti nulla può impedire che l’epiteto populista possa essere rivolto contro mobilitazioni popolari che mettono in discussione da sinistra i governi, i partiti e le politiche postdemocratiche, quelle solitamente indicate col termine improprio di neoliberismo. Non dubito, per fare un esempio, che se il governo Tsipras non si fosse piegato così rapidamente e completamente ai dettati dei creditori europei e internazionali, ma avesse tentato seriamente di realizzare il programma di Salonicco con cui aveva vinto le elezioni; se avesse promosso l’iniziativa popolare - non solo simbolica - per l’attuazione diretta degli obiettivi di quel programma e di altri formulati da movimenti di lotta; se si fosse fatto forte dei risultati del referendum e avesse condotto una campagna politica internazionale diretta ai popoli dell’Unione Europea più che alle élite di governo, ebbene, sicuramente i politici e la stampa postdemocratica avrebbero tacciato Tsipras d’essere la variante greca di Juan Domingo Perón e il suo governo come intento a costruire un regime populista, demagogico e autoritario. A sinistra la simpatia politica avrebbe forse impedito l’uso di questa formula, ma ciò non sarebbe stato coerente con il modo in cui oggi è concettualizzato il populismo. Conseguentemente anche la coerenza della solidarietà politica sarebbe stata debole.
7. Prospettive: per un buon uso del concetto di stile politico paranoide e per la critica del complottismo, in particolare di sinistra
Un buon uso della fenomenologia dello stile paranoide richiede non solo che ci si liberi del punto di vista centrista, ma pure che non si assuma in modo dicotomico ciò che è politicamente patologico e ciò che è politicamente razionale. Come nella psicoanalisi freudiana, i confini esistono ma sono fluidi, il patologico è annidato nella normalità ed è significativo del «disagio della civiltà» - o di una determinata civiltà.
Richard Hofstadter © Sam Falk |
È interessante che Hofstadter definisse la politica paranoide come uno stile - perfino al di là della verità o falsità delle sue tesi sostanziali - perché spinge ad andare oltre la riduzione di questo tipo di mentalità politica al risultato della manipolazione dall’alto dell’opinione pubblica e a una consapevole manovra dell’élite culturale e politica. Certo, il complottismo paranoide è un’arma spesso utilizzata da chi detiene il potere politico, ma in molti casi la visione paranoide della politica è rivolta proprio contro l’establishment o ciò che è percepito come tale. Il punto è che il successo di tali operazioni dall’alto e l’elaborazione e diffusione dal basso di teorie complottistiche in vari campi devono essere ricondotti al tipo di società che produce personalità predisposte ad atteggiamenti paranoidi, i quali possono assumere diverse colorazioni politiche. Anche per questa ragione non si può semplicemente spiegare il complottismo con un basso livello di istruzione, una posizione sociale modesta, credenze religiose, inclinazioni politiche di destra. Questi fattori entrano in gioco, ma le inchieste sul tema sono state criticate perché basate su campioni poco rappresentativi della popolazione nel suo complesso e per un approccio che tende a separare la formazione di credenze paranoidi in qualche irrazionale cospirazione dai processi più ampi di formazione dell’opinione pubblica.
In qualsiasi grande movimento popolare possono manifestarsi argomenti e tendenze paranoidi, ma da quale punto di vista possono giudicarsi tali? È da paranoidi affermare che i partiti di governo mettono in atto politiche antipopolari? Che le «riforme» messe in atto calpestano decenni di lotte per i diritti socioeconomici? È da paranoidi affermare che l’innalzamento dell’età pensionabile è un fatto letteralmente reazionario? È da paranoidi dire che le «riforme» del mercato del lavoro siano deliberatamente intese ad accrescere la precarietà e a disciplinare i lavoratori nell’interesse del capitale? È da paranoidi sostenere che i partiti di governo puntano al monopolio politico della rappresentanza e che esiste una sorta di casta partitico-statale?
