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mercoledì 29 marzo 2017

YEMEN: A HUSHED UP IMPERIALIST WAR, by Pier Francesco Zarcone

This article was translated from Italian into English by Phil Harris for IDN-InDepthNews, flagship agency of the International Press Syndicate. We thank Phil Harris and Roberto Savio for the friendly concern. [Red Utopia]

IN DUE LINGUE (Inglese, Italiano)
IN TWO LANGUAGES (English, Italian)

The US government intends to increase military aid to Saudi Arabia in its war against Yemen, according to recent reports. For the vast majority of the general public the news may be surprising, given that the ongoing conflict in Yemen is almost “non-news” as a result of the almost complete silence of the mainstream media. More importantly, most people probably do not know the causes.

FROM MONARCHY TO REPUBLIC

A summary reconstruction of the troubled and bloody history of Yemen can start in 1962, when a military coup backed by Egypt deposed the last monarch, Zaydi Shiite Muhammad al-Badr, and the Republic was proclaimed.
However, mountain tribes - supplied by Saudi Arabia - continued to support the king, leading to a bloody civil war in which Egyptian troops intervened directly (it was Nasser’s “small Vietnam”).
The civil war ended in the late 1960s (partly because of Egypt’s disengagement as a result of defeat in the Six-Day War against Israel) thanks to agreements between Egypt and Saudi Arabia, which essentially “dropped” al-Badr. Victory went to the Republicans. So much for the north of Yemen.
In the south, controlled by Britain, which had set up the Federation of South Arabia, the National Liberation Front (Marxist) started a guerrilla war in 1963 against the British, finally forcing London to grant independence to South Yemen, where the People’s Republic of Yemen (which became the People’s Democratic Republic of Yemen in 1970) was established in 1967 with Aden as its capital, and with the distinction of being the only communist state in the Arab world.
Attempts at unification between the two Yemeni Republics date back to the early 1970s, but to no avail until the collapse of the Soviet Union.
In 1990, North and South Yemen reunited. It was an unhappy union, because the communists in the south soon realised their error and in 1994 tried to secede. The army remaining loyal to the unity government, much stronger than the secessionist army and also supported by elements in the south, subdued the rebellion during the same year.
It is interesting to note that the rebels had received help from Saudi Arabia which, regardless of the profound ideological difference with them, did not look kindly on Yemeni unification, which it considered could become a dangerous pole of attraction for the hegemonic pretensions of Riyadh over the Arabian Peninsula.
At this point we jump to the present century.

YEMEN: UNA GUERRA IMPERIALISTA SILENZIATA, di Pier Francesco Zarcone

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

È di questi giorni la notizia che il governo degli Stati Uniti intenderebbe aumentare l'appoggio militare all'Arabia Saudita nella guerra iniziata da questo paese contro lo Yemen. Per la stragrande maggioranza del grande pubblico la notizia può essere sorprendente, giacché il conflitto in corso nello Yemen è quasi una "non-notizia", a motivo di un silenzio pressoché completo dei mass media nostrani. E soprattutto non è detto che i più ne conoscano le cause.

DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA

Ai nostri fini la sommaria ricostruzione della travagliata e sanguinosa storia dello Yemen può partire dal 1962, quando un golpe militare appoggiato dal Cairo depose l'ultimo monarca, il giovane imam sciita zaydita Muhammad al-Badr, e venne proclamata la Repubblica.
Tuttavia le tribù delle montagne - rifornite dall'Arabia Saudita - continuarono a sostenere il re, con la conseguenza di una sanguinosissima guerra civile in cui intervennero direttamente truppe egiziane (fu il "piccolo Vietnam" di Nasser).
La guerra civile finì al termine degli anni Sessanta (anche a motivo del disimpegno egiziano per la sconfitta nella Guerra dei sei giorni contro Israele) grazie ad accordi tra Il Cairo e l'Arabia Saudita, la quale sostanzialmente "mollò" al-Badr. Quindi la vittoria fu dei repubblicani. Questo per quanto riguarda lo Yemen settentrionale.
Nel Sud controllato dalla Gran Bretagna, che vi aveva costituito una Federazione Araba Meridionale, dal 1963 il Fronte di Liberazione Nazionale (marxista) aveva iniziato la guerriglia contro i Britannici, costringendo infine Londra a concedere l'indipendenza allo Yemen del Sud, dove nel 1967 si costituì la Repubblica Popolare dello Yemen (diventata nel 1970 Repubblica Democratica Popolare dello Yemen), con capitale Aden, che ebbe il primato di essere l'unico Stato comunista del mondo arabo.
Tentativi di unificazione fra le due Repubbliche yemenite risalgono agli inizi degli anni Settanta, ma senza esito fino al crollo dell'Unione Sovietica.
Nel 1990 Yemen del Nord e del Sud si riunirono. Un'unione infelice, giacché ben presto i comunisti del Sud si resero conto dell'errore commesso e nel 1994 cercarono di effettuare una secessione. L'esercito rimasto fedele al governo unitario, molto più forte di quello secessionista e appoggiato anche da elementi del Sud, domò la ribellione nel corso dello stesso anno.
È interessante notare che i ribelli avevano ricevuto l'aiuto dell'Arabia Saudita che, a prescindere dall'abissale differenza ideologica con costoro, malvedeva l'unificazione yemenita, suscettibile di diventare un polo di attrazione pericoloso per le pretese di egemonia di Riyad sulla Penisola arabica.
A questo punto possiamo saltare fino al presente secolo.