In termini generali l’inclinazione alla paranoia politica e al complottismo rimanda al persistere di tendenze proprie del narcisismo infantile o di un egocentrismo adolescenziale. La visione del mondo del bambino è incline a concepire la realtà in modo manicheo come lotta fra personaggi rappresentativi del bene e del male. Insomma, una versione infantile della histoire-bataille, che è poi quella propria dei complottisti.
Il complottismo è dunque l’esatto contrario di una buona storiografia moderna, e ancor più del metodo storico-materialistico marxiano. Nella lotta politica e fra le classi entrano in gioco la strategia, la soggettività e il ruolo di dirigenti individuali; tuttavia l’azione dei soggetti va compresa nel contesto di vincoli e possibilità oggettive ed è da riferire a interessi e movimenti strutturali e impersonali: è da questo gioco complesso di vincoli e possibilità, decisioni, non-decisioni, tentativi, errori e apprendimento viziato da tradizioni e pregiudizi che risultano il rischio e l’incertezza intrinseci alla lotta, gli effetti non-intenzionali, le contraddizioni, le crisi economiche e sociali acute, le rivoluzioni e le degenerazioni delle rivoluzioni, l’apertura del processo storico in modo non predeterminabile in base a piani volontaristici di un qualsiasi governo, servizio segreto o partito.
È quindi inaccettabile e qualificabile come paranoide l’idea che il processo storico sia assimilabile a un burattino le cui movenze siano determinate dai fili tirati dalla volontà di qualche agenzia. Ma è proprio ciò che accade quando il cosiddetto neoliberismo non risulta più dalle trasformazioni e contraddizioni strutturali del capitalismo - e dalle loro espressioni soggettive in politica - ma da un’ideologia più o meno unica, elaborata più o meno segretamente da think tanks. Si può ravvisare un diffuso complottismo a partire da quelle ricostruzioni degli attentati dell’11 settembre 2001 che mirano a dimostrare che essi furono attuati da qualche agenzia statale statunitense: con ciò assumendo l’onnipotenza e invulnerabilità del potere statunitense, ignorando contraddizioni ed effetti non voluti della politica estera e rivelando una sorta d’inconscio razzismo nei confronti degli avversari - per quanto detestabili - degli Stati Uniti e del «mondo occidentale», ai quali non si riesce ad attribuire la capacità e l’efficienza nel condurre operazioni offensive. Per gli stessi motivi si è data l’ininterrotta litania della messa in circolazione in tempi rapidissimi di ricostruzioni video che pretendono di dimostrare che gli attentati in Europa e altrove siano false flags, operazioni dei servizi segreti occidentali o più precisamente statunitensi.
La mentalità paranoide - qui Hofstadter era nel giusto - reifica il fatto o una serie di eventi secondo una logica che comporta la combinazione di una sorta di empirismo assoluto e di spiegazione con l’azione di forze occulte. Il paranoide è animato da una sorta di misticismo empiristico: al contrario del metodo marxiano egli ignora la contraddittorietà sistemica, ragion per cui può spiegare qualsiasi sequenza di eventi mediante la riduzione ultrarazionalistica della complessità delle relazioni, dei conflitti, degli insuccessi e degli effetti non-intenzionali di piani d’azione di entità occulte.
D’altra parte, senza trascurare l’influenza pubblica di organi propagandistici - a sinistra si tratta di organi russi - e della proliferazione delle tesi più assurde consentita dal Web, questo genere di complottismo può intendersi come il tentativo di razionalizzare il senso d’alienazione e d’impotenza nei confronti dei poteri reali. È una forma di compensazione psicologica che fa da surrogato all’identità tradizionale della sinistra e al fallimento dei partiti epigoni; è quindi anche una forma di rassicurazione politica perché, nella logica manichea dei «campi» della politica mondiale, al polo negativo si oppone quello positivo, ad esempio la Russia. In questo caso alla pessima geopolitica staliniana, finalizzata a preservare nazionalisticamente la dittatura della casta burocratica, è subentrata un’assurda geopolitica fantasmatica, nel senso che essa vive dell’illusione - molto di destra - di una Russia eterna antagonista dell’Occidente, con alla testa un uomo forte e astuto.
Dunque la visione del mondo paranoide non è esclusiva della personalità con inclinazioni fascistoidi; e neanche delle specifiche contraddizioni della società capitalistica. Storicamente, almeno prima del lancio del genocidio ebraico, il caso più mostruoso di paranoia politica e di tesi complottistiche non è quello nazista - già di per sé enorme - ma dell’Unione Sovietica sotto Stalin: in nessun altro paese il complottismo ha raggiunto tali estremi di distruzione di comuni cittadini e perfino di individui e apparati che erano già parte integrante del sistema di potere, culminante con l’eliminazione di alcuni dei capi e degli agenti della stessa persecuzione paranoide; in nessun altro paese spie e sabotatori al soldo dello straniero si sono contati a centinaia di migliaia, su base etnica e per motivi futili; in nessun altro paese la catena delle delazioni estorte e false ha raggiunto dimensioni analoghe. A confronto con le dimensioni, la letalità e la durata del terrore staliniano, la «caccia alle streghe» del maccartismo appare come un gioco innocente. Il terrorismo paranoide delle burocrazie «socialiste» va però inquadrato nelle specifiche contraddizioni di quei sistemi sociali, dei modi peculiari con cui il noi del «popolo» viene strutturato e destrutturato materialmente dall’alto. Al di là delle analogie, anche in questo caso non è solo né principalmente una questione di stile. Semmai occorre ragionare sulle possibilità totalitarie intrinseche alla statualità, tanto più forti quando potere politico e potere economico vengono concentrati in un unico apparato partitico-statale.
8. Prospettive: liberarsi della nostalgia per la «democrazia dei partiti» liberaldemocratica e assumere lo pseudopopulismo e lo pseudoconservatorismo come tratti tipici della postdemocrazia
Dopo la Seconda guerra mondiale, nei paesi europei a capitalismo avanzato il costituzionalismo liberale e parlamentare si combinò, per la prima volta in modo generale e stabile, con il suffragio universale e con il progresso - ineguale e contrastato ma reale - dei diritti socioeconomici. I partiti, specialmente i grandi partiti di massa - socialdemocratici, democristiani, comunisti in Italia e in Francia - mobilitavano, rappresentavano e integravano nel quadro politico dello Stato capitalistico i lavoratori, i contadini, la piccola borghesia. Ma il sistema liberaldemocratico era un ossimoro storicamente temporaneo. Già nel 1966 Otto Kirchheimer definì la trasformazione dei partiti di massa in partiti pigliatutto (catch-all parties):
«Una drastica riduzione del bagaglio ideologico del partito […]; b) un ulteriore rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice, le cui azioni e omissioni sono ora considerate dal punto di vista del loro contributo all’efficienza dell’intero sistema sociale, piuttosto che dell’identificazione con gli obiettivi della loro organizzazione particolare. c) Una diminuzione del ruolo del singolo membro di partito, ruolo considerato come una reliquia storica, che può oscurare la nuova immagine del partito pigliatutto. d) Una minore accentuazione della classe gardée, di una specifica classe sociale o di una clientela denominazionale, per reclutare invece elettori tra la popolazione in genere. e) Assicurare l’accesso a diversi gruppi d’interesse»18.
Entro due anni dal saggio di Kirchheimer i paesi a capitalismo avanzato vennero scossi dalla più grande ondata internazionale di movimenti sociali con tendenza anticapitalistica dall’epoca della Rivoluzione russa, ancor più ampia di quella se si considera che essa fu preceduta e accompagnata dalle lotte di liberazione sociale e nazionale nei paesi dipendenti, coloniali e neocoloniali, e anche in alcuni «socialismi di Stato». Ma i nuovi movimenti sociali non si mossero contro il cosiddetto neoliberismo, bensì contro lo Stato interventista e «keynesiano»; non contestarono i partiti «leggeri» postmoderni e postdemocratici, ma i partiti di massa o pigliatutto della liberaldemocrazia, tra cui anche i partiti comunisti. Nel 1968 l’ordine politico fu messo in discussione non per realizzare la «democrazia dei partiti» (in realtà dei partiti come monopolisti della rappresentanza politica e dell’esercizio del potere statale), ma per abbatterla nella prospettiva - sicuramente confusa ma reale - di creare nuovi istituti e rapporti per socializzare il potere politico: per attribuire realmente al popolo la sovranità. Quando si disprezza il populismo o lo si riduce a uno stile, quando si rimpiangono la liberaldemocrazia e i partiti di massa pigliatutto, implicitamente si giudicano i movimenti del XX secolo in cui più alta volò l’aspirazione alla libertà, all’eguaglianza e alla fraternità.