martedì 28 marzo 2017

CARLO BALDELLI: UN LUTTO PER UTOPIA ROSSA, di Andrea Furlan e Mauro Giovannini

Sabato 25 marzo, presso la sua abitazione a S. Maria delle Mole (Castelli Romani), il nostro compagno Carlo Baldelli è stato colpito da un attacco di cuore. A nulla sono serviti i soccorsi e il trasporto all'ospedale di Albano.
La vita di Carlo (detto «Carlone» per amici e compagni a causa della sua imponente mole) è sempre stata caratterizzata da un attività politica intensa: militante dei movimenti degli anni '70, attivo nella campagna contro il nucleare, membro del partito di Democrazia proletaria agli inizi degli anni '80. Terminata l'esperienza di DP, per qualche tempo Carlo si allontanò dalla politica attiva, deluso dalla fine ingloriosa di quell'organizzazione. Ma poi aderì a Rifondazione comunista.
E fu insieme a lui che nel 2007 - come circolo «Rosa Luxemburg» di S. Maria delle Mole - uscimmo da Rifondazione, rifiutando di accettare il voto di quel partito a favore del rifinanziamento delle missioni militari all'estero. Le aveva decise il governo Prodi ma le votò anche Rifondazione.
Per Carlo fu quella l'occasione di una scelta netta a favore della rivoluzione e per questo accettò con entusiasmo la nostra proposta di aderire a Utopia Rossa. E con Utopia Rossa, partecipando attivamente alle sue iniziative anche in altre parti d'Italia, proseguirà l'impegno politico fino alla sua prematura morte.
Sul piano locale e nel quadro delle attività di UR, Carlo seguiva attivamente e assiduamente la vertenza contro l'inquinamento dell'aeroporto di Ciampino, facendo parte dell'assemblea «No Fly». Si impegnò anche nella vertenza contro la speculazione edilizia della zona del «Divino Amore», nel Comune di Marino, dando vita, insieme ai compagni del Centro sociale IPO di Marino, all'assemblea «Stop Cemento».
Carlo si è spento all'età di 65 anni, ancora nel pieno delle sue forze. Con lui perdiamo un compagno instancabile, un uomo generoso e altruista, una persona semplice e pacata, riflessiva e allo stesso tempo determinata a portare avanti con decisione le proprie idee.
Un operaio a tutto tondo, un elettricista che non amava essere comandato dai padroni e che per questo aveva deciso di svolgere il proprio lavoro autonomamente, volendo restare padrone solo di se stesso. La sua formazione comunista non era priva, infatti, di elementi anarchici.

Lo ricordiamo come un uomo onesto, gentile, incorruttibile, infaticabile e sempre pronto a soccorrere chi ne avesse bisogno. Ci stringiamo al dolore della sua famiglia, alla moglie Sandra e a suo figlio Matteo.
Le esequie si svolgeranno, in forma rigorosamente laica, al circolo di Utopia Rossa «Rosa Luxemburg» sito in via S. Paolo Apostolo 19 (S. Maria delle Mole) alle ore 10.30 di martedì 28 marzo.

giovedì 23 marzo 2017

S.O.S. GEOTERMIA, di Maurizio Fratta

La centrale Enel di Bagnore 4 nel comune di Santa Fiora
Ci fu un tempo nel quale scavare nelle viscere della terra per cercare minerali era avvertito come una profanazione.
Mentre i minatori cercavano di propiziarsi gli dei del sottosuolo, furono i fabbri a fondere e liquefare i metalli e a credere nella possibilità di poter cambiare la materia e a confidare, così come avevano fatto gli alchimisti, in una sua possibile trasmutazione.
Un sogno, quello dell'homo faber, meno millenarista di quel che si potrebbe credere considerando quanto l'idea del progresso illimitato abbia permeato non soltanto tutto il diciannovesimo secolo, ma perduri anche nelle attuali società industriali che hanno per obiettivo la trasmutazione della stessa Natura e la sua trasformazione in energia.
Ed è stata senza dubbio l'energia geotermica, tra le risorse energetiche, quella sulla quale l'uomo, sin dalla preistoria, ha cercato di fare affidamento e di trarre il massimo vantaggio.
Un sogno che si sta trasformando in incubo proprio in quella Toscana che ha visto nascere lo sfruttamento industriale delle risorse geotermiche e dove, proprio per il fatto che il suo impatto sull'ambiente è noto da tempo, si sarebbero dovute adottare strategie e soluzioni adeguate ed efficaci.
Ci riferiamo a quel che accade in Amiata dove sono all'opera le centrali geotermiche di Enel Green Power, il cui impatto sull'ambiente circostante non può essere ulteriormente taciuto o sottovalutato.
Sabato 4 febbraio, organizzato dalla Rete nazionale NOGESI e da SOS Geotermia, si è tenuto ad Abbadia San Salvatore un convegno dove ricercatori e studiosi hanno fatto luce sulla gravità dell'inquinamento prodotto dalle centrali e che fa oggi dell'Amiata la più grande questione ambientale dell'Italia centrale.
Non ha usato mezze misure nella sua relazione il geologo Andrea Borgia dell'Università di Milano, mettendo in relazione, dati ufficiali alla mano, la proliferazione dei veleni nell'ambiente e i loro effetti sulla salute delle persone.
È noto che l'attività di estrazione geotermica comporta, insieme al vapore acqueo, la fuoriuscita di fluidi dal sottosuolo che a loro volta rilasciano sostanze tossiche nell'aria, nel suolo, nelle acque superficiali: biossido di carbonio, ammoniaca, idrogeno solforato, metano, idrogeno a concentrazioni elevate e con essi altre sostanze dannose per la salute e l'ambiente, tra le quali cloruro di sodio, boro, arsenico, mercurio.

venerdì 17 marzo 2017

LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE (Mel Gibson, 2016), di Pino Bertelli

Posso credere soltanto a degli dèi morti,
angeli banditi dalle ali infrante,
vergini di legno dipinto che si scrostano,
e cristi in pietra a cui le intemperie hanno cancellato
i lineamenti alle porte delle chiese.
(Jean-Michel Maulpoix)

La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson è un'operazione commerciale furba… molto furba… racconta la vera storia di Desmond T. Doss (con molta audacia cartolinesca), primo obiettore di coscienza a ricevere la medaglia d'onore del Congresso degli Stati Uniti (la più alta onorificenza militare statunitense). Delle vicende biografiche di Doss si sono occupati riviste, fumetti, libri e ora il film di Gibson… si tratta di un ragazzo della Virginia, cresciuto secondo la fede della Chiesa cristiana avventista del settimo giorno (un movimento religioso, vegetariano, che osserva il riposo del sabato e prega la seconda venuta di Gesù Cristo), che, dopo l'attacco dei giapponesi alla base militare di Pearl Harbor (7 dicembre 1941, ore 7.58), va volontario sotto le armi (spinto dalla forza in Dio e dal Patriottismo, che come sappiamo è l'ultimo rifugio delle carogne con o senza divisa). Però non vuole impugnare il fucile, ma aiutare i feriti sul campo… viene imprigionato e subisce un processo per vigliaccheria, ma il tribunale gli dà ragione (con la mediazione di un generale amico del padre, combattente decorato nella Prima guerra mondiale) e lo invia in prima linea come aiuto medico (prima di partire ha una licenza e si sposa)… riesce a salvare 75 soldati durante la battaglia di Okinawa, nel giugno 1945, e sarà coperto di medaglie (Bronze Star, Purple Heart) e celebrato come un eroe fino alla sua scomparsa (23 marzo 2006).
La battaglia di Hacksaw Ridge è candidato a una messe di premi (Oscar, Critics’ Choice Movie Award, AACTA International Award, Golden Globe, BAFTA Award ecc.)… non c'importa niente quanti ne potrà ricevere né c'importa se critica e pubblico si trovano in accordo sull'intrattenimento guerrafondaio e religioso di questo film ampolloso di sangue e spettacolo dispensati con particolare attenzione a corpi bruciati, gambe tagliate, braccia mozzate, teste piene di vermi e topi che pasteggiano con le viscere dei soldati… gli affari sono affari… il box-office conferma il successo e la guerra finta (come quella vera) porta un brivido di piacere al pubblico rincitrullito della civiltà consumerista.
Il film armato di Gibson si attesta sulla confessione in Dio e nel coraggio dei guerrieri in difesa della Patria e della Famiglia… bella roba… porco cane! sempre il medesimo lezzo! ovunque! l'imbecillità dilaga, al cinema e dappertutto! ogni imbecille è fiero di sé! e d'imbecilli sono sempre stati fecondi i governi!… ma è inconcepibile aderire a una religione, a un'ideologia, a una nazione fondate sulla violenza… l'ottimismo, come è noto, è la dottrina dei sudditi, dei servi, degli agonizzanti che confondono il boia col santo, che poi è la medesima cosa… e non comprendono che una piccola cosca di saprofiti produce le guerre e sono i popoli a subirle… disconoscere la guerra significa disconoscere ogni potere che la sostiene… disobbedire, disertare, opporsi ai bastardi della guerra, vuol dire combattere la crudeltà dei potenti e ricacciarli nelle fogne da dove sono usciti. L'obbedienza esiste solo fintantoché dura il consenso, come il re, il papa o un capo di stato finché dura l'estasi. L'obbedienza non è mai stata una virtù!