È passato più di mezzo secolo e intanto la parabola della forma-partito si è integralmente compiuta. I sistemi politici sono mutati, con la trasformazione della liberaldemocrazia in postdemocrazia. La mutazione è il risultato delle trasformazioni dell’economia mondiale e dell’evoluzione interna dei partiti e dei sistemi partitici: del progresso della loro burocratizzazione, dell’integrazione nell’amministrazione statale, della logica del mercato elettorale. L’esercizio del potere politico si è ulteriormente concentrato contemporaneamente a un grande riallineamento delle politiche economiche e sociali - quel che si dice neoliberismo - e alla sostanziale convergenza dell’azione di governo dei partiti (che non significa identità)19.
La postdemocrazia è così sintetizzata da Colin Crouch:
«In base a questo modello, anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici»20.
A mia volta ho così riassunto il nesso tra l’avvento della postdemocrazia e la trasformazione dei partiti di origine operaia:
«Per comprendere fino in fondo il significato storico della mutazione dei partiti della sinistra si consideri la definizione minima della democrazia secondo Norberto Bobbio. Perché ci sia democrazia non sono sufficienti “né l’attribuzione del diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla presa di decisioni collettive a un numero molto alto di cittadini né l’esistenza di regole di procedura come quella di maggioranza (o al limite di unanimità)”. Per Bobbio è indispensabile “una terza condizione: occorre che coloro che sono chiamati a decidere o a eleggere coloro che dovranno decidere siano posti di fronte a alternative reali e siano messi in condizione di poter scegliere tra l’una e l’altra”.
Quando i partiti storici della sinistra hanno rinunciato al tentativo di accordare la riproduzione allargata del capitale con la riduzione della diseguaglianze sociali e hanno anche formalmente abbandonato la velleità di una graduale trasformazione del capitalismo in qualcosa che si potesse dire socialismo; quando hanno adottato integralmente il punto di vista capitalistico o meglio degli interessi immediati del capitale: allora è venuta meno quella che Bobbio considerava la condizione minima della democrazia.
In effetti è venuta meno la tensione interna alla forma ossimorica liberaldemocratica: è rimasta la componente liberale, è evaporata quella democratica.
Trent’anni fa, prima dei successi della new right e del neoliberismo, era già possibile cogliere la tendenza a una nuova trasformazione dello Stato capitalistico.
Ora il cerchio è stato completato con la mutazione soggettiva della sinistra. Questa mutazione costituisce la compiuta chiusura oligarchica del sistema dei partiti e la compiuta unificazione del personale politico in una casta, che al suo interno può dividersi in fazioni competitive ma che è un tutto unitario nei confronti del cosiddetto «popolo sovrano» e sostanzialmente auto-referenziale nel definire i termini del dibattito politico. La postdemocrazia coincide con la conclusione ideale e reale di un secolo di storia del movimento operaio e socialista organizzato. Due fatti enormi che vanno assimilati innanzitutto psicologicamente e poi rielaborati per l’orientamento politico»21.
Se si rilegge la citazione di Kirchheimer si noterà che sono presenti alcuni elementi ora solitamente attribuiti ai partiti detti populisti. Il tempo non passa invano: nella società dello spettacolo e nei sistemi politici in cui i partiti sono integrati nello Stato - completamente dipendenti dal finanziamento pubblico - e le loro funzioni di governo prevalgono nettamente su quelle della rappresentanza, lo pseudopopulismo è in pratica fenomeno diffuso tra quasi tutti i partiti, variabile a seconda delle contingenze. Ovviamente le posizioni pseudopopuliste più paranoidi, sfacciate e volgari sono quelle dei partiti che ancora non occupano o non occupano più posizioni nel governo nazionale, e che quindi possono meglio accreditarsi come alternativi a chi è in carica. Nel quadro del generale spostamento verso destra e delle opportunità che la società dello spettacolo offre alle vedettes pseudopopulistiche si può intendere la mobilitazione elettorale del risentimento e l’impatto dello pseudoconservatorismo paranoide nel senso di Hofstadter.