giovedì 16 marzo 2017

GUATEMALA: EL ESTADO, ¿A QUIÉN DEFIENDE?, por Marcelo Colussi

© Carlos Sebastián
La reciente muerte de 40 jóvenes en el Hogar Seguro Virgen de la Asunción, en Guatemala, instancia pública regenteada por la Secretaría de Bienestar Social, abrió una visión crítica de la situación de la sociedad y del Estado: ¿quién mató a estas adolescentes: el fuego, un carcelero irresponsable o un Estado neoliberal ineficiente, heredero del Estado-finca que ha venido caracterizando a la nación desde sus albores, defensor de los grandes grupos agroexportadores e inexistente para las necesidades populares?
Ello lleva a preguntar: ¿por qué una sociedad es como es? En este caso: ¿por qué esta sociedad tiene 60% de su población bajo el límite de la pobreza, 20% de analfabetismo, machismo-patriarcal a la orden del día, la mitad de su niñez desnutrida, más de un 11% de su PBI constituido por remesas familiares de personas que se van irregularmente a Estados Unidos a trabajar en condiciones de precariedad, pandillas juveniles violentas, 25% de la población urbana viviendo en barrios marginalizados, 11% de la niñez urbana trabajando, más cantinas que escuelas y hospitales y centros de salud desabastecidos? Lo cual lleva a esta otra pregunta: ¿por qué un Estado “normaliza” todo esto?
El Estado es el mecanismo social que legitima una situación dada. Dicho de otro modo: el Estado constituye en ley, en ordenamiento simbólico universal, en mandato social obligado, un determinado estado de cosas. La legislación (que es siempre una construcción histórica, una convención) viene a darle valor inamovible e incuestionable a una situación determinada. En ese sentido, la ley no es necesariamente justa. Es “lo que conviene al más fuerte”, como dijera Trasímaco de Calcedonia en la Grecia clásica. El dirigente bolchevique Vladímir Lenin lo dirá con otras palabras dos milenios y medio después: “El Estado es el producto irreconciliable de las contradicciones de clase”.
El Estado es una fiel representación de lo que es la sociedad. En Guatemala se asiste a un Estado de espalda a las necesidades reales de su población. Un Estado que reprime, que viola en la práctica lo que declara en su Constitución, que beneficia a unos pocos en detrimento de las grandes mayorías. El Estado, en ese sentido, se constituye en el principal violador de los derechos mínimos y elementales de su gente.
¿Por qué murieron calcinadas 40 jovencitas que protestaban por abusos, negocio de trata sexual del que eran víctimas, golpes y vejaciones? No por el carcelero desquiciado que no abrió la puerta: murieron por una sumatoria de causas de las que el Estado es el principal factor y su representación más cabal.
El Estado de Guatemala -al igual que el Estado de cualquier país capitalista- no atiende realmente las necesidades de su población. En los países prósperos del Norte puede que invierta mucho más en cuestiones sociales, porque su situación económica se lo permite. Pero cuando la lucha de clases se pone al rojo vivo, nunca se equivoca en relación a quién debe defender. En el Sur, en los países pobres de África, Asia y América Latina, el Estado es equivalente a ineficiencia, corrupción y represión.

sabato 11 marzo 2017

CONOCIÉNDONOS MÁS: EL PUEBLO AWAJÚN, por Hugo Blanco

Los awajún son un pueblo rebelde que pertenece a la familia de los jíbaros.
El pueblo aguaruna o awajún (nombre preferido por algunos hablantes awajún, aunque también usan ii-ni-ia - ‘uno de nosotros’) es una etnia de la selva amazónica peruana. Los aguarunas descienden de los fieros jíbaros, guerreros formidables que defendieron incansablemente su libertad y que, por lo mismo, se mantuvieron durante mucho tiempo fuera del alcance y el conocimiento del hombre occidental. Así, se enfrentaron a las invasiones incaicas, que no lograron someterlos.
Tampoco los pudieron adoctrinar los sacerdotes, especialmente jesuitas y dominicos, muchos de los cuales murieron en el intento. Los awajún se enfrentaron frecuentemente con los españoles que intentaron reducirlos en las misiones. Esta resistencia indígena ocasionó continuos fracasos de los misioneros hasta que, en 1704, los misioneros jesuitas recibieron la orden de abandonar la labor misional en la zona ocupada por los llamados pueblos jíbaros.
Ahora, después de siglos, en España, inclusive los revolucionarios, usan como adjetivo, para señalar algo terrible, la palabra “jíbaro”. Lo “terrible” del jíbaro era que reducía las cabezas de sus enemigos fallecidos en el combate. Al parecer los españoles consideran que eso es más terrible que las torturas de la época de Franco. Otra cosa terrible para España es que expulsaron a los jesuitas.
Es uno de los pueblos más numerosos de la Amazonía peruana. Su lengua es la más hablada entre las cuatro que pertenecen a la familia lingüística jíbaro. Se extendieron por toda la cuenca del río Cenepa y su población se distribuye en los territorios por los que hoy pasa la línea de frontera entre el norte del Perú y el sur de Ecuador. Por esta ubicación fueron afectados directamente por el conflicto Perú-Ecuador. Ellos denunciaron que querían hacerles pelear entre hermanos y declararon que no querían hacerlo, que unidos quienes viven en Ecuador y el Perú lucharían contra las grandes empresas depredadoras del medio ambiente.
En Ecuador se les conoce como “Shuar”. Precisamente ahora están siendo atacados militarmente por el gobierno “progresista” de Correa, quien, sin su permiso, pretende impulsar la depredación de su territorio dando paso a una empresa minera china.
El pueblo awajún vive principalmente en el departamento de Amazonas, aunque también se encuentran comunidades de este pueblo en el norte de los departamentos de Loreto, Cajamarca y San Martín. Según datos obtenidos por el Ministerio de Cultura, la población de las comunidades del pueblo awajún se estima en 83,732 personas. En el departamento de Amazonas, los awajún son mayoría entre las etnias nativas (un 90% aproximadamente).