Paradossalmente, mentre nel regime postdemocratico lo pseudopopulismo impera secondo gradi diversi d’intensità e opportunità contingenti, sono più che mai forti la polemica e la confusione intorno al populismo. Per questo - e ancor più che in passato - in tema di populismo è importante fare attenzione alla sostanza politica, non limitandosi a considerazioni circa lo stile.
Otto Kirchheimer |
Ho cercato di spiegare che la polemica antipopulista è condotta dal punto di vista delle élite postdemocratiche, che hanno tutti i motivi di temere un’autentica rivolta popolare e populista antioligarchica: una rivolta razionale che opponga nella pratica il «noi» del popolo - delle classi e categorie sfruttate e dominate - al «loro» dei pilastri politici, economici e mediatici del capitalismo nazionale e internazionale. Un punto che ai suoi esordi sembrava ben dimostrato dal Movimento 5 Stelle - prima della sua involuzione elettoralistica e parlamentaristica - è che per essere efficace e trascendere i suoi limiti iniziali, di rigetto delle oligarchie politiche, questa rivolta non può essere né elettorale né canalizzata da un partito.
Per andare avanti non ha senso guardare nostalgicamente al passato, all’epoca idealizzata della liberaldemocrazia e della «democrazia dei partiti», al tempo dei partiti che usavano l’identità ideologica come mezzo per conseguire i fini assai prosaici della conquista di posizioni di potere istituzionale. La postdemocrazia, la statalizzazione dei partiti e l’obsolescenza delle ideologie tradizionali dei partiti non sono una deviazione patologica, ma la logica conseguenza delle contraddizioni del regime liberaldemocratico e della logica della competizione elettorale che dal partito pigliatutto porta al cartel party, il tentativo dei partiti dominanti di fare cartello per proteggere il controllo delle loro posizioni di potere e delle risorse pubbliche da nuovi competitori pseudopopulisti.
A volte pare che alla confusione intorno alla nozione di populismo s’intenda rimediare qualificandolo come antipolitica. Ma se con questo termine si vuole esprimere anche un giudizio sprezzante, la confusione in realtà aumenta: vuoi perché esistono buoni motivi per affermare che l’antipolitica è la pratica normale dei partiti di governo - di centro-sinistra come di centro-destra - consistente nella riduzione della politica ad amministrazione dell’esistente, nella convergenza programmatica, nella complice collaborazione per mantenere il monopolio della rappresentanza, negli appelli a un popolo ridotto a fantasma elettorale o «ceto medio»; vuoi perché, ancora una volta, si raccolgono sotto la stessa formula fenomeni diversi e contrastanti e molte sfumature di differenti motivazioni quali l’astensionismo elettorale, che può essere motivato dalla mera delusione o demoralizzazione oppure dal consapevole rigetto delle politiche e dei partiti di governo; il voto di protesta per un partito solo perché non ha avuto responsabilità di governo e appare genericamente alternativo a quelli tradizionali, oppure l’adesione convinta alla sua ideologia. La formula dell’antipolitica è il penoso e mistificante rimpianto per la scomparsa della «democrazia dei partiti». Viceversa un robusto populismo dal basso, l’unità di diversi movimenti sociali che rigettino lo pseudopopulismo elettorale è indispensabile per arginare l’arroganza delle caste postdemocratiche e del padronato.