mercoledì 8 marzo 2017

EQUIDAD DE GÉNERO: UN PROBLEMA NO SÓLO DE MUJERES, por Marcelo Colussi

La situación social de las mujeres es un problema que afecta a ellas primera y principalmente, pero no restringe su abordaje y posible solución al ámbito femenino. Por el contrario, es una problemática de corte social que involucra por fuerza a la totalidad de la población, varones incluidos.
Aclaremos rápidamente, evitando malentendidos, que ello no significa que la solución esté en manos masculinas. Lo importante a destacar es que, aunque son las mujeres quienes llevan la peor parte, la comunidad en su conjunto se perjudica ante el hecho discriminatorio, ante esta inequidad de géneros. Si se aborda profundamente el problema, la conclusión obligada confronta primeramente a los varones, en tanto los discriminadores; pero en otro sentido: a la sociedad como un todo, pues la historia generó esas formas de organización marcadas hondamente por una ideología machista-patriarcal.
Las diferencias sexuales anatómicas conllevan otras tantas diferencias psicológicas; pero esto no explica, y mucho menos justifica, la posición social del género femenino. Ninguna conducta humana puede concebirse solamente en términos biológicos. Aunque este determinante exista -el macho, en muchas especies animales, es más fuerte que la hembra, también entre los humanos-, se dan otros procesos que posicionan culturalmente a las mujeres.
Como una constante en diversas civilizaciones, las mujeres se ven sometidas a un papel sumiso ante la imposición varonil. No significa “papel secundario”, pues su quehacer es básico al mantenimiento del grupo social, pero sí ausente en la toma de decisiones. Hasta ahora las mujeres, como género, han estado excluidas del ejercicio del poder. Los trabajos femeninos, en esta concepción patriarcal, se consideran secundarios, poco “importantes”.
En el ámbito humano, el horizonte desde donde se estructuran las conductas está regido por algo no exclusivamente biológico, y que en términos de ordenamiento macho-hembra no responde tanto a realidades anatómicas sino a posicionamientos subjetivos, propios del campo simbólico, no del orden físico-químico. El machismo, en tanto una posibilidad de relaciones entre hombres y mujeres, no tiene ningún fundamento genético.
En otros términos: en lo humano no hay correspondencias biológico-instintivas entre machos y hembras sino ordenaciones entre “damas” y “caballeros”. El acoplamiento no está determinado/asegurado instintivamente. Tiene lugar, pero no siempre (hay relaciones homosexuales, hay voto de castidad, hay psicopatología en esto); y no necesariamente está al servicio de la reproducción (eso es, antes bien, una eventualidad; la mayoría de los contactos sexuales no buscan la procreación). Masculinidad y femineidad son construcciones simbólicas, arraigadas en la psicología de los humanos y no en sus órganos sexuales externos. La cuestión de géneros se desenvuelve en el campo social.

sabato 4 marzo 2017

LA CORRUPCIÓN, por Hugo Blanco

Mientras las sociedades sean verticales como en la falsa “democracia” en que vivimos, habrá corrupción.
La sociedad está dividida entre los que mandan y los que obedecen.
El mundo está gobernado por las grandes empresas transnacionales que ponen a sus sirvientes como gobernantes. Están bajo su mando los poderes ejecutivos, las mayorías parlamentarias, los poderes judiciales, las fiscalías, la policía, el ejército, los grandes medios de comunicación, etc.
Por supuesto que no son homogéneos, tienen muchas diferencias entre ellos. Esas diferencias han provocado el escándalo actual alrededor de Odebrecht y otras empresas.
Hay corrupción desde los presidentes hasta los alcaldes distritales. Es muy conocido que en la provincia de La Convención, Cusco, los alcaldes preguntan a una empresa constructora: –“¿Por cuánto me hace el local del municipio?” –“Por tres millones” –“Le doy 4 y me hace la factura por 5”.
Cuando el mandato es colectivo, desaparece la corrupción. Pueden pensar que esto es pura poesía. Voy a citar dos ejemplos:

– MUNICIPIO DE LIMATAMBO, PROVINCIA DE ANTA, DEPARTAMENTO DE CUSCO
La comunidad indígena, en general, es una organización democrática, a pesar de que “la ley” ordena que mande el presidente.
La Federación Distrital de Campesinos del distrito de Limatambo decidió que como el campesinado comunero era la mayoría de la población del distrito, ellos debían poner al alcalde y los regidores, pero no para que sean los elegidos quienes gobiernen, sino para que la gobernante sea la Asamblea General de delegados y delegadas de las comunidades. Se hizo la votación secreta para quién debía ser el candidato y fue elegido Wilbert Rozas, el actual parlamentario. Naturalmente ganaron la elección.
Se cumplió el acuerdo, El alcalde y los regidores no hacían lo que ellos pensaban que era correcto, sino lo que decidía la Asamblea. Ésta se reunía cada tres meses y determinaba qué debía hacer el municipio. En la siguiente asamblea el gobierno municipal informaba cómo había cumplido el mandato de la asamblea anterior; luego de evaluar el informe, se decidía lo que se haría en los tres meses siguientes.
Los vecinos del poblado de la capital del distrito decidieron enviar también ellos sus delegados. La Asamblea comunal gobernante se convirtió en Asamblea comunal y vecinal.
Toledo, que era el presidente, visitó Limatambo y dijo que quisiera que haya 100 limatambos en el Perú pues ahí el municipio rendía cuentas cada tres meses. No mencionó que la asamblea gobernaba. Recomendó que los parlamentarios fuesen a Limatambo para elaborar la ley de municipalidades. Los parlamentarios no fueron, pero sacaron la “Ley de presupuesto participativo”, que no se cumple en ninguna parte.