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— Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012
— «La società dello spettacolo e la critica rivoluzionaria», in Debord e il Situazionismo revisited, a cura di Antonio Saccoccio, Massari ed., Bolsena 2015
— «Donald Trump: vedette pseudopopulista della società dello spettacolo», Utopia Rossa, 11 luglio 2017
Oliver, J. Eric-Wood, Thomas J., «Conspiracy theories and the paranoid style(s) of mass opinion», American Journal of Political Science, vol. 58, n. 4, 2014
Pruessen, Ron, «The 2016 election is seeing the return of the ‘paranoid style’ in American politics», The LSE US Centre, 25 febbraio 2016
Serazio, Michael, «Encoding the paranoid style in American politics: “anti-establishment” discourse and power in contemporary spin», Critical Studies in Media Communication, vol. 33, n. 2, 2016
Wolfenstein, Victor, «Still crazy after all these years: “the paranoid style in American politics”», International Journal of Applied Psychoanalytic Studies, vol. 3, n. 2, 2006
1 Giusto qualche esempio giornalistico dello stile paranoide applicato a Donald Trump: Thomas B. Edsall, «The paranoid style in American politics is back», The New York Times, 8 settembre 2016; Paul Musgrave, «Donald Trump is normalizing paranoia and conspiracy thinking in U.S. politics», The Washington Post, 12 gennaio 2017; Michael Clarke-Anthony Ricketts, «Donald Trump: the Paranoid-Jacksonian», Policy Forum, 21 ottobre 2016; Ron Pruessen, «The 2016 election is seeing the return of the ‘paranoid style’ in American politics», The LSE US Centre, 25 febbraio 2016; Niall Ferguson, «Trump e il potere della paranoia. Così cavalca la rivolta anti-élite», Corriere.it, 25 luglio 2016.
Si vedano anche Douglas Kellner, American nightmare: Donald Trump, media spectacle, and authoritarian populism, Sense Publishers, Rotterdam/Boston 2016 e il mio precedente articolo «Donald Trump: vedette pseudopopulista della società dello spettacolo», Utopia Rossa, 11 luglio 2017.
2 Theodor W. Adorno et al., The authoritarian personality, Harper & Row, New York 1950.
3 Cfr. Marco D’Eramo, «Populism and the new oligarchy», New Left Review, II/82, 2013.
4 Ha un qualche senso mettere a confronto con la destra contemporanea lo Estado Novo di Vargas ma non il peronismo, dal quale scaturirono anche guerriglieri di sinistra; e comunque la politica economica e sociale di Vargas, nonché le ragioni del suo suicidio, sono difficilmente compatibili con lo pseudopopulismo contemporaneo.
5 Sulla discussione del primo ‘900 intorno all’imperialismo e sul contrasto fra la visione dell’economia mondiale capitalistica come strutturalmente caratterizzata dallo sviluppo ineguale e combinato, da una parte, e la tesi della globalizzazione, dall’altra, si veda il mio Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari ed., Bolsena 2006.
6 Si veda la tipologia del populismo in Margaret Canovan, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982; e la critica in «Donald Trump: vedette pseudopopulista della società dello spettacolo», cit.
7 Richard Hofstadter, «The pseudo-conservative revolt», in Id., The paranoid style in American politics, and other essays, Alfred A. Knopf, New York 1965, pp. 42-3.
8 Cit. da Richard Hofstadter, «The paranoid style in American politics», in Id., The paranoid style…, cit., p. 28.
9 «The pseudo-conservative revolt», cit., pp. 62-4.
10 «The paranoid style in American politics», cit., pp. 29-32.
11 Max Horkheimer-Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 182.
12 Ibid., p. 183.
13 Ibid., pp. 187 e 188.
14 Ibid., p. 129.
15 Ibid., p. 138.
16 John Higham, «The cult of the “American consensus”: homogenizing our history», Commentary, 27, 1959.
17 Norman Pollack.
18 Otto Kirchheimer, «La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale», in Sociologia dei partiti politici, a cura di Giordano Sivini, il Mulino, Bologna 1971, p. 191.
19 Sulle esperienze di «terza via» si vedano i saggi raccolti in Philip Arestis-Malcolm C. Sawyer (a cura di), The economics of the Third Way: experiences from around the world, Edward Elgar, Cheltenham (UK)/Northampton (US) 2001.
20 Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003, p. 6.
21 Michele Nobile, Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012, pp. 398-9. La citazione di Bobbio è da Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 6 (corsivo mio).
